L’isola dei morti: dalle visioni di Böcklin al romanzo di Fabrizio Valenza

L’isola dei morti del pittore simbolista elvetico Arnold Böcklin, in tutte le sue versioni, ha ossessionato generazioni di studiosi e non solo. Il romanzo omonimo di Fabrizio Valenza ne richiama le oscure suggestioni incrociandole alle opprimenti atmosfere tipiche della letteratura lovecraftiana.

di Obsidian Mirror

originariamente pubblicato sul blog dell’autore
copertina via Die Toteninsel | Digitale Produktionen ARTE

All’ombra de’ cipressi,
e dentro l’urne confortate di pianto,
è forse il sonno della morte men duro? 

Ugo Foscolo, Dei Sepolcri, 1807

Lisola dei morti. Tre parole che già così sono abbastanza evocative. Ma più che le parole, è evocativa l’immagine che prende forma nella nostra mente ascoltandole. È l’immagine di un dipinto sul quale di certo la stragrande maggioranza di chi ci inciampa è costretta a soffermarsi per molto più di un semplice istante. Un’immagine che, d’altra parte, forse per via della ricchezza di particolari, forse per via dell’impenetrabilità del soggetto, richiede un’attenzione particolare, e non certo un’occhiata distratta come quella che si concede a capolavori anche più celebri.

L’arte in fondo è anche (e soprattutto) questo: non vi è, se non per ragioni commerciali, una vera necessità di assegnare un titolo a un’opera. E ciò è valido tanto per le arti figurative quanto per quelle uditive. Quante volte abbiamo riconosciuto immediatamente una melodia senza rammentare altrettanto immediatamente il titolo e il suo autore? Quante volte riconosciamo un’immagine senza associarla a null’altro che a se stessa? 

L’isola dei morti (Die Toteninsel) non fa eccezione: è straordinariamente facile riconoscerla e di lei anche i sassi sanno che ne esistono diverse versioni e che nel 1933 stregò il Führer al punto dal portarlo ad acquisirne una per lo studio della cancelleria del Reich. Il nome del suo autore è invece tutt’altro che facile da ricordare: si tratta di Arnold Böcklin, uno dei principali esponenti del simbolismo tedesco, corrente guardacaso caratterizzata da contenuti sempre molto complessi da decifrare. 

L’isola dei morti emerge al centro di uno specchio d’acqua scura e immobile. Formazioni rocciose sono aperte ad anfiteatro verso l’osservatore. In esse sono evidenti le vestigia di imponenti costruzioni pagane in rovina, nelle quali sono scavate delle aperture, apparentemente dei sepolcri. Al centro, un gruppo di cipressi alti e scuri si alza verso il cielo. Una barca si appresta ad attraccare sull’isola. Su di essa, oltre al rematore, una sagoma umana è in piedi, avvolta da un sudario che ne ricopre interamente il corpo. Ai suoi piedi, una bara di colore chiaro è poggiata di traverso sulla prua dell’imbarcazione. La figura in piedi getta la propria ombra sul lenzuolo che copre la bara. Gli edifici illuminati dell’isola, al contrario, non gettano alcuna ombra.

Barca e isola appartengono quindi a due mondi diversi, quello dei vivi e quello dei morti. Gli alti cipressi, tipici dei luoghi di sepoltura, rimandano perciò al lutto e l’imbarcazione sembra accompagnare il defunto nel suo ultimo viaggio. Non a caso, la figura del rematore evoca il personaggio di Caronte, il traghettatore delle anime dell’Inferno di Dante Alighieri, mentre le acque ricordano l’antico fiume Stige, attraverso il quale i greci credevano che le anime dei loro morti viaggiassero verso l’Ade. 

Le interpretazioni de L’isola dei morti di Böcklin sono innumerevoli. Infatti, chiunque si sia mai cimentato con quest’opera ha spesso elaborato una propria personale lettura dell’immagine. Quella che preferisco, ma che non ricordo dove e quando l’abbia letta, si discosta tuttavia dall’interpretazione comune. In essa si fa notare che, a un esame più attento, la prua dell’imbarcazione sembrerebbe puntata verso l’osservatore, come se si stesse allontanando dall’isola. In effetti è noto che, quando il vogatore è seduto, è più agevole remare con il traguardo alle spalle per via dell’utilizzo combinato dei muscoli delle braccia e delle gambe. Si tratta di un gioco psicologico che sta giocando Böcklin nei nostri confronti? Non è da escludere.

L’isola immaginaria fu modellata, forse, sul cimitero degli inglesi di Firenze, mentre altri indicano come fonte alcune isole del Mediterraneo quali l’isolotto di Pontikonissi, di fronte a Corfù, l’isola di Ponza, per via della sua sagoma a mezzaluna, l’isola di San Giorgio, in Montenegro, o il castello aragonese a Ischia, che sappiamo per certo che lo stesso Böcklin avesse visitato. 


Lo scrittore e filosofo veronese Fabrizio Valenza, uscito recentemente sulla piattaforma Amazon con il suo nuovo romanzo ispirato ai dipinti di Arnold Böcklin, preferisce invece collocare l’immaginaria isola al largo di Zoagli, un piccolo borgo incastonato tra Rapallo e Chiavari, nel golfo del Tigullio.

La scelta del piccolo centro balneare come punto di partenza potrebbe essere stata ispirata (l’autore non conferma, né smentisce) dalla presenza, nel fondale antistante il molo, della celeberrima Madonna del Mare, una scultura in bronzo posta a memoria dei marinai caduti. La scultura sommersa non ha ovviamente alcun valore antropologico (possiamo piuttosto catalogarla come attrazione turistica), ma, rappresentando una particolarità unica, avrà certamente attirato l’attenzione dell’Autore. 

Studioso di antropologia è invece Andrea Nascimbeni, protagonista del romanzo in questione e coevo di Arnold Böcklin, che decide di avventurarsi sulla misteriosa isola per scoprire cosa si cela dietro quelle curiose strutture funerarie. L’isola dei morti è un’opera presentata sotto forma di una lunga lettera che il protagonista, sopravvissuto a una terrificante esperienza, scrive al suo antico maestro Paolo Mantegazza (nome tutt’altro che scelto a caso, come vedremo più avanti). 

Il delirio lo avvolge ora dopo ora, forse provocato dai numerosi sinistri misteri in cui si imbatte. Nemmeno la febbre può, però, impedirgli di rintracciare i sepolcri aperti e nascosti alla vista di visitatori fortuiti. Esacerbato dai segreti dell’isola e dall’omertà dei suoi abitanti, Nascimbeni trova un momentaneo conforto solo in una donna, della quale si invaghisce. Nulla è però come sembra e l’incontro con un uomo avvolto dal mistero lo mette sul chi va là, quando lo invita ad abbandonare l’isola. L’antropologo, tuttavia, s’ingegna per rimanervi nascosto fino alla vicina festa del “32” ottobre, come viene scherzosamente definita dalla locandiera che lo ospita, perché sa che si tratta del momento in cui potrà capire quali strani riti funerari si celebrano in quel luogo. 

La tecnica del resoconto scritto in forma epistolare non è certo una novità, basti pensare a Howard Phillips Lovecraft, uno dei più capaci utilizzatori di tale artificio letterario, che spesso immaginava i suoi protagonisti, resi folli da orrori indicibili, affidare il proprio testamento ad anonimi quanto incauti lettori. Ed è proprio in uno dei racconti più riusciti del solitario di Providence (The Shadow over Innsmouth, 1936) che riconosciamo le stesse atmosfere cupe e opprimenti del romanzo di Valenza. Così come il giovane protagonista del racconto lovecraftiano comprende che gli abitanti nella cittadina portuale sono, nessuno escluso, il frutto di un incrocio tra umani e orribili creature marine, allo stesso modo Andrea Nascimbeni non tarda a rendersi conto che quell’isola, così prossima geograficamente alla moderna Liguria, è rimasta ancorata a un culto antico e terribile al quale i suoi abitanti si rivolgono con una disarmante naturalezza. 

Tecnicamente L’isola dei morti, proprio per la sua accurata ricerca antropologica, per il concetto astratto di sacrificio e per il mistero dell’Eterno Ritorno (l’arcano nascita-morte-reincarnazione degli esseri umani) andrebbe accostata più che altro al filone folk-horror britannico che, sin dai primi anni Settanta, con film di grande successo quali Blood on Satan’s Claw e il mitologico The Wicker Man, ha spalancato porte, fino ad allora ben sigillate, su un tema scomodo come quello dello scontro ideologico tra cristianesimo e paganesimo. 

Fabrizio Valenza è abilissimo a dipingere personaggi sospesi fra il piano naturale e quello soprannaturale, ovvero fra il regno dei vivi e quello dei morti, per quello che a tutti gli effetti si può definire il compimento di un viaggio iniziatico (o di un’esperienza estatica), così come è abilissimo nel disseminare il suo romanzo, sin dalle prime righe, di riferimenti che tradiscono una certa ricerca dei dettagli, da Il ramo d’oro dell’antropologo scozzese James Frazer a quel Paolo Mantegazza che nel romanzo rappresenta l’immaginario destinatario della lettera, ma che nella realtà è stato uno dei primi divulgatori delle teorie di darwiniane in Italia. 

Con tutte queste premesse, mi sarei aspettato che gli avvenimenti descritti nel romanzo avrebbero raggiunto il loro culmine nella notte di Valpurga, anziché in quella curiosa data del 32 ottobre, che le è astronomicamente contrapposta, ma è chiaro che la funzione magico-propiziatoria del rito primaverile mal si sarebbe sposata con quel demoniaco finale al quale noi lettori giungiamo, nonostante la nostra buona volontà, largamente impreparati. 

Nato nel 1972 a Verona, ma di origini siciliane, Fabrizio Valenza si è laureato in Filosofia nel 2003 e in Scienze Religiose nel 2011. A partire dal 2007 ha iniziato a pubblicare romanzi, prima con il self-publishing e un buon successo (Storia di Geshwa Olers), poi con molti editori, per lo più medio-piccoli, e risultati altalenanti. Ora, dopo 15 romanzi in 15 anni, Fabrizio Valenza ha deciso di ritornare all’autopubblicazione con L’isola dei morti, che ha ottenuto un ottimo riscontro in termini di vendite e critica, vivendo anche l’esperienza di una presentazione presso il Museo di Storia Naturale di Verona, introdotta da un’antropologa che ne ha illustrato la cornice storico-scientifica. Sul sito personale dell’autore sono disponibili degli approfondimenti sulle fonti artistiche che gli sono state di ispirazione nella stesura della storia, oltre che ulteriori testi che, per ragioni narrative, non era utile inserire all’interno della storia narrata. 

3 commenti su “L’isola dei morti: dalle visioni di Böcklin al romanzo di Fabrizio Valenza

  1. È il primo commento a ” L’isola dei morti ” che finalmente si pone la domanda se la posizione del rematore ( direi che è una rematrice , visto i capelli lunghi ) sia compatibile con la direzione verso cui , per logica , dovrebbe andare la barca , cioè l’isola . E concordo con l’autore della recensione sul fatto che , in posizione seduta , un rematore fa andare la barca all’indietro, alle sue spalle , quindi,in questo caso si allontanerebbe dall’isola . Sembrerebbe trattarsi o di un errore di Bocklin oppure , per paradosso , il rematore sta portando via dall’isola la bara del defunto . Tutto questo però riguarda la prima versione dell’ “Isola dei morti ” , quella riportata ed esaminata qui. Nelle successive 4 versioni , Bocklin ha corretto la posizione di chi rema : innanzitutto non è più una donna, ma sembrerebbe un uomo e la posizione è perfettamente compatibile con una manovra di avvicinamento all’isola questo perché, se ci fate caso , la posizione del rematore è in piedi e con il busto e le braccia in avanti e le gambe puntellate indietro rispetto al corpo . La classica manovra di attracco . Quindi , concludo , secondo me , Bocklin nella prima versione , dopo averla terminata , si rese conto dell’errore commesso nel dipingere la rematrice /rematore . Errore corretto nelle successive versioni .

  2. Una precisazione: la prima versione dell’ ” Isola dei morti ” non è quella che compare all’inizio dell’articolo ( che è la terza versione , del 1883 ) ma , guardando più giù dove sono riportate in piccolo quattro versioni ( in tutto erano cinque , una andata persa ) di quelle quattro la prima versione ( del 1880 ) , quella per me ” sbagliata” ( con la rematrice che rema verso lo spettatore ) è quella in altro a sinistra.

  3. Una precisazione: la prima versione dell’ ” Isola dei morti ” non è quella che compare nel mezzo dell’articolo ( che è la terza versione , del 1883 ) ma , guardando poco più giù dove sono riportate in piccolo quattro versioni ( in tutto erano cinque , una andata persa ) di quelle quattro la prima versione ( del 1880 ) , quella per me ” sbagliata” ( con la rematrice che rema verso lo spettatore ) è quella in altro a sinistra.

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