In “Va’ verso te”, recentemente edito in italiano dalle Edizioni Tlon, convergono, fra le altre cose, il cattolicesimo gallicano, lo gnosticismo alessandrino, la Kabbalah ebraica, i miti greci e la psicologia del profondo come locus privilegiato dell’incarnazione degli archetipi eterni.
di Daniele Capuano
copertina: William Blake, “The Reunion Of The Soul And The Body”
Se volessimo seguire il consiglio di Ivan Illich e scrivere della nostra epoca a un amico di penna contemporaneo di Ugo da san Vittore, dovremmo probabilmente offrirgli la stentata e penosa – e al contempo apocalitticamente tentatrice – visione di una immensa reta magica che, emessa come bava dal nostro più fine ingegno, ci ha intrappolati al punto di atrofizzare, ben più che le membra visibili, le delicate, plastiche e sensibili membra psichiche: un esito cui ci preparavano, da millenni, tutti gli apologhi, umoristici e orripilanti, sui pericoli dell’arte magica, dal Philopseudes di Luciano, al racconto del Golem praghese, ai versi agili dell’Apprendista stregone, al terrore puro di The Monkey’s Paw di Jacobs – come sempre, insegnamenti così noti e diffusi da restare perfettamente inascoltati. Ma in quella lettera impossibile dovremmo anche, a un certo punto, affrontare un tema ben più antico del nostro corrispondente medievale, quello della diagnosi dello specifico male occidentale, sui cui segni e le cui cause quasi ogni testa pensante della nostra cultura è stata, almeno una volta nella vita, un perplesso o arroventato Ippocrate.
Proviamo a dargli l’ennesimo nome, a beneficio del nostro fratello del XII secolo e della nostra sorella psiche del secolo XXI: la perdita di una conoscenza chiara, diretta e articolata della fisiologia sottile e, più radicalmente, del mondo o piano dell’essere/esperienza sottile – quel piano senza il quale l’intelletto diventa progressivamente un contenitore di astrazioni e il corpo visibile e tangibile una macchina. Le arti sono state grande supplenti, nel tempo di questa inesorabile ablazione: ma se l’immaginazione – che è la sostanza di quel piano o mondo mediano e mediatore – non viene riconosciuta nel suo profilo essenziale, nel suo statuto ontologico, se lo spirito non si fa corpo e il corpo spirito nell’immaginazione, e se l’artigianato della meditazione non trova un linguaggio e delle pratiche in grado di nutrirla ed educarla in modo definito e peculiare, è fatale considerarla, prima o poi, una nobile allucinazione, una necessaria (o forse no) illusione dell’animale ragionante.
Sempre in questa vena, stavolta anche con qualche barlume prognostico (e ci si passi l’implicito pun), si potrebbe dire che nel corso del secolo XX molte correnti rimaste a lungo sotterranee sono riemerse in un impressionante concerto di segni e aspirazioni, con polifonici intrecci di destini e itinerari di cui riusciamo oggi, in parte, ad apprezzare il segreto rigore e l’aerea libertà: tradizioni protette per secoli dalle tenebre materne di cripte, scuole e fratrie si sono mostrate, a volte sotto la pressione di catastrofi straordinarie, agli sguardi stupiti del mondo secolarizzato e smarrito; in villaggi e metropoli umili maestri hanno sconvolto e trasfigurato porgendo, apparentemente senza filtri, il verbo di una sapienza che si credeva dimenticata o degradata; i libri di tutte le gnosi sono riaffiorati, in modo sempre imprevedibile e sempre giustissimo, da deserti letterali o meno; migliaia di pellegrini hanno attraversato le terre alla ricerca dei santuari dei loro padri, o dei padri dell’intero esperimento umano.
Sia la vita che l’opera di Annick de Souzenelle fanno pensare a un compendio, dipinto con la punta delle dita, di questi sommovimenti del XX ancora in corso – o forse in una lunga fase di assestamento: il cattolicesimo gallicano assorbito e perduto in famiglia, poi ritrovato, come Massignon, nell’ospitalità abramica della pietà musulmana; l’accostamento alla teologia e all’ecclesialità cristiano-orientale; il recupero dell’esegesi gnostica alessandrina (Origene e Clemente anzitutto) e di quella cabbalistica ebraica; la rilettura dei miti greci e delle grandi scritture dell’Oriente non cristiano; la riscoperta della simbologia; della sofiologia ortodossa (i cui cantori più roventi e geniali sono stati Solov’ëv e Florenskij); la terapia della psiche moderna come locus privilegiato e difficile dell’incarnazione dello studio dei simboli; e non si è certo detto molto, con questo povero elenco, dell’avventura spirituale di questa novantasettenne ancora valorosamente impegnata nella lotta ermeneutica con l’angelo del Libro Sacro. Chi non ha mai gustato la gioia della sua pagina prenda uno dei suoi numerosi libri, giustamente amati e ruminati da un vasto cenobio – soprattutto di “cristiani di frontiera”: potrà iniziare seguendo il soffio dell’inclinazione, perché in essi la progressione del viaggio non è mai disgiunta dalla circolarità dell’apertura meditativa e contemplativa.
La casa editrice Tlön, che è anche una bottega di pensiero critico, di revisioning filosofico hillmaniano pop ed esigente insieme, ha pubblicato nel 2016 Va’ verso te. La vocazione divina dell’Uomo, una delle ultime opere dell’autrice: oltre a segnalare la traduzione competente e sensibile di Antonio Miranda e l’eleganza della veste, invitiamo a una lettura che tenti di riapprendere, beninteso con un ermetico grano di sale, l’antica arte del quieto e paziente assaporamento della parola scritta – un’arte cui la de Souzenelle può di nuovo addestrare i puri di cuore.
L’esegesi biblica dell’autrice mette in opera una cassetta degli attrezzi dalla varietà apparentemente sconcertante: le regole della decostruzione cabbalistica, applicate con giocosa e seria libertà, convivono con un approccio cristiano-orientale in cui la gnosi degli Stromata di Clemente e la teologia ortodossa della theandria (la divino-umanità rivelata in Cristo) non sdegnano di collaborare strettamente; le citazioni di maestri taoisti o iranici, i richiami al mito greco e alla psicologia del profondo, strumenti a volte maneggiati con felice ingenuità e senza riguardo per lo spessore culturale specifico – questa ricchezza sulle prime ubriacante e magari irritante svela presto un disegno unitario, un telos definito, una tensione pienamente consapevole.
Il lavoro sulla lettera del Libro mira ad estrarne, rompendo i sigilli dell’abitudine devota o colta, il mercurio della infinita risonanza simbolica, che matura nell’oro della saggezza: quel simbolismo del corpo umano (titolo dell’opera più fortunata dell’autrice), arcaico e dunque sempre più attuale, sempre più “in atto” di qualunque moderno, che sa vedere nuovamente, nelle membra di carne e in quelle invisibili, impalpabili, della psiche e della mente, la tastiera degli archetipi, il luogo della manifestazione di ciò che un tempo si diceva divino. L’albero della vita e l’albero della conoscenza del racconto della Genesi sono il corpo stesso dell’Adamo, il dispiegarsi e l’incarnarsi dell’alfabeto supremo, quello delle sefiroth cabbalistiche – le dieci emanazioni originarie dell’Assoluto ineffabile, En Sof.
Adamo, universo decaduto a frammento, è il “divino nel sangue” (il nome Adam è costituito dalla lettera Alef, simbolo dell’Unicità divina, e dalla parola dam, “sangue”, sede del soffio vitale animale), il “mutante” della creazione, secondo un’intuizione ermetica che arriva fino a Pico e attraversa tutta la sapienza misterica antica e moderna: la sua trasformazione è trasmutazione alchemica ed escatologica del cosmo stesso, è l’umanazione di Dio simultanea alla divinizzazione dell’uomo, di cui parlano i Padri della Chiesa; e se le parole tante volte ripetute dalla gnosi suonano, con la loro aura ieratica e iniziatica, troppo distanti dal nostro corpo e dalla nostra anima a lungo privati della rugiada del simbolo, la de Souzenelle sa porgerle con la freschezza di un colloquio appassionato tra amici, tra ricercatori: ove riecheggia, come le piacerebbe notare, il significato primo del termine omelia, homilia, associazione di vita, compagnia-comunione, conversatio.
La chiamata di Abramo, il pellegrino di Harran, figlio di un “costruttore di idoli” e padre di tre religioni (in cui la dialettica tra elezione e philoxenia è stata sempre terribile, spesso esaltante) – è modulata dalla voce divina, intima e remota, nelle parole Lekh lekha: “Va’, vattene” – dalla tua terra, dalla tua gente, dalla casa di tuo padre. L’esegesi cabbalistica ha sempre auscultato un’altra lettura: “Va’ verso te”, le-kha. L’esodo dall’identità familiare, sociale, nazionale, il viaggio verso “la terra che io ti mostrerò”, è un viaggio verso il sé, verso un io che, nell’uscita-ritorno, è un tu.
Spogliatosi delle maschere, delle personae necessarie e caduche, il viandante percorre il deserto appeso a una voce – perché il deserto (midbar) è il luogo della parola (dabar). Andando verso la terra della promessa, va verso di sé e torna alla pienezza dell’Adamo, ovvero migra verso la consumazione messianica: recupera la trasparenza al simbolo, nutre gli angeli e ne è nutrito. La tradizione ebraica, la qabbalah, attribuisce ad Abramo il Sefer Yetzirah, il libro che insegna la grammatica della creazione, la grammatica del corpo. Un testo che, volendo, potrebbe insegnarci molte cose sulla nostra epoca, un tempo di alta magia ancora largamente inconscia.
Parole audaci, vive, cordiali come quella della de Souzenelle possono risvegliare molte scintille assopite, e custodire il fuoco centrale della storia al di sopra o al di sotto dei suoi molteplici diluvi.
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