Le Muse e l’armonia del canto

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L’etimologia del termine Musa è multiforme e variegata, come un fiume con vari affluenti, risale la sorgente, giunge al mare, attraverso diverse parole; tutte illuminanti un significato valido per comprendere che cosa e chi sono le Muse [1]. Si cominci con lo scorrere, come un generale ispeziona le truppe, le ipotesi di etimi da cui deriva il termine Muse, e ogni termine schiuderà una faccia differente e valida per intendere le divinità della poesia. Abitanti di regioni montane, tra la Tracia e la Macedonia e poi stabili sul Parnaso, le Muse sono divinità di boschi montani, come dimostra il fatto che mons, “montagna” è una delle supposte derivazioni del loro nome.

Tra la fonte Castalia, trasparente come vetro, e la sorgente della Cassotide giocano delle ragazze, le Muse, da mous “sorgente”. Le Muse sono creature acquatiche, come le Ninfe, giocano nelle liquidità del pensiero. Mens, mente, assieme a manthainen, “apprendere” e mnéme, “memoria”. Le Muse sono forze della mente come le sinapsi e i neuroni. Secondo Platone nel Cratilo (406 a) accoglievano in sé il senso di mósthai: “aspirare”, “desiderare”, “ricercare”. “La Musa sarebbe la brama stessa del sapere, la tensione della ricerca, il desiderio della verità e il cammino che a essa conduce” [2]. È come se i rsi vedici avessero mutato sesso e trovato un paesaggio boschivo nel pralaya: le affinità con i temi della sapienza indiana sono evidenti, le Muse pensano il canto nel petto e portano la gioia celebrando la vita immortale, abitano vicino a fonti d’acqua come le acque della mente sono solcate dai rsi

Diodoro Siculo, in Biblioteca Storica 4, 7 fa derivare il nome da muein, “iniziare“, perché la parola ispirata è un’iniziazione [3], come illustrano le storie di Esiodo e Archiloco [4], entrambi pastori scelti dalle Muse per dedicare la loro vita al canto e alla composizione. Dalla stessa radice di mens altri etimi sono menos, “furore”, “forza”, “ardore” e mania, “follia”. Un’altra affinità con la sapienza indiana e l’origine della parola nella creazione dell’Inno X, 129, è che tra i fiumi etimologici siano presenti entrambi i concetti: di ardore, tapas, e di desiderio, kama [5]. Le Muse plurali e uniche raccolgono in sé le montagne, le acque, la mente, la follia, l’ardore, la conoscenza, l’iniziazione e le sublimano in poesia. Sono l’origine della poesia da cui tutto ha origine. 

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I miti principali sulla nascita delle Muse sono raccontati da Diodoro Siculo nel passo della Biblioteca Storica 4, 7, da Esiodo nella Teogonia e da Pindaro nel Frammento 30. Secondo Diodoro Siculo le Muse sono Titanidi, appartenenti quindi alla famiglia divina precedente gli Olimpi, figlie di Urano, il cielo stellato e Gea, la madre terra. Per Esiodo sono figlie di Zeus e Mnemosine, Dea della Memoria a cui il re degli Olimpi si congiunse per nove notti di seguito partorendo nove figlie, concordi nell’animo come strumenti di un’orchestra. Pindaro racconta che mentre Zeus si accingeva a sposare Temi, Dea dell’ordine naturale, si accorse che mancava qualcuno che celebrasse le nozze con cui si sanciva il potere del nuovo ordine instaurato. Creò le Muse in grado di ordinare e ornare (kakakosmein) la sua opera, quasi le Muse fossero per la Grecia la voce silenziosa di rta in India.

Le Muse non solo celebrano il creato, ma lo ordinano, gli danno forma, significato e bellezza: “La parola non è un supplemento che si aggiunge all’esistente, ma un potere che compie il mondo e lo fa essere in tutto il suo splendore” [6]. Armonizzano il creato con l’arte della parola [7]. In greco luce e parola si dicono quasi nella stessa maniera, phos e photis, hanno la stessa radice. Come la visione di qualunque visione avviene grazie alla luce, così la parola illumina tutti i significati comunicabili e tanto più è sapiente quanto più conserva in sé l’incomunicabile. Genera conoscenza e consapevolezza, dà origine al mondo, come nell’inno 129 del decimo mandala del Rgveda [8] e così per la sapienza greca. Vi è un mondo solo dove qualcuno conosce il segreto della parola e della musica.

I nomi delle Muse sono differenti perché corrispondono ai differenti tipi di ispirazione. Secondo la tradizione il numero non è sempre stato di nove, ma variò tra due, tre, quattro e sette per stabilizzarsi nel canonico nove con la Teogonia di Esiodo. Le Muse del canone esiodeo sono: Calliope, Erato, Euterpe, Polimnia, Clio, Melpomene, Talia, Tersicore, Urania. Calliope è detta “Bella voce”, ha in mano una lira e simboleggia la poesia epica, e per Esiodo è la più importante. Erato, “Amabile”, stringe una cetra e protegge la poesia d’amore. Euterpe, “Dilettevole”, soffia nel flauto ed è la patrona della poesia lirica e dell’elegia. Polimnia, “Dai molti canti” è avvolta in un velo e detta la pronuncia degli inni agli Dèi. Clio, “Sonora”, maneggia rotoli e libri, è la Musa delle storie raccontate. Melpomene, “Colei che danza e canta”, ha indosso una maschera triste e cupa, con lei è la tragedia. Talia, “Fiorente” ha una maschera ridente, è la commedia. Tersicore, “Gioia della danza”, imbraccia una lira con un plettro e rappresenta la danza. Urania, “Celeste” ha nel palmo un globo, ispira i canti celesti e l’armonia delle stelle. 

Le Muse ispirano a seconda del poeta uno o più tipi di poesia, ma sono tutte assieme la conoscenza assoluta e sempre presente della poesia e della parola. Cantano “le cose che sono, che saranno e che furono”. In origine non c’era distinzione tra il cantore e l’indovino, le lingue, i pensieri si accendevano percorsi dalla follia. Come i divinatori, gli iniziati, i poeti ispirati dalle Muse raggiungono la perfezione della sapienza. Non hanno memoria, ma sono la memoria e ricordano il futuro. Non ci sono labirinti mnemonici, enigmi, perché le Muse e i poeti sono labirinto ed enigma. Presente eterno nell’attimo, come l’oceano d’oro che si forma quando si fissa il sole dentro le palpebre con gli occhi chiusi. 

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Sembrerebbero contrapporsi due linee dettate dall’ispirazione delle Muse, una contorta, tortuosa, mimetica, di menzogne che assomigliano alla verità, l’altra sincera e diretta, diritta come una colonna. Etumon, alethes, “ciò che è vero”, non resta nell’ignoto ma viene illuminato dalla parola, falsa o vera. Il legein, il logos, il dire è contrapposto al gerúsasthai, il cantare, come se ciò che viene affermato con voce piatta e non increspata, ricamata dal canto, dalle cantilene, fosse il coté menzognero dell’ispirazione, l’aksara che differisce dal logos [10]. Il logos è all’inizio intuizione, scocca dall’immagine, poi diviene sapienza tecnica. Il logos è un dono divino che diviene prodotto umano in cui l’uomo si perde e va in rovina, scorda la strada come in un labirinto, se non ha memoria o un filo da lasciare dietro di sé [11]. Muore come un sapiente che non risolve l’enigma, e il labirinto è un’estensione catastale dell’enigma. Il logos per Gorgia è una catena che costringe e violenta il pensiero senza ripari per l’assediato:

Insinuandosi nell’anima, unendosi alla sua facoltà di opinare, la potenza dell’incantesimo strega la psiche, la persuade e la trasforma con il suo fascino. 

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Come una strega compie malie e pozioni nel calderone del cervello, il logos distorce e corrompe il pensiero con fascino (goetéia) e magéia (magia). Se le Muse sono rta nel dire il vero, sono maya nel dire menzogne simili al vero. Il sortilegio, l’inganno (apate) del logos è onnipervasivo, e se la verità, come afferma altrove Gorgia, non è conoscibile, tutto è menzogna, tutto è logos. La poesia stessa è logos in forma metrica e crea una mimesi tra la descrizione di personaggi, emozioni e il pubblico. Secondo Leopardi se si:

[…] tratta materia di poesia dalla religione e dalle opinioni e dai costumi presenti, di necessità deve accadere una di queste tre cose; o che il poeta non menta mai, e non sia più poeta; o che mentendo inganni gl’intelletti del volgo, e gli noccia veramente ed empiamente, sopraccaricandolo di credenze vane e malvage, atteso ch’in maniera di religione secondo noi, qualunque credenza falsa è malvagia; o che gl’inganni solamente le immaginative […]. 

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Rispetto alle due opzioni riportate da Esiodo — un canto che ispiri la verità e menzogne simili alla verità — in contrapposizione all’ispirazione musaica si sta compiendo una breve illustrazione di ciò che Gorgia intende come logos e di ciò che secondo Leopardi opera il poeta trattando “materia di poesia dalla religione”. Per Leopardi il poeta non può sempre cantare il vero perché la verità soffocherebbe la fantasia e l’immaginazione, né deve ingannare la semplicità intellettiva del popolo perché creerebbe false conoscenze, ma deve ingannare l’immaginazione così che sia data forza di sognare e illudersi. Per Gorgia il canto è uno degli aspetti maliosi del logos, dell’anima che è così pervasa dal logos come un ladro scappa dagli inseguitori.

Tra la potenza del logos e la disposizione dell’anima intercorre lo stesso rapporto che sussiste tra le prescrizioni di phármaka e la natura del corpo. Come alcune sostanze espellono dal corpo certi umori, altre fanno cessare una malattia e altre ancora pongono fine alla vita, così alcuni logói procurano dolore, altri infondono piacere, altri ancora suscitano paura e coraggio e altri, infine, stregano e affatturano l’anima con una malvagia persuasione.

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Il logos agisce come una medicina sulla psiche, come una droga instillando scatti emotivi nell’uomo, l’elettricità che permette a un elettrodomestico di funzionare. Si sono portate a confronto delle Muse due voci disincantate per mostrare come si complichi la questione in un orizzonte in contrasto, lontano dalla matrice divina. Ma se con un’attenzione più viva si ritrova la pace degli Dèi, almeno per quanto riguarda la dicotomia di Esiodo, i contrasti si smussano in una conciliazione: pseudos “menzogna” o “inganno”, ha in origine il significato di “soffio d’aria”. La menzogna è un soffio d’aria che esce dal logos e confonde la menzogna con la verità, ci spinge a credere alle apparenze, ma lascia aperto uno spiraglio per riconoscere il vero come una scena spiata dalla serratura.

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“La differenza messa in atto dallo pseudos, potrebbe essere intesa come una distanza che occulta il vero, ma che al medesimo tempo lo lascia filtrare ed emergere” [15]. È come quando Lautréamont suggerisce a Poulet-Malassis di vendere Les Chants de Maldoror, ammucchiati nei magazzini dell’editore Lacroix per paura di incappare in problemi con la censura, dicendo che l’autore aveva cantato il male perché il lettore fosse sollecitato a percorrere gli itinerari del bene. Le Muse ispirano la luce della voce divina quando si canta il vero e la foschia del parlato umano in cui restano, come mosche nella ragnatela, brandelli di verità, quando si cantano “menzogne simili al vero”.

La presenza svelata di una realtà divina e insieme l’altrettanto reale e necessaria dimensione di quel cosmo in cui gli esseri umani sono immessi e che a essi si offre come sembianza, parola, opinione simile al vero.

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Il soffio, lo pneuma, che le Muse donano scorre come benzina nelle vene, viene avvertito nel thumos, il vapore o fumo della fisiologia greca, l’anima nel corpo nebbia tra le cellule, e il prhénes, la rete dei polmoni, il diaframma. La frenesia. “L’insufflazione del pneuma divino si traduce nello sprigionarsi di un calore fumante, di un ardore che dall’aria si trasmette al sangue, facendosi impeto e forza” [17]. La parola dell’ardore interiore esplode nei cieli della significazione e della musica come un fuoco d’artificio, è la bussola incandescente per i sentieri dell’invisibile, per le valli della poesia, dove la vegetazione di sillabe, le foglie del canto sono, prima che artificio tecnico, germogli della mania, semi della follia. L’ardore viene con l’avvicinarsi a casa, dall’oriente all’occidente, identificato con la follia che entusiasma il creatore divino coincidente con il poeta. 

Come spiega Platone nello Ione (533 dss), i poeti compongono canti mirabili non per il mero possesso di un’arte, ma perché sono énthoi, perché una presenza divina è in loro, perché sono da essi presi e posseduti. 

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E così nel Simposio si afferma che solo l’amante è éntheos, solo chi ama è colmo del Dio, come il sapiente è posseduto dal demone della conoscenza, e il poeta ispirato è trascinato dal carro del canto e contagia chi lo ascolta. Come nelle sampad [19] cadono insieme nella rinascita infinita di chi trova le equivalenze, l’amore e la morte, così l’amante è assalito dal divino rapito nella mente creatrice della poesia e della vita. Una pietra, un magnete che trasforma la materia vivente e le dà forma:

Questa pietra non solo attira gli anelli di ferro, ma trasmette tale forza agli anelli medesimi, così che essi producano lo stesso effetto, attraendo, a loro volta, ancora altri anelli. In questo modo si trasforma una lunga catena di anelli che pendono gli uni dagli altri. E tutti quanti sono connessi grazie alla forza delle pietre.

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Platone descrive la forza del canto come un minerale, come una potenza che modifica la natura di chi ascolta e connette agli anelli intrecciati di una catena che è la bellezza del cosmo, la poesia della natura per Leopardi [21]; questa carica magnetica non è altro che la forza del divino insufflato come elio in un palloncino perché si alzi l’amante verso il cielo e il poeta vaporizzi la sua essenza disegnando nuvole [22].  

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Il sapere delle Muse è dolce come miele e incanta colui al quale si rivolge, chi presta attenzione a un poeta ispirato dal divino. Come un impiccato appeso alla corda si scorda della vita, le divinità della poesia cancellano nei ritmi l’ego, le frustrazioni private, l’ansia insostenibile dell’essere. Per effetto del canto cancellano le angosce, le sofferenze sono distolte dal dolore nel cibo musaico dell’amore. Il metodo di cura delle Muse è come il nepente che Elena prepara per obliare i tristi ricordi del passato luttuoso, quando Telemaco arriva a Sparta in cerca di informazioni sul padre, e consiste nel porre il singolo di fronte all’incanto dell’universo, costringendo l’ascoltatore a un ridimensionamento delle pene individuali rispetto all’armonia e alla vastità del tutto. Il canto è un incantesimo, ammalia (thelgein) come Zeus con il vento sulla pianura di Troia confonde la mente degli Achei, nebbia nelle nebbie del pensiero da cui le Muse procedono. L’aedo, il rapsodo, il poeta ispirato con la capacità di incantare, di irretire e avvolgere nel vapore dell’haschish chi ascolta, sono come Eumeo nelle parole di Odisseo:

Come quando si guarda un aedo, che ha appreso dagli Dèi a cantare storie mirabili per i mortali, e, mentre canta, lo si vorrebbe ascoltare per sempre, così lui mi incantava (éthelge) nella mia casa. 

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[1] Esiodo, Teogonia, a cura di Ettore Cingano, Oscar Mondadori, Milano 2004, p. 5-11

[2] Davide Susanetti, Luce delle Muse, Bompiani, Milano 2019, p. 16

[3] Ibidem

[4] Vedi capitolo 2, pp. 64-67

[5] Esiodo stava pascolando un gregge per i monti dell’Elicona quando gli apparvero le Muse che gli rivolsero un discorso, avrebbe dovuto abbandonare i pascoli e darsi alla poesia, sarebbe stato ispirato da loro a una parola divina, come segno gli diedero un ramo d’alloro. Archiloco che abitava sull’isola di Paro, su ordine del padre stava portando al mercato una vacca da vendere, era il momento della notte che precede l’alba, per i campi vide un gruppo di ragazze e pensò stessero tornando da un qualche lavoro, iniziò a scherzarci e loro ricambiarono, gli chiesero che cosa dovesse fare con la vacca, e si proposero di comperarla per il giusto prezzo. Detto ciò, sparirono come la notte all’alba e con loro sparì anche la vacca. Dopo aver riflettuto Archiloco comprese che erano le Muse e che il giusto prezzo era il dono del canto. Il padre non ci credette andò a Delfi e l’oracolo confermò.

[6] Si veda capitolo 1, pp. 12-15

[7] Davide Susanetti, Luce delle Muse, cit., p. 20

[8] Si veda capitolo 1, p. 37

 [9] Si veda capitolo 1, p. 12

[10] Esiodo, Teogonia, vv. 25-27, in Davide Susanetti, Luce delle Muse, cit., p. 20

[11] Si veda capitolo 1, p. 24

[12] Per il concetto di logos si veda Davide Susanetti, Luce delle Muse, cit., e Giorgio Colli, La sapienza greca III: Eraclito,Adelphi, Milano 1980

[13] Davide Susanetti, Luce delle Muse, cit., p. 69

[14] Giacomo Leopardi, Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, inGiacomo Leopardi, Poesie e prose II, a cura di Rolando Damiani e Mario Andre Rigoni, Mondadori (I Meridiani), Milano 1988, p. 1473

[15] Gorgia, Frammento 11, 14, in Davide Susanetti, Luce delle Muse, cit., p. 70

[16] Ibidem

[17] Davide Susanetti, Luce delle Muse, cit., p. 35

[18] Ivi, p. 38

[19] Ivi, p. 43

[20] Si veda capitolo 1, p. 21

[21] Platone, Ione (533 d ss.), cit. in Davide Susanetti, Luce delle Muse, cit., p. 42

[22] Si veda capitolo 4, p. 128

[23] Si veda capitolo 5, p. 159

[24] Omero, Odissea 1, vv. 337-38, cit. in Davide Susanetti, Luce delle Muse, cit., p. 61 

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