L’impero interno: note occulte sul cinema di David Lynch

Torturatore dell’inconscio e degli anfratti oscuri dell’individuo e della realtà, David Lynch ha saputo dare vita negli anni a un suo personalissimo modo di fare cinema, pieno di segreti, lati nascosti, altissime e vastissime conoscenze, dalla psicanalisi alle dottrine orientali.


di Roberto Siconolfi

David Keith Lynch, statunitense, uno dei più significativi registi della storia recente, figura enigmatica del cinema, torturatore dell’inconscio e dei lati oscuri dell’individuo e della realtà, grande sapiente di un Occidente contemporaneo in avanzata crisi spirituale. Il suo cinema è pieno di segreti, intuizioni, indicazioni, lati nascosti, altissime e vastissime conoscenze. Dalla psicanalisi, alle dottrine orientali –  è egli stesso praticante di meditazione trascendentale – fino all’esoterismo nel senso più vasto del termine.

In quest’articolo esamineremo alcune delle sue opere, per coglierne gli assi portanti; assi che sembrano costituire il vero nucleo delle sue produzioni, da molti “profani” definite troppo spesso senza senso, e che invece sono, a nostro parere, ricolme di ogni senso.

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“Preferisco ricordare le cose a modo mio”, afferma Fred Madison protagonista di Lost Highway (titolo italiano Strade perdute), tra i capolavori di David Lynch degli anni novanta. L’affermazione di Fred Madison (Bill Pulman), sembra innocua o, appunto, apparentemente senza senso, ma in realtà è la chiave d’accesso agli squarci di mondo interiore aperti in questo e in altri suoi capolavori: il “potere della mente”, nella potenza e nel delirio, nell’immaginazione positiva e nella proiezione distorta, tra il servizio alla realtà e l’allucinazione distruttiva.

Il protagonista di Lost Highway, infatti, è un musicista jazz abbastanza introverso, in un periodo poco felice, anche dal punto di vista coniugale, come emerge dai dialoghi con sua moglie. Quest’ultima, la procace e sensuale Renée – una Patricia Arquette dall’estetica pin up – quando valorizzata a pieno assurge a vero elemento di congiunzione per una discesa nei meandri più oscuri della psiche del marito.

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Un ruolo d’altronde che il regista affida alla “donna” in più di una sua opera (Inland Empire, Twin Peaks e Twin Peaks-Fire walk with me), film in cui la donna viene trasfigurata rispetto alla semplice presenza fisico-femminile, per diventare elemento scatenante del caos e della dissoluzione. Il solve degli alchimisti, il segno “–” della “relazione complementare”, il “principio distruttore” delle grandi tradizioni metafisiche più in generale.

In Inland Empire la protagonista, l’attrice hollywoodiana Nikki Grace (Laura Dern), sovrapponendosi a Susan o “Sue” Blue, la prostituta protagonista del film che dovrà recitare, svela a un misterioso psicanalista il suo comportamento “lascivo”, “cattivo”, “crudele” oltre che “falso”. Infatti riferisce che “quando mi arrabbio mi arrabbio veramente”, “io non li reggo certi comportamenti”, che quello col quale lei viveva, ingiustamente “si era messo in testa che avevo un altro uomo”, ma in effetti “mi scopavo un paio di ragazzi, così, ma niente di che…”. E il tutto condito da storie di uomini picchiati – per difesa dice – e con tanto di occhi sfondati e strappati, e testicoli violentemente colpiti (quelli dell’“ingiustamente” geloso) e staccati.

Risaputo è invece, in Twin Peaks e nel film che funge da prequel, il ruolo di Laura Palmer (Sheryl Lee): giovane figlia unica di buona famiglia, cocainomane, la cui vita è perseguitata da un’“entità” Bob, e in grado, che lo voglia o meno, di trascinare nella sua oscurità tutti coloro che le si avvicinano (amanti, amici e amiche). Una specie di magna mater, venerata in orge e festini sadomaso da “uomini libidinosi”, ai quali si sente di appartenere, come rivela nel suo diario.

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Tornando a Lost Highway, Renée è l’“angelo nero”, il diavolo (dal greco Διάβολος, “colui che divide”) che accompagna il protagonista nella scissione del suo “Io”, una scissione che provoca due effetti. Il primo è la pericolosa proiezione in un nuovo protagonista, Peter Dayton (Balthazar Getty), che sembra emergere dal nulla nel film, spiazzando gli stessi altri personaggi – “capitano! Questa è una cosa da cacarsi sotto!” dice l’agente penitenziario al direttore del carcere, dove Fred era detenuto per l’omicidio della moglie, dopo il cambio improvviso di personaggio.

Una vera e propria “cristallizzazione nella materia” del suo sdoppiamento, una “condensazione degli elementi” psichici ed emozionali forzatamente “rimossi” e mai “metabolizzati” (es. elementi beta) in un gioco di “identificazioni proiettive”, e che apre la porta al secondo degli effetti: il rivivere la stessa storia di relazione, seppur con dei connotati diversi, ma con l’incredibile presenza della stessa donna.

Da qui in poi la capacità del regista di lasciare aperte le porte alla libera interpretazione dello spettatore, si apre e si congiunge a quei pochi principi che dominano per davvero la realtà: l’“eterno ritorno dell’uguale”, la costrizione a vivere e a rivivere la stessa situazione, dal punto di vista individuale o ancor di più “incredibilmente” in ambito relazionale.

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È l’“uomo misterioso” (Robert Blake) dal viso mostruoso, a dirigere questa discesa negli elementi subconsci e inconsci, e ad annunciare a Fred la necessaria ripetizione del vissuto, in particolare da quando passa nei corridoi del carcere dove Fred è detenuto prima di divenire il nuovo personaggio. E poi – alla festa di Andy (Michael Massee), il possibile amante di Renée e amico di Alice (Renée, la moglie di Fred in versione bionda) –, con il suo “ci siamo già incontrati mi pare?” E di lì, quando gli chiede di telefonare a casa sua, dove egli stesso (l’uomo misterioso) risponde – essere in due realtà (qua e là, onda e particella) allo stesso tempo.

D’ora in poi sarà Peter, la “proiezione”, a dover compiere tutto il cammino ricongiungendosi a Fred, il quale verso la fine del film ammazzerà l’antagonista (Dick Laurent), che è contemporaneamente quello che aveva minacciato Pete per avergli rubato la donna, e colui che abborda Alice/Renée per farla entrare nel mondo del porno, e sempre nello stesso locale, dove Renée aveva conosciuto il possibile amante (Andy). Dopo averlo ucciso tornerà verso casa annunciando, in pratica a sé stesso, ciò che al citofono sente all’inizio del film: “Dick Laurent è morto!”.

Ed ecco che si spiega il riavvolgersi del nastro, il celebre nastro di Möbius che molti collegano al concetto di infinito, come indicano alcuni di critici cinematografici. Concetto che in un terreno di congiunzione tra scienza contemporanea e metafisica (ambito di ricerca pioneristico della nostra epoca), rappresenta, appunto, la ciclicità degli eventi. Una ripetizione spazio-temporale che riguarda la realtà e la vita di ognuno all’interno del cosmo, e che si rifà alle già menzionate tradizioni metafisiche. Queste prevedevano la ciclicità del tempo, anziché la sua linearità, e la non località dello spazio (concezione propria anche della fisica quantistica).

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Ripetere le stesse scene in maniera perpetua, sino alla loro risoluzione! Scene nelle quali cambiano gli aspetti visibili e materiali della realtà, vale a dire le maschere, ma non tutti: non quelli essenziali che rimangono per così dire “invisibili”. L’altro “Io”, Peter, odia il jazz, svolge un mestiere manuale, è un meccanico, ha anche ascendente sulle donne al punto di conquistare quella di un gangster, Sig. Eddy/Dick Laurent (Robert Loggia). Una storia che si sovrappone in maniera speculare a quella di Fred, ma che non risolve per davvero l’ordito del vissuto nella sua ripetizione.

Come dicevamo, Alice è Renée in altra forma, ma apparendo inizialmente come un’indifesa principessa da liberare dalle grinfie di un gangster, si rivela una subdola attrice di filmini a luci rosse – scena del film accompagnata da I Put a Spell On You di Marilyn Manson – che, infine, induce Pete a un omicidio – quello di Andy –, per poi fregarlo, sciogliendo il vincolo della complicità e scaricando su di lui tutte le responsabilità.

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Una storia che da un lato dà la forza al primo protagonista di uccidere il nemico Dick Laurent, con l’aiuto dell’“uomo misterioso”, che rappresenta dunque un vero e proprio deus ex machina, una risorsa psichica insperata all’interno del suo subconscio/inconscio. Dall’altro non di meno questa storia rimane “aperta”, “in sospeso”, condannata all’ennesima ripetizione, scandita dall’assordante incantesimo vocale di Renée/Alice, la quale dopo aver fatto l’amore con Pete gli sussurra “non mi avrai mai!”. 

È con quest’opera che David Lynch si conferma un grande “battitore di strade”, mostrando una capacità, o meglio un “dono”, quello di lasciar immaginare lo spettatore, pur tenendo delle coordinate sempre valide, per così dire “universali”. Tra queste coordinate ve n’è una che emerge su tutte, e cioè che della propria psiche, e di conseguenza della propria vita, non si può fare ciò che si vuole: ci sono delle esperienze da affrontare volenti o nolenti, pena la già citata continua ripetizione dell’evento, o il definitivo “deragliamento psichico”.

Ed è in questo “deragliamento” che il protagonista si crogiola, forse risolvendolo o forse no con l’assassinio del rivale e della moglie. Significativa è a questo proposito la canzone di David Bowie a chiusura, e pure ad apertura, del film: I’m deranged (Io sono uno squilibrato). Lo sdoppiamento della psiche e l’“identificazione proiettiva” in un nuovo personaggio e in una nuova trama che si sovrappone alla prima per poi ricongiungersi ad essa, è un tema portante anche in Mulholland Drive e in Inland Empire.

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David Lynch durante le riprese di “Dune”

Un gioco di sdoppiamenti che viene affrontato attraverso alcuni “espedienti”, come ad esempio il corridoio di casa in Lost Highway, che rappresenta l’“angolo buio” della coscienza nel quale il protagonista si immerge, inizia a “rielaborare” e diventare, infine, l’altro personaggio. Oppure la “scatola blu” in Mulholland Drive, consegnata alla protagonista Betty, che le consente di svelare alla fine la realtà degli eventi, nonché la falsificazione che essa stessa aveva prodotto.

In Inland Empire, invece, è l’attrice che nel film polacco recita il ruolo di Sue (vedi spiegazione sotto) a suggerirle come accedere a un “mondo altro”, e attraverso un foro provocato da una bruciatura di sigaretta in un panno di seta o, ancora, entrando visivamente nell’abat jour.

E poi, c’è anche un’altra possibilità di agire sulla realtà. Un modo legato più alla manipolazione dei “piani di esistenza”, e che emerge nettamente nella terza stagione di Twin Peaks attraverso il rituale di “magia sessuale”. L’importanza del sesso non semplicemente in chiave fisica ma bensì metafisica, la ritroviamo d’altronde anche in Blue Velvet, Ereserhead e Mulholland Drive

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Così, in Twin Peaks 3 l’agente Dale Cooper (Kyle MacLachlan), effettua un rituale “tantrico” con Diane (Laura Dern): la posizione stessa dei due suggerisce questa possibilità, avvinghiandosi la femmina, Diane, al corpo del maschio, Cooper, e impersonando un ruolo “attivo” nell’amplesso (viparita maithuna). O, analogamente, si potrebbe ipotizzare di sex magick di stampo crowleyano, seguendo un intreccio che si descrive in The Secret History of Twin Peaks di Mark Frost, con la vita dell’occultista e ingegnere aereospaziale Jack Parsons.

Infatti, Diane somiglia a Marjorie Cameron, l’attrice dai capelli rossi che appare in casa di Parsons – dopo che questi aveva invocato in un rituale la divina “prostituta di Babilonia” – in maniera similare all’ingresso di Bob/Judy nel nostro “piano” – Jowday o Judy è il vero nome dell’entità che inquieta il mondo di Twin Peaks, come svelato dal Maggiore Briggs all’agente Gordon (David Lynch) e a Cooper. Per il tramite della magia sexualis si realizza un passaggio spazio-temporale verso un altro “piano di esistenza”, dove i nomi cambiano, quelli di Cooper, Diane, della Palmer, e cambieranno anche altri pezzi di realtà, come la proprietà della casa dei Palmer.

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Un intervento sullo spazio-tempo che si intreccia con un’altra operazione, quando nell’ufficio dello sceriffo Truman (Robert Forster) – il fratello in questa serie – nella penultima puntata, che va letta sincronicamente all’ultima, verrà distrutta l’entità Bob/Judy, grazie al fantasmagorico pugno di Freddie (Jake Wardle). Il fine dell’operazione è quello di “agire sul tempo”, e più in generale sullo spazio, come dimostra anche il blocco delle lancette dell’orologio nell’ufficio dello sceriffo. “Il passato determina il futuro”, dice Cooper, che rincontra la vera Diane e la bacia, per poi augurarsi: “spero che ci incontreremo di nuovo, con tutti voi”.

Cooper verrà aiutato in questo cambio della timeline – direbbero gli ipnologi –, dal misterioso agente Philip Jeffries (David Bowie) e anche dall’“uomo da un braccio solo”, il quale ripete il mantra “nell’oscurità di un futuro passato il mago desidera vedere. Un uomo canta una canzone tra questo mondo e l’altro… fuoco cammina con me”. E poi ancora, quando lo raccoglierà nella loggia prima di rimandarlo in missione “questo è il futuro o il passato?”

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Interessante anche il simbolo della “loggia nera” che, grazie al meccanismo azionato da Philip Jeffries, diviene quello dell’infinito – molti lo usano per raffigurare il “nastro di Möbius” –, con una parte all’interno che localizza la nuova destinazione spazio-temporale. Lo scopo del tentativo è quello di modificare l’evento dell’assassinio della giovane Laura Palmer, per cambiare tutta la storia di Twin Peaks col suo malefico “essere incorporeo” e l’antagonismo delle logge, quella di luce (la bianca) e quella di tenebra (la nera), e forse, più in generale, ripristinare l’“ordine cosmico”.

Un’azione rituale, o magica, o sulla timeline, per cambiare il passato e modificare il presente e il futuro – i trucchi del mestiere. Agire sullo spazio-tempo; forse sbagliando di poco l’azione. Infatti, a un certo punto Laura sfugge dalla mano di Cooper, che “torna” per portarla fuori dalla scena del crimine. Una specie di “deviazione” dalla timeline – gli inconvenienti del mestiere. Dopo questo spostamento spazio-temporale la Palmer non è più la Palmer e vive a Odessa, ma man mano che rientra in auto con l’agente – che sembra un ibrido miscelato a Mr. C –, verso Twin Peaks, riflette ad alta voce “Odessa, ho tentato di tenere pulita la casa, di mettere sempre tutto in ordine, ho tentato” e ancora “è lunga la strada?!”, “allora ero troppo giovane, non avevo la minima idea”.

Così i due giungono alla sua vecchia casa, e dialogano con i nuovi padroni che non riconoscono minimamente la realtà come presentata da Cooper. Ma mentre lasciano l’abitazione, scendendo le scale del cortile di casa, giusto a un tratto Laura si ricorda e immediatamente accede all’altra realtà con un urlo mostruoso. Errori di calcolo sulla timeline o gioco di sovrapposizioni tra scene, basato sull’apertura e la chiusura di portali dimensionali e sulle ripetizioni perpetue di eventi? È il cinema “aperto” di Lynch, come dicevamo: “vederci ciò che si vuole, alla luce di poche coordinate universali”.

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In Inland Empire, invece, il rituale di magia sessuale avviene tra Devon Berke (Justin Theroux) e Nikki Grace, che nel film statunitense/polacco impersona Sue. Da qui questa entrerà in un’altra “zona”, zona abitata da un gruppo di puttane, probabili ulteriori frammentazioni del suo “Io”. Ognuna di esse racconta un pezzo di storia “c’era un uomo che una volta conoscevo, mi piaceva spalancare bene le gambe per lui”; “faceva quella cosa, sì sai, quella cosa che lui vibra tutto, mentre è lì che…hai presente?”, “non era magnifico? Sihh…”, “io gli lasciavo fare qualunque cosa…”, “sihh…”, “sihh…”, “strano, cosa fa l’amore”, “è così strano”. E poi si comincia con la predizione dell’intreccio e la congiunzione di storie e personaggi – “nel futuro”, “ti troverai in un sogno”, “come se stessi dormendo”, ecc.

L’uomo di cui si parla è probabilmente uno della compagnia di zingari polacchi che fa parte dell’altro film, quello che chiede di entrare all’inizio (vedere spiegazione più sotto), quasi sicuramente lo stesso che dice alla prostituta di spogliarsi ma di non voler fare sesso. Forse è quello che è detto il “Fantasma” o “Crumpy”, un uomo misterioso che faceva delle cose strane alle persone, dotato di poteri misteriosi, “scomparire” e “riapparire”. Il “cambio di piano” viene sottolineato dal lampeggio di luci rosse, nel quale si trova la protagonista. Lampeggio caratteristico, come sinonimo di allerta, anche nella serie Twin Peaks.

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La via d’accesso per le dottrine orientali in Cooper si manifesta in più di un’occasione, e viene riproposta dall’agente Gordon (David Lynch) in un sogno da Monica Bellucci con il “siamo come il sognatore che sogna e vive dentro al sogno: ma chi è il sognatore?” – eco di alcuni versi delle Upanishad – “noi siamo come il ragno. Tessiamo la nostra vita e poi ci muoviamo lungo essa. Siamo come il sognatore che sogna e poi vive nel suo sogno.” Da qui l’aggancio alla scena di Twin Peaks: Fire walk with me, con Philip Jeffries e il suo “era un sogno, viviamo dentro un sogno”. 

Senza dimenticare i tulpa, le entità incorporee della tradizione buddista, creati attraverso l’attività meditativa e psichica che, lungi dall’essere semplicemente immaginari, sono invece esseri reali e senzienti. Un tulpa viene creato da Evil Cooper sia per Mr. C (nella loggia nera), che per Diane (nella Gas Station Convenience Store) e molto probabilmente anche Dougie lo è (il terzo Cooper, oltra a Mr. C).

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Tornando agli sdoppiamenti della psiche in Mulholland Drive, l’attrice Diane Selwyn (Naomi Watts) devia in un’altra vita, in un altro personaggio e in un’altra storia, quella di Betty, un’attrice “vivace” e “vincente”, anziché una fallita alla quale hanno soffiato la parte e l’uomo. Nel nuovo personaggio, Betty, avrà addirittura la capacità di “compatire” e di accogliere nel suo appartamento dopo un incidente automobilistico Camilla Rhodes (Laura Harring) divenuta Rita, quella che nella storia vera lei fa uccidere per avergli soffiato la parte e l’uomo.

Un’altra “identificazione proiettiva” nella quale ugualmente si viene a creare un personaggio speculare a quello reale, è la scena nel Club Silencio, dove le due amiche si recano e il presentatore spiega in diverse lingue che “tutto è un’illusione”, mentre Rebekah Del Rio si esibisce nella versione spagnola del brano di Roy Orbison Cryng (Llorando). Ma alla fine l’inganno verrà svelato: la protagonista, appresa la vera realtà, si suicida in preda ai sensi di colpa, incarnati, sempre in maniera speculare, dalla coppia di anziani che, nella storia immaginata, la accoglie ad Hollywood.

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In Inland Empire, l’“apertura” è totale: un gioco di sovrapposizioni sinusoidali che cominciano con la scena di sesso, e si fa continuo, passando da un film polacco a un film statunitense. Quest’ultimo all’insaputa dei vari attori e del regista (Jeremy Irons), è un remake dell’originale polacco le cui riprese furono interrotte per via dell’uccisione improvvisa dei protagonisti. Nikki, si trova a rivivere il ruolo principale del film originale, ma sovrapponendo anche sé stessa al ruolo che recita.

È in questo gioco di specchi che si inserisce Rabbits (2002), una serie enigmatica dello stesso Lynch, che in alcune scene di Inland Empire accompagna il passaggio dalla Polonia agli USA. Ne consegue tutto il gioco di sovrapposizioni di vissuti, attraverso una scena altrettanto enigmatica che vede coinvolto il personaggio misterioso, il Fantasma, che parla di “ingressi” con un flemmatico uomo seduto su un divano, al quale vivacemente chiede di “entrare”.

E da lì, la ripresa si sposta nella vita di Nikki, alla quale si presenta in visita un’anziana donna, un vero “messaggero” che annuncia che la parte nel film le sarà data e che nel film ci sarà un omicidio. Il tutto condito da aneddoti su bambini e bambine, “riflessi” nell’affacciarsi sul mondo e relativa “nascita del male”, vie per palazzi e benefiche dimenticanze, conti da pagare (reazioni karmiche alle proprie azioni), e, infine, sul tempo, la sua illusorietà e l’arte magica nel manipolarlo.

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Un‘arte che l’anziana donna sembra possedere; l’attrice che la impersona, tra l’altro, è la stessa attrice che in Twin Peaks veste i panni di Sarah, la madre di Laura Palmer (Grace Zabriskie), anche lì in possesso di strani poteri di canalizzazione –  come anche la Signora Ceppo (Catherine E. Coulson) – capace di accedere a tutto quel mondo abitato, a seconda di scuole e tradizioni, da “forze intermedie”, “creature magiche”, “incorporei”, “demoni”, “fairies”, “jinn”, o, come si direbbe in base alla cultura moderna, “alieni” (in Twin Peaks le abduction coinvolgono  anche l’attività del maggiore Briggs).

“Elementi” che passano di madre, e padre, in figlia in Twin Peaks: gli stessi problemi di “visioni”, “possessioni” dei genitori della Palmer, sono i medesimi che caratterizzano la stessa Laura. Così durante l’infanzia Leland Palmer (Ray Wise) fa “entrare” Bob nella sua vita, mentre Sarah comunica messaggi dalla provenienza ignota a Briggs ecc. La genesi di Bob, entità malevola ha a che fare con le sperimentazioni nucleari a White Sands, nel New Mexico del 1945 (Progetto Manhattan), come viene mostrato in Twin Peaks 3 ep. 8 – ed è annunciata dal pezzo dei Nine Inch Nails She’s Gone Away alla Roadhouse (il famigerato locale di Twin Peaks) – versi “You dig in places ‘til your fingers bleed/Spread in the infection where you spill your seed”, cioè “Scavi finché le dita non ti sanguinano/Diffondi l’infezione dove depositi il tuo seme”.

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Possiamo paragonare tali sperimentazioni a una conversione alchemica al ribasso (l’“oro in piombo”) o, giocando con la fisica, e ipotizzando la trasformazione in laboratorio della “materia in antimateria”. È da questa esplosione che si generano tutti i Woodsmen (boscaioli), “esseri oscuri”, terrifici, dai tratti somatici secchi e spogli di vita, balzati fuori in seguito alle sperimentazioni, da una Gas Station (cfr. benzina: altro elemento simbolico della trasmutazione dell’oro in piombo), lo stesso luogo dove viene creato il tulpa di Diane. Esseri che sembrano fare da sostegno al doppelgänger di Cooper (Mr. C), quando questi viene colpito a morte, riportandolo in vita, similmente a quanto viene compiuto da Morgana e dalle sue fate sul corpo morto di Artù presso Avalon – nella prima stagione di Twin Peaks viene citata Glastonbury come connessa alla loggia.

La genesi di Bob/Judy prosegue sotto forma di insetto gigante, parassitando il corpo di una ragazzina, e viene annunciata durante una trasmissione fonica radio da uno di questi Woodsmen, con la celebre invocazione magica “questa è l’acqua e questo il pozzo, bevi a fondo e discendi. Il cavallo è il bianco degli occhi e oscuro all’interno”. Bob/Judy si nutre di “garmonbonzia”, una sostanza prodotta da forze di attrito (dolore e sofferenza), per la quale lottano le varie gerarchie di “esseri invisibili” di Twin Peaks e che assomiglia al Loosh dei racconti dello scrittore e ricercatore Robert Monroe, l’“energia negativa” sempre prodotta dalle medesime forze di attrito e utile al nutrimento di “esseri trans-dimensionali”.

A dirla tutta si scoprirà che la genesi di Bob comincia in altri mondi, in una specie di campo akashico dove si radunano tutte quelle forze che costellano il mondo invisibile di Twin Peaks e Cooper (es. il gigante e Laura Palmer). Un mondo dal quale si sintonizzano grazie all’uso di un marchingegno tecnologico (simile a quello azionato dal Woodsmen in Ereserhead), anche i “cattivissimi” della serie – i vertici del potere americano –, e non di rado legato a progetti governativi segreti (Blue Rose e le attività di Briggs), in un mondo simbolicamente situato tra cielo e stelle.

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6 commenti su “L’impero interno: note occulte sul cinema di David Lynch

  1. Ciao, bellissimo approfondimento come sempre, ma mi permetto di fare un piccolo appunto. Non so se per scelta, o per altro, ma secondo me manca tutta la parte che fa riferimento all’estetica tipica dei film lynchiani, ovvero quella noir. Impossibile prescindere dalla stessa poiché permea, sia visivamente, sia a livello contenutistico, i suoi film. A loro volta i noir, come sicuramente ben sai, sono stati frutto del loro tempo “oscuro”, post guerra e dalle teorie freudiane e junghiane sempre più in voga. Quando penso ai succitati film di lynch, per me è impossibile non vederne, come pietra angolare, capolavori assoluti come “lo straniero del terzo piano”, “d.o.a.”, “Situazione pericolosa” e, soprattutto per questo caso specifico, Detour, peraltro citato nell’incipit di “Strade perdute”. Film dalla pesantissima componente onirica e dunque psicoanalitica. Scusa il puntiglio, ma da adoratore dei film noir (ne ho visti a centinaia) e del cinema in generale (ne ho visti a migliaia), non potevo non fare questa precisazione. Un saluto ti seguo sempre.

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