Il sacrificio di Isacco nell’iconografia ebraica (parte II)

A partire dalla rappresentazione di Genesi XXII ospitata nella sinagoga di Beth Alpha, analizzeremo come il Libro dei Giubilei abbia sancito una corrispondenza tra i brani biblici del Sacrificio di Isacco e della Liberazione dall’Egitto. Inoltre, nella figura di Isacco, che qui appare nella foggia di un bambino inerme e spaventato, ci sarà dato osservare la divaricazione interpretativa intercorsa tra il mosaico e la tradizione esegetica. In numerosi testi, infatti, è lo stesso patriarca, ormai adulto e consapevole, a offrirsi spontaneamente al disegno divino.

di Lorenzo Orazi

COPERTINA: CARAVAGGIO, SACRIFICIO DI ISACCO, 1598
SEGUE DALLA PARTE I

Beth Alpha

La sinagoga di Beth Alpha fu rinvenuta a Sud della Galilea nel 1929. Le iscrizioni, individuate al suo interno, certificano l’appartenenza della struttura all’epoca dell’impero di Giustino I (518-527). Dall’ingresso della sinagoga si dispiegano tre scene in direzione della parete che ospita l’Arca della Torah, orientata verso Gerusalemme. Esse rappresentano l’Akedah, lo Zodiaco e l’Arca.

Consideriamo il nostro episodio. Rispetto alla raffigurazione dello stesso tema in Dura Europos, è possibile notare come qui l’artista si sia più rigidamente attenuto alla narrazione biblica: in primo luogo, sono stati aggiunti i due servi con l’asino; inoltre, lo sviluppo compositivo dell’immagine da sinistra a destra è atto a suggerire la linearità cronologica dell’evento, così come riportata dal testo sacro.

Sulla sinistra uno dei servi di Abramo poggia le mani sul dorso dell’asino; il secondo tiene la cavezza in una mano e nell’altra un frustino. Al centro dell’immagine un grande ariete stante in posizione verticale è legato a una pianta, sproporzionata e piccola rispetto all’animale, che divide lo spazio sacro da quello profano. Sopra l’ariete appare la Mano di Dio: emerge, in una foggia caratteristica, da una sorta di nuvola nera. Siamo giunti al nucleo della scena. Abramo è rappresentato con la barba e vestito di una tunica: nella mano destra stringe un lungo pugnale, mentre la sinistra si protende in una posizione particolarmente ambigua: non è chiaro se stia poggiando Isacco sull’altare o se, al contrario, avendo già udito la Voce di Dio, si prepari a ritrarlo a sé. La figura di Isacco è forse la più enigmatica della composizione: vediamo un bambino sospeso a mezz’aria, ha le braccia incrociate ma non legate; è vestito di una tunica e indossa una “strana sciarpa” al collo; è in preda a un’emozione di esplicito terrore.

Beth Alpha, Akedah

Ariete e significato pasquale

Similmente a quanto avveniva nel dipinto di Dura Europos, anche qui all’ariete è stata accordata una rilevanza notevole. L’animale non appare, come riportato nel testo biblico, “con le corna impigliate in un cespuglio” (v.13); esso è invece legato tramite la cavezza ad un albero. Tale configurazione sembra fare riferimento alla tradizione rabbinica: in essa si affermava che l’ariete fosse stato creato in origine, alla vigilia del primo sabato, in vista del ruolo che avrebbe dovuto ricoprire nell’Akedah [1]

Nei Midrash l’ariete godette di ampia considerazione sin dal principio. Tale attenzione si deve al fatto che, se Dio non lo avesse fornito in sostituzione del figlio di Abramo, il patriarca non avrebbe mai avuto una discendenza e l’adempimento dell’alleanza sarebbe stato inattuabile. La morte di Isacco avrebbe sancito il fallimento della promessa; di conseguenza, la sua liberazione per mezzo dell’ariete coincide con la liberazione di Israele.

Alla base di questa tradizione interpretativa troviamo il Libro dei Giubilei. Datato approssimativamente tra il 160 e 150 a.C., viene generalmente considerato il primo testo della letteratura post-biblica a dedicare una particolare attenzione all’episodio di Genesi XXII. Nel brano del testo riguardante l’Akedah si può osservare una precisa volontà di costruire un collegamento con l’episodio della Liberazione dall’Egitto, se non addirittura di fare del primo un modello per il secondo.

Non a caso il Libro dei Giubilei riporta una struttura cronologica molto puntuale: Abramo e Isacco partono in direzione del luogo sacrificale il dodicesimo giorno del mese di Nissan. Aggiungendo a questa data tre giorni di cammino, che padre e figlio impiegano per raggiungere il monte, ci troveremmo nel giorno quindici del mese: è la data in cui cade l’inizio di Pesach, la Pasqua ebraica. Inoltre, sul concludersi della narrazione, il testo afferma che Abramo per celebrare la salvezza accordata a suo figlio sancisce una festività della durata di una settimana, e che continuerà a celebrarla negli anni a venire. Va notato che entrambe le istanze, tanto la cronologica quanto la festiva, sono del tutto assenti nell’originale biblico.

L.A. Huizenga nell’articolo “The battle for Isaac: exploring the composition and function of the Aqedah in the Book of Jubilees” [2] individua ulteriori connessioni interne, prevalentemente di carattere linguistico, fra il brano dell’Akedah e quello della Liberazione dall’Egitto. Il Libro dei Giubilei afferma che Abramo, in seguito agli avvenimenti di Genesi XXII, festeggia con “gioia”. Lo stesso termine viene usato nella regolamentazione riguardante la Pasqua: anche la liberazione dalla schiavitù deve essere celebrata con “gioia”. Altro punto in comune consiste nell’identificazione dell’angelo Mastema con il personaggio di Satana. Mastema presiede in entrambi gli episodi: nello specifico, nel brano dell’Akedah, egli accusa Abramo di iniquità affinché il Signore lo metta alla prova. Secondo Huizenga anche in questo caso è un confronto di carattere testuale a fornire gli indizi più decisivi. In entrambe le narrazioni appaiono i verbi “shame” e “stood”: sono riferiti rispettivamente a Mastema e all’Angelo della Presenza, e stanno a indicare la sconfitta del primo e il trionfo del secondo. Va sottolineato che un accordo di termini così specifico non si verifica in nessun’altra sezione del testo.

Tanto nella narrazione dell’Akedah quanto in quella della Pasqua è dunque la minaccia demoniaca e la messa in pericolo dell’alleanza a incombere sul popolo eletto. Entrambe le redenzioni avvengono per mezzo di un sacrificio di sostituzione: nel primo caso dell’ariete, nel secondo dell’agnello. Se Abramo avesse sacrificato Isacco la discendenza non sarebbe mai esistita; se l’esercito egiziano fosse riuscito a distruggere Israele il popolo dell’alleanza si sarebbe estinto. L’obbedienza di Abramo sul monte Moria prefigura così quella del popolo eletto in Egitto. Le concomitanze testuali, concettuali e cronologiche — conclude Huizenga — non sono frutto di casualità, ma necessarie a determinare un legame ermeneutico fra i due episodi. 

L’eredità del Libro dei Giubilei verrà accolta nelle celebrazioni di Pesach, al punto che la notte della vigilia divenne consuetudine narrare la storia del Sacrificio di Isacco. Questa associazione andrà perduta nel tempo, probabilmente a causa del nuovo significato che la cristianità attribuirà alla Pasqua come morte e resurrezione di Cristo [3]. La tradizione rabbinica vede Genesi 22, 1-18 nella cornice interpretativa della prova di fede; il brano offre l’immagine del sacrificio perfetto, nel quale il corpo dell’ariete e quello di Isacco sono fatti coincidere in un tutt’uno. La situazione muta nella lettura dei padri della chiesa, in cui la svalutazione di Isacco prende il sopravvento; non è quest’ultimo l’anticipatore di Cristo, bensì l’ariete stesso: 

“Per conto di Isacco il giusto, un ariete apparve per l’uccisione, affinché Isacco potesse essere liberato. L’assassinio dell’ariete libera Isacco, così l’assassinio del Signore salvò noi tutti.” 

[4]

Tanto Isacco quanto l’ariete saranno interpretati secondo il metodo della lettura tipologica come prefigurazioni di Cristo; in alcuni casi, però, il patriarca verrà considerato imperfetto, e il tempo non ancora maturo per il sacrificio. L’effetto espiatorio, che tanto fu esaltato negli scritti rabbinici e nel Libro dei Giubilei, presso i cristiani non otterrà la stessa fortuna. 

Beth Alpha, panoramica interna

La sottomissione di Isacco: Pseudo Filone

Ai fini di una lettura adeguata dell’immagine di Genesi 22, 1-18 presente in Beth Alpha, la figura di Isacco costituisce un nodo critico centrale. Egli ci viene mostrato nelle vesti di un bambino indifeso e spaventato, inerme al cospetto delle scelte di suo padre. Ciò costituisce una forte divaricazione rispetto ai testi della tradizione esegetica: numerosi scritti, infatti, affermano che quando Isacco fu condotto al sacrificio egli era già un uomo adulto. Tale attenzione all’età di Isacco è fondamentale, in quanto in essa si esprime la necessità di pensarlo maturo a sufficienza da sottomettersi spontaneamente al volere di Dio. Nel primo secolo d.C., questo indirizzo interpretativo ottiene ampia fortuna.

Nell’opera “Liber antiquitatum Biblicarum, attribuita allo Pseudo Filone, si fa riferimento all’Akedah in tre diversi momenti. Tra questi il primo si inserisce nella narrazione della vicenda di Balaam, l’indovino a cui Balak, re di Moab, chiese di maledire il popolo di Israele per contrastarne l’avanzata. Dio appare a Balaam e gli impone di negare i suoi servigi al sovrano, adducendo i motivi dell’elezione del popolo di Israele:

“Was it not concerning this people that I spoke to Abraham in a vision, saying, ‘Your seed will be like the stars of the heaven’, when I lifted him above the firmament and showed him the arrangements of all the stars? I demanded his son as a burnt offering and he brought him to be placed on the altar. But I gave him back to his father and, because he did not object, his offering was acceptable before me, and in return for his blood I chose them.”

(18.5)

Huizenga [5] sottolinea che nel brano l’Akedah sia ritenuta valida agli occhi di Dio in virtù dell’obbedienza di Isacco. Secondo l’autore, infatti, la frase “he did not object” deve essere riferita a Isacco: ciò determina una notevole esaltazione del suo ruolo nella vicenda. Se nel passo appena riportato il tema della condiscendenza di Isacco rimane ancora implicito, proseguendo nel testo vedremo come lo Pseudo Filone non lasci aperto alcun dubbio in proposito. Consideriamo dunque il brano riguardante il Cantico di Debora, nel quale Abramo comunica al figlio che sta per essere offerto in sacrificio, e che il suo destino è di ritornare nelle mani del Signore. Alla confessione del padre Isacco risponde:

“Hear me, father. If a lamb of the flock is accepted for an offering to the Lord for an odour of sweetness, and if for the iniquities of men sheep are appointed to the slaughter, but man is set to inherit the world, how then sayest thou now unto me: come and inherit a life secure, and a time that cannot be measured ? What and if I had not been born in the world to be offered a sacrifice unto him that made me? And it shall be my blessedness beyond all men, for there shall be no other such thing; and in me shall the generations be instructed, and by me the peoples shall understand that the Lord hath accounted the soul of a man worthy to be a sacrifice unto him.” 

[6]

Essere considerato degno di sacrificio è per Isacco un onore incomparabile; mediante la sua sottomissione la benedizione ricadrà sulle generazione future, e per suo tramite saranno date le istruzioni per seguire la volontà divina. 

Ai fini del nostro studio rimane un ultimo brano del LAB da prendere in considerazione, quello in cui si narra del sacrificio di Seila, figlia di Iefte. Nella Bibbia l’episodio è riportato nel Libro dei Giudici: Iefte, prima di intraprendere la guerra contro il popolo ammonita, oppressore degli israeliti, fa voto di offrire in sacrificio il primo che gli sarebbe venuto incontro al ritorno dalla campagna bellica. Quando vide delinearsi sull’orizzonte il profilo della sua unica figlia, Seila appunto, il volto di Iefte impallidì.

Pseudo Filone accosta qui la figura di Seila a quella di Isacco, e Huizenga [7] si cimenta nel compito di individuare le affinità letterarie che accomunano i due personaggi. Seila è descritta come il frutto del ventre di Iefte (39.11), lo stesso vale per Isacco, frutto del ventre di Abramo (32.2); la primogenitura di entrambi viene ripetutamente esaltata (39.11) (40.1). Sopra ogni altra corrispondenza spicca la risposta con cui Seila accoglie la notizia del sacrificio che l’attende, è questa che la illumina come perfetto analogo di Isacco:

“Who is there who would be sad to die, seeing the people freed? Or have you forgotten what happened in the days of our fathers when the father placed the son as a burnt offering, and he did not dispute him but gladly gave consent to him, and the one being offered was ready and the one who was offering was rejoicing?… If I will not offer myself willingly for sacrifice, I fear that my death would not be acceptable and I would lose my life to no purpose.”

(40.2, 3b)

Seila vede ravvivarsi nella memoria il ricordo di Isacco. È l’esemplarità di quest’ultimo, sancita nel Cantico di Debora, a offrirle il modello di condotta nel donarsi volontariamente a Dio affinché la sua morte non avvenga invano.

J.W. Cook, Il sacrificio di Jefte (ispirato a un’opera di J. Opie)

Il IV Libro dei Maccabei

L’elevazione di Isacco a modello di condotta può essere individuata anche in un altro testo del I secolo d.C., ossia il IV Libro dei Maccabei [8]. Si tratta di uno scritto apocrifo dell’Antico Testamento, nel quale viene elaborata l’idea del predominio delle ragioni religiose sull’emotività e le passioni. Il testo narra le vicende di Eleazaro e dei sette fratelli. Giasone regna sul popolo di Israele ma la sua condotta è in contrasto con la legge divina, al punto che egli arriva a decidere l’annullamento delle celebrazioni nel Tempio. La rabbia di Dio prende forma nella figura di Antioco, il quale invade Gerusalemme e comanda di uccidere chiunque venga trovato conforme alla Legge ebraica. L’intera narrazione, inerente i martiri Eleazaro e i sette fratelli che vanno incontro al loro destino, è strutturata sull’esempio di Genesi XXII. Le loro torture sono definite come “prove” (1.7; 16.2) e, in riferimento ai protagonisti, l’autore utilizza l’epiteto di “figli di Abramo” (6.17; 6.22; 18.23). In particolare, la madre dei sette fratelli è descritta come segue: 

“But this daughter of Abraham remembered his holy fortitude. O holy mother of a nation avenger of the law, and defender of religion, and prime bearer in the battle of the affections!”

(15. 28-29)

Come la sua genìa ed Eleazaro, anche la donna è “figlia di Abramo”; ma a lei viene conferita l’ulteriore definizione di “madre delle nazioni”, derivata da quella di “padre delle nazioni” dello stesso Abramo. Infine, i sette fratelli, prossimi alla tortura, si incoraggiano vicendevolmente facendo diretto riferimento a Isacco:

“And one said, “Courage, brother”; and another, “Nobly endure”. And another, “Remember of what stock you are; and by the hand of our father Isaac endured to be slain for the sake of piety”. And one and all, looking on each other serene and confident, said, “Let us sacrifice with all our heart our souls to God who gave them, and employ our bodies for the keeping of the law.”

(13. 11-13)

A questa data Isacco è già l’archetipo del martire. Il fatto che egli non venga sacrificato non è rilevante, ciò che conta è l’esempio della sua ferma obbedienza alla volontà divina. Come già accadeva nell’episodio di Seila narrato dallo Pseudo Filone, l’autore del IV Libro dei Maccabei argomenta che la morte del giusto ha effetto di redenzione sul popolo di Israele, allontanando  l’oppressore e purifica dai peccati [9]. La sofferenza, la morte di Eleazaro e dei sette fratelli libera il popolo di Israele dall’ira divina, scatenatasi a causa dell’apostasia di Giasone. I martiri avrebbero potuto nascondere la propria fede e abbracciare la vita pagana voluta da Antioco, ma decidono di affidarsi al disegno divino. La loro perseveranza lascia sbigottiti gli aguzzini, al punto che il capo delle truppe nemiche li indica ai soldati come modelli di coraggio. L’invasore, realizzando di aver fallito nel tentativo di convertire gli israeliti al paganesimo, abbandona la terra di Gerusalemme.

Antonio Ciseri, Il martirio dei sette fratelli Maccabei

Flavio Giuseppe

Dobbiamo infine soffermarci sulle Antichità Giudaiche di Flavio Giuseppe. Nel testo “Josephus as a biblical interpreter: the Aqedah” [10], Feldman pone all’attenzione del lettore il debito contratto da Flavio Giuseppe nei confronti della tradizione Greca. La disamina parte dalle affermazioni del filologo e critico letterario Eric Auerbach. Secondo quest’ultimo la Bibbia è caratterizzata da una narrazione estremamente sobria, dove a manifestarsi sono soltanto i fenomeni necessari allo svolgimento del racconto, mentre l’intero apparato di pensieri ed emozioni resta in penombra, suggerito soltanto dal silenzio o in discorsi frammentari.

Auerbach pone quindi a confronto l’opera omerica con la Bibbia. Se la prima è dotata di una trasparenza che lascia poco all’interpretazione del lettore, la seconda, attraverso i continui rimandi al passato e alle esperienze dei personaggi, dona al racconto una forte componente di suspense. Seguendo le osservazioni del critico letterario, Feldman ritiene che Flavio Giuseppe metta in atto un’ellenizzazione del racconto biblico. L’eliminazione della suspense è, in tal proposito, un punto cardine: Flavio Giuseppe la ottiene chiarificando sin da principio che l’ordine di sacrificare Isacco non è altro che una prova, e stabilendo, inoltre, che Abramo ha già raggiunto la felicità attraverso i doni di Dio, ottenuti come ricompensa alla sua costante obbedienza. Flavio Giuseppe omette l’ordine di Dio (Gen 22,2) e il dialogo fra padre e figlio (Gen 22, 7-8) al fine di porre l’evento in una distanza razionale e uniforme.

Oltre all’influenza dell’opera di Omero, Feldman individua una vicinanza tra il brano di Genesi XXII, così come viene esposto nelle Antichità Giudaiche, e l’“Ifigenia in Aulide” di Euripide [11]; opera di riferimento, per quanto riguarda i temi del sacrificio e del martirio, in tutta la tradizione greco-romana. In tal proposito si può osservare come Flavio Giuseppe enfatizzi il silenzio che Abramo adotta riguardo l’ordine ricevuto da Dio, silenzio che lo porta a nascondere il suo piano perfino a Sara, sua moglie. In Ifigenia lo stesso accadeva tra Agamennone e Clitennestra: il capo degli Achei scrive una lettera a sua moglie affinché gli sia mandata Ifigenia e, per giustificare la richiesta, sostiene di volerla dare in sposa ad Achille. Tanto Abramo quanto Agamennone fanno voto di silenzio al fine di evitare che la volontà divina possa essere intralciata. 

Proseguendo nella rivisitazione di Genesi XXII operata da Flavio Giuseppe notiamo che, come accadeva nelle fonti analizzate in precedenza, Isacco è descritto entusiasta di abbracciare il destino di vittima sacrificale. La sua determinazione è tale da indurlo a esclamare che, laddove si opponesse all’ordine di Dio, non sarebbe degno di essere nato: 

“Now Isaac was of such a generous disposition as became the son of such a father, and was pleased with this discourse; and said that he was not worthy to be born at first, if he should reject the determination of God and of his father, and should not resign himself up readily to both their pleasures; since it would have been unjust if he had not obeyed, even if his father alone had so resolved.”

[12]
Francois Perrier, Il sacrificio di Ifigenia

Ifigenia, dal canto suo, rispondeva in una maniera affatto simile: “Se Artemide esige me, io, una povera mortale, mi opporrò a una dea?”. In virtù di tale relazione tra le due figure, la volontà di Flavio Giuseppe di fornire al lettore l’età di Isacco acquisisce notevole importanza. L’autore afferma che Isacco, al tempo del sacrificio, aveva compiuto il venticinquesimo anno di età. Secondo Feldman, tale precisazione è dovuta allo scopo di esaltare la consapevolezza con cui Isacco si sottomette alla volontà divina [13].

Per comprendere il valore della constatazione di Flavio Giuseppe va ricordato che Ifigenia, nel testo di Euripide, è una giovane donna giunta appena all’età necessaria per unirsi in matrimonio (non oltre i tredici o quattordici anni), quindi implicitamente considerata come vittima inconsapevole. L’Isacco di Flavio Giuseppe, al contrario, è un uomo nel pieno delle sue facoltà, conscio dell’importanza del proprio destino, Feldman sostiene che, fornendo il dettaglio dell’età, Flavio Giuseppe usi un espediente atto a diminuire l’orrore che l’episodio avrebbe potuto scaturire nel lettore, e ne previene così eventuali critiche – basti pensare a quella elaborata da Lucrezio nella sua lettura dell’Ifigenia [14].

Nel passaggio delle Antichità Giudaiche che narra la storia del sacrificio di Seila [15], l’autore non adotta  la stessa accortezza. Flavio Giuseppe sostiene che Iefte pronunciò il voto in maniera avventata, senza ponderare adeguatamente le conseguenze. Di fronte a tanta imprudenza, lo storico romano dimostra di non essere interessato a lenire la crudeltà dell’evento. Prima condanna la condotta di Iefte in maniera esplicita; quindi, in modo più implicito, non curandosi di dare indicazioni sull’età di Seila, la consegna nelle mani del lettore come una fanciulla indifesa.

Per comprendere a fondo il valore attribuito da Flavio Giuseppe all’obbedienza dei patriarchi, ci soffermeremo su un ultimo punto — il quale, peraltro, determina una deviazione dal testo biblico degna di nota. In Gen. 22,9 Abramo, prima di deporre Isacco sull’altare, sopra la legna da ardere, lo lega; Flavio Giuseppe omette tale dettaglio.  In sostituzione, Abramo rivolge al figlio una predica esponendo le motivazioni del sacrificio. Il discorso è purificato di ogni accento sentimentale, poggia su una struttura di rigide concatenazioni logiche.

Per comprendere l’importanza di tale omissione basti ricordare che il passaggio in cui Isacco viene legato è quello a cui i rabbini fanno riferimento per identificare Genesi 22, 1-18: il titolo di “Akedat Yitzhak” significa, letteralmente, “legatura di Isacco”. Per i rabbini anche un patriarca è umano a sufficienza da tremare di fronte a un coltello che minacci di morte; grande era dunque la preoccupazione che un tentativo di liberarsi da parte di Isacco avrebbe potuto rendere il sacrificio sgradito a Dio. Non è così per Flavio Giuseppe che, impegnato nel tentativo di rendere magnifica la fede degli eroi biblici, considera una tenace “legatura” morale più salda di qualsiasi “legatura” fisica.


NOTE:

[1] Gutmann J., The Illustrated Midrash in the Dura Synagogue Paintings: A New Dimension for the Study of Judaism; Proceedings of the American Academy for Jewish Research, Vol. 50 (1983), pp. 91-104; American Academy for Jewish Research, New York.

[2] Huizenga L.A., The Battle for Isaac: exploring the composition and the function of the Akedah in the Book of Jubilees, The Continuum Publishing Group Ltd 2003, London.

[3] Gutmann J. (1987) The Sacrifice of Isaac in Medieval Jewish Art; Artibus et Historiae, Vol. 8, No. 16 (1987), pp. 67-89; IRSA s.c., Krakow.

[4] Op. Cit. Kessler E. (2004), Bound by the bible: Jews, Christian and the Sacrifice of Isaac; p. 138.

[5] Huizenga L.A., The Aqedah at the End of the First Century of the Common Era: Liber Antiquitatum Biblicarum, 4 Maccabees, Josephus’ Antiquities, 1 Clemen; Journal for the study of the Pseudepigrapha Vol 20.2 (2010): 105-133; The Author(s), 2010. p. 8.

[6] Ivi, p. 9.

[7] Ivi, p. 15.

[8] The fourth book of the Maccabees, in The World English Bible, https://ebible.org/pdf/eng-web/eng-web_4MA.pdf

[9] Ivi, (17. 20-22): “These, therefore, having been sanctified through God, have been honored not only with this honor, but that also by their means the enemy didn’t overcome our nation; and that the tyrant was punished, and their country purified. For they became the ransom to the sin of the nation; and the Divine Providence saved Israel, aforetime afflicted, by the blood of those pious ones, and the propitiatory death.”

[10] Feldman L.H., Josephus as a Biblical Interpreter: The “ʿAqedah”; The Jewish Quarterly Review, New Series, Vol. 75, No. 3 (Jan., 1985), pp. 212-252; University of Pennsylvania Press.

[11] Ivi, p. 233.

[12] Flavius Josephus, The Antiquities of the Jews; Documenta Catholica Omnia; 1, 13.4.

[13] Op. Cit. Feldman, p. 237.

[14] Lucrezio, De Rerum Natura, (1, 80-101): “A così grandi mali la superstizione poté indurre.”

[15] Op. Cit., Flavius Josephus, Libro 5, Capitolo 8.

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