Teofanie vegetali. Il simbolismo delle piante nell’opera di Ernst Jünger

Studiando l’opera e la vita di Ernst Jünger non si può che rimanere sopraffatti di fronte a un pensatore che, proprio in virtù delle sue esperienze estreme, è stato in grado di avvicinarsi (usando un termine a lui caro) alla fonte stessa dell’Essere. Ci troviamo di fronte a un uomo che, solo per citare alcuni aspetti della sua biografia, scappò di casa a sedici anni per arruolarsi nella legione straniera, che combatté due guerre mondiali rimanendo ferito oltre quindici volte, che esplorò l’estasi e il terrore degli stati alterati di coscienza attraverso alcol, tabacco, cannabis, hashish, cocaina, etere, cloroformio, mescalina, funghi psilocibinici, LSD – perfino un pericoloso vino di mandragora che cita in un suo carteggio con Albert Hofmann [1]; il tutto, per poi morire alla veneranda età di 103 anni. Nato, infatti, nel 1895, si spense nel 1998 dopo aver attraversato più di un secolo, dopo aver partecipato ai più importanti drammi storici del ‘900, sopravvivendo a tutti i principali protagonisti di prima e seconda guerra mondiale e avendo perfino il tempo di veder innalzare e cadere il muro di Berlino

Ma l’aspetto più importante della sua opera – e con opera si intende tanto la sua opera letteraria, quanto la Grande Opera della sua vita – è che egli non si fece trascinare da questo intenso vortice di eventi come un semplice testimone, ma alla stregua di un alchimista riuscì a distillare un senso metafisico da ciascuna esperienza, fosse essa meravigliosa o terribile. Che si leggano i suoi diari di guerra, i suoi saggi filosofici o i suoi romanzi e racconti, si ha la percezione di un pensiero che non nasce soltanto sulla carta, ma che è stato prima scolpito nella carne e nel sangue, nella gioia e nella sofferenza, e dietro a ogni riflessione si riesce a intravedere una profondità che va oltre le lettere e l’inchiostro. Ci sono passi in cui ci si sente accompagnati sul bordo di un precipizio, la cui vista toglie il respiro ma sul cui fondo percepiamo nascondersi un mistero fondamentale dell’esistenza. Un mistero che Jünger è stato in grado di sondare, con la sua esperienza, e che ora ci invita a cogliere – ma al costo di lanciarsi al di sotto con lui. 

Il segreto della sua capacità di sondare la vita nasce, senz’altro, dal contatto con gli eventi estremi che hanno contraddistinto ogni momento della sua vita, sia in pace sia in guerra. Come scrive, ad esempio, ne La battaglia come esperienza interiore:

D’altronde, troviamo, come in Junger, anche nell’esperienza di un altro pensatore-soldato del novecento, Filippo Tommaso Marinetti, la sensazione che giunti alla sbarra che separa la vita dalla morte l’uomo sia messo in contatto con forze eterne, strettamente legate al significato dell’esistenza. Come scrive Marinetti ne L’Alcova d’acciaio narrando l’infuriare di una battaglia:

Tuttavia, la profondità dello sguardo di Jünger va oltre; non risiede soltanto nella capacità di guardare al di là dello squarcio che si apre durante le esperienze estreme, ma soprattutto nella dote di mantenere aperto uno spiraglio anche durante la vita quotidiana, guardando le cose più semplici di questo mondo come portali o gradini che, attraverso i sensi, sono in grado di disvelare una realtà divina, archetipica. È una capacità più sottile, che si coglie nella capacità dell’autore di spaziare tra temi apparentemente sconnessi tra loro e di trarre da ciascuno di essi un senso filosofico e metafisico, di percepire il filo d’oro che lega ogni cosa. Basta leggere, ad esempio, Avvicinamenti o Al muro del tempo per trovarsi di fronte a riflessioni sull’esistenza scaturite non da esperienze limite, ma dalla meditazione su aspetti disparati della vita, siano essi un bicchiere d’acqua, un parafulmine, il fossile di un dinosauro, un minerale, uno strato geologico, un insetto o, ultimo ma non meno importante, una pianta

Ernst Jünger (1895-1998)

Il mondo vegetale occupa un posto di primaria importanza nell’opera e nella vita di Jünger e, in maniera più o meno esplicita, fa da filo conduttore in tutte le sue opere principali. Spesso di Jünger viene messo in luce il soldato, il guerriero, ma non bisogna dimenticare che la sua grandezza, come d’altronde quella del Marinetti, risiede nell’aver coltivato insieme alla spirito battagliero un animo delicato, uno sguardo poetico nei confronti del mondo; in particolare, lo sguardo naturalista erede della sensibilità romantica ottocentesca di autori come Goethe, che si dedicavano allo studio delle scienze naturali consapevoli che anche la forma di un semplice fiore fosse in grado di svelare i misteri dell’ordinamento divino, per quell’animo abbastanza sensibile da chinarsi a osservarlo

Dunque non dobbiamo immaginare in Jünger soltanto il filosofo infangato e ferito in trincea; più che il fango dei campi di battaglia, a Jünger si addice il fango del sottobosco. Egli è anzitutto il Waldgänger, che Jünger stesso descrive nel Trattato del Ribelle, il rinnegato che si dà al bosco e che con il fango plasma il senso della propria vita, erige la propria libertà. Come scrive in Avvicinamenti:

Il bosco rappresenta per Jünger il dominio di una libertà atavica: l’ambiente naturale in cui le ombre e il fruscio delle foglie fanno risorgere le paure, le sensazioni e i sentimenti primordiali che risvegliano l’uomo delle origini; il cacciatore e la preda, che nella sua lotta per la sopravvivenza esplicava tuttavia la sua libertà più profonda, sciolta dai vincoli del tempo, della società, dalle parole, costretto e recuperare la coscienza immaginifica che coglie le informazioni non dal linguaggio, ma dai simboli e dai segni del mondo che lo circonda. Un uomo che nella solitudine del bosco è costretto a tornare a dialogare con il mondo vegetale, il suo maestro originario. Citando le parole di Junger:

Come accennato il precedenza, l’interesse di Jünger nei confronti del mondo vegetale non era esclusivamente di stampo simbolico e metaforico, ma era accompagnato da una formazione scientifica che lo porterà ad occuparsi, oltre che di botanica, chimica e sostanze psichedeliche, anche di entomologia [6]. Interessi tutt’altro che secondari, ma perfettamente in linea con l’approccio gnoseologico dell’autore, la cui riflessione metafisica abbiamo visto essere intrinsecamente collegate non solo alle sue esperienze, ma soprattutto alla molteplicità delle forme materiali in cui la vita si manifesta. Un approccio che lo accompagnerà nel trascorrere degli anni, basti vedere la minuzia con cui si appuntava le specie animali e botaniche che incontrava sul cammino nei suoi diari di viaggio [7].

Questo interesse nasce dalla consapevolezza che il segreto della vita non risiede nel linguaggio che, come la città, è soltanto un surrogato dell’esperienza; il segreto della vita risiede nella vita stessa, in particolare in quelle forme grazie alle quali la vita animale poté sorgere dall’indifferenziato: le piante. L’interesse di Jünger per le piante trascendeva la semplice curiosità botanica; oltre all’influenza di Goethe, possiamo ravvisare nella sua grande considerazione del mondo vegetale le teorie di Fechner, autore di Nanna o L’anima delle piante, tra i più importanti pensatori ad allontanarsi dalla visione aristotelica delle piante schiave di una vita prettamente meccanicistica. Come Fechner, Jünger elevò le piante al di sopra del basso rango a cui, da sempre, sono state relegate, considerandole depositarie di una potenza autonoma e di una conoscenza chimica. Come scrive in Avvicinamenti:

In ogni capitoli di Avvicinamenti, Jünger è stato in grado di mostrare la simbiosi instauratasi nel corso dei secoli tra pensiero umano e mondo vegetale e, soprattutto, come ciascuna sostanza attiva sulla coscienza sia in grado di avvicinare l’uomo alla sorgente dell’essere, a fargli intuire il significato più profondo della vita e del tempo. Tuttavia, l’apoteosi della “sensibilità vegetale” è stata raggiunta dall’autore anche in un altro testo, un vero e proprio trattato di botanica simbolica dissimulato a romanzo. Sto parlando di uno dei suoi romanzi più noti, che fu recensito anche da Julius Evola [9]: Sulle scogliere di marmo. Della novella, solitamente, si mette in risalto il ruolo profetico nei confronti dell’ascesa e della rovina del nazismo; una lettura che, tuttavia, tende a offuscare il profondo simbolismo vegetale di cui è permeata, laddove sono proprio le piante, piuttosto che le vicende umane, a farla da padrona, e ad assurgere al ruolo di vere e proprie teofanie vegetali

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Sulle scogliere di marmo, in breve, narra la caduta della civiltà bucolica della Marina ad opera di una popolazione selvaggia che vive nel folto dei boschi, guidata dalla figura enigmatica del Forestaro, incarnazione delle forze ctonie, distruttive, ataviche e titaniche che, come magma, distruggono i vecchi terreni ma che, come magma solidificato, fanno da substrato per la nascita di nuovi lidi. Il fulcro della novella non è la trama in sé, che è relativamente semplice, bensì le dinamiche sociali che portano alla caduta della Marina e, soprattutto, la descrizione del diffondersi della paura che, come una nebbia, si solleva dal bosco per diventare sempre più densa e soffocante, fino ad arrivare al climax di violenza e terrore finale. 

La critica letteraria ha sottolineato i numerosi parallelismi tra la narrazione di Jünger e l’ascesa di Hitler al potere, ma non è di questo che intendo trattare in tale sede. Come accennato in precedenza, infatti, questa chiave di lettura ha offuscato altri dettagli esposti in evidenza durante tutto il corso dell’opera, che rendono le piante se non le protagoniste, quantomeno le coprotagoniste. Esse infatti scandiscono l’intero intreccio narrativo e mettono in luce la profonda conoscenza naturalistica e simbolica di Jünger. Questo è evidente a partire dai due protagonisti. La voce narrante e il fratello Ottone sono due botanici che trascorrono una vita pressoché monastica presso un eremo dal nome emblematico, l’Eremo della Ruta. Stando alla descrizione di Jünger:

Il giardino dell’eremo è ispirato ai cosiddetti giardini dei semplici, gli orti botanici presenti in eremi e monasteri medievali, ad esempio quello della Scuola Salernitana, in cui le pratiche religiose e ascetiche erano accostate alla coltivazione di piante officinali, utilizzate, come un dono di Dio, per la cura delle malattie. Emblematico, tuttavia, è un altro dettaglio, ossia la pianta totem dell’eremo.

La ruta di cui si parla è la Ruta graveolens, famiglia delle Rutacee; dall’odore pungente, acre, dal sapore amaro, si tratta di una pianta oggi caduta in disuso per la tossicità epatica, ma che in passato è stata ampiamente utilizzata, dall’antichità greco-romana, passando per il medioevo fino all’epoca moderna, e che era rivestita di una forte carica simbolica.

In medicina era utilizzata già da Ippocrate come digestiva e per risolvere i problemi di circolazione sanguigna; i Romani ne apprezzavano il sapore amaro, basti leggere le ricette di Apicio [12] per trovarla come pianta aromatica in numerosi piatti. Ma, cosa più importante per la presente trattazione, Ovidio e Plinio la ritenevano in grado di acuire la vista, nozione tramandata anche dal Flos Sanitatis della scuola medica salernitana,  e come tutte le erbe aromatiche dall’odore pungente nel folklore popolare è stata sempre considerata come un’erba protettiva scaccia diavoli, utilizzata per fumigazioni [13]. Tutte queste caratteristiche, sia fisiche sia metaforiche, sono perfettamente in linea con il simbolismo incarnato dall’Eremo della Ruta all’interno del romanzo. L’eremo, infatti, è un “idillio nell’idillio”, una zona ancor più circoscritta rispetto alla già bucolica terra della Marina. Una zona riparata, elevata, da cui è possibile affinare la vista per posare gli occhi lontano, nel paesaggio esteriore, in profondità, negli abissi interiori e, soprattutto, per aguzzare lo sguardo sui dettagli del mondo vegetale.

L’Eremo infatti ospita un’intera biblioteca dedicata alle piante e conserva i preziosi erbari lasciati in eredità dai predecessori, che i due protagonisti hanno il compito di ampliare. Una missione tutt’altro che fine a se stessa, che nel romanzo assurge a vero e proprio compito spirituale. “Eravamo venuti all’Eremo” racconta il protagonista “con il piano di dedicarci a profondi studi circa le piante, e cominciammo, secondo l’ordine antico nelle cose dello spirito, dagli esercizi del respiro e dall’imporci un regime nella nutrizione. Come tutte le cose di questa terra, anche le piante ci vogliono parlare e una mente chiara è necessaria per comprenderne il linguaggio. Seppure nel loro germinare, fiorire e sfiorire si nasconda la fallacia, cui niente di ciò che fu creato si sottrae, assai bene però vi si può intuire l’elemento immutevole racchiuso nello scrigno delle apparenze. L’arte di rendere in tal guisa acuto lo sguardo, fratello Ottone diceva comparabile ad una astrazione dal tempo, e riteneva che la pura astrazione non fosse raggiungibile al di qua della morte” [14] e, poco più avanti, un esplicito riferimento alla capacità dell’Eremo della Ruta di acuire la vista spirituale, quando la voce narrante scrive che

L’Eremo della Ruta dona dunque una nuova vista mediante la contemplazione della natura e, tra le pagine dei libri e degli erbari, il verbo ordinatrice di Linneo assurge non soltanto come strumento enciclopedico, ma soprattutto come forza gnoseologica con cui penetrare nella conoscenza della natura. Inoltre, affine all’utilizzo scaramantico, esso sembra domare le forze infere e ctonie provenienti dal sottosuolo. Emblematica la descrizione del piccolo Erio che, come Eracle fanciullo, afferra, domina e gioca con i serpenti che si nascondono tra le pietre dei muretti dell’Eremo. 

Oltre alla ruta, altre due piante totem della Marina sono la vite e il grano. La vite, Vitis vinifera, famiglia delle Vitacee, e soprattutto il suo prodotto, il vino, ricorre di continuo all’interno del testo. Il suo ruolo simbolico è fondamentale e meriterebbe un articolo a parte. Il vino, come Giano Bifronte, rappresenta tanto l’ebrezza quanto la civiltà. Due aspetti apparentemente contraddittori ma, in realtà, strettamente collegati. Il vino, infatti, non può che diffondersi in una civiltà stanziale, dedita alla agricoltura, che forgia la natura creando terrazzamenti per coltivare la vite, osservarla crescere e ramificarsi sui percorsi per lei costruiti, che possiede le conoscenze chimiche e alchemiche che consentono la fermentazione. L’ebrezza che ne consegue è dunque intrinsecamente connessa alle radici della civiltà in cui la vite fiorisce – ed essa raggiunge la sua apoteosi proprio nei momenti sociali e conviviali, pensiamo ai simposi, in cui la potenza dionisiaca e visionaria del vino veniva annacquata per smorzarne il potere – che, come suggerisce Gilberto Camilla, era potenziato dalle piante allucinogene inserite da greci e romani al mosto durante la fermentazione [16]. Come scrive Jünger in Avvicinamenti:

Allo stesso modo, nel romanzo ricorrono le descrizioni della vite e del vino, quasi fosse una pianta tutelare della Marina, incarnazione dello spirito Apollineo che è stato in grado di domare l’ebrezza dionisiaca, laddove esso viene sempre consumato, dal protagonista e dagli abitanti, con una moderazione conviviale, senza mai lasciarsi andare agli eccessi.  Lo stesso dicasi del grano, genere Triticum, famiglia delle Graminacee, ovviamente non per quanto riguarda la forza visionaria ma per la società stanziale e dedita alla agricoltura che esso implica. Nel romanzo, infatti, il vino è spesso associato al consumo di pane, altro prodotto simbolo della civiltà stanziale, in netta opposizione, con il modo di vivere e mangiare dei Cacciatori e del popolo della selva guidato dal Forestaro, legati a sangue, caccia, carne e razzie e, di conseguenza, a un mondo vegetale incolto, incontrollabile, che non ha instaurato con l’uomo una simbiosi apollinea come vite e frumento. Scrive Jünger per descrivere l’avanzata della natura indomita, a discapito di quella domata, in seguito a guerre:

Anche in questo caso, simbolismo e scienze naturali si fondono in un tutt’uno inscindibile. In seguito a stravolgimenti e distruzione, scompaiono le specie importate dall’uomo e riappaiono le cosiddette piante pioniere, le prime a risorgere in seguito a incendi e distruzioni e, dunque, da sempre, benché simbolo di rinascita, associate anche a morti e disgrazie, se non alle stesse anime dei caduti. Tra esse, il papavero, Papaver rhoeas, famiglia delle Papaveracee, che si riteneva rinascere dal sangue dei morti sui campi di battaglia. Ma, dato le altre due piante citate, Datura stramonium e Hyoscyamus niger, entrambe della famiglia delle Solanacee e contenenti alcaloidi deliriogeni e psicoattivi, potrebbe benissimo trattarsi anche del Papaver somniferum, il papavero da oppio. Papavero, giusquiamo e stramonio sono infatti le piante che per eccellenza incarnano l’inquietudine terribile della natura selvaggia. Piante associate a Saturno, al mondo ctonio, a Cerere, all’Ade ma soprattutto alla stregoneria, sono perfettamente in linea con la decadenza della dea Diana citata dallo stesso Jünger. Ricordiamo, infatti, che la dea Diana, dea tutelare dei boschi, degli animali selvatici e della caccia, “decadde” durante il medioevo, grazie al Canon Episcopi, a dea della stregoneria, venerata da streghe e stregoni durante i Sabba celebrati nell’oscurità del bosco [19], utilizzando un unguento formulato a base di Solanacee e Papaveracee psicoattive, tra i cui ingredienti troviamo sovente proprio papavero da oppio, stramonio e giusquiamo [20]

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Gli incubi, le visioni, i deliri, le sensazioni di oppressione e di prigionia date da dosi eccessive di oppio, stramonio e giusquiamo sono ben lontane dalla ebrezza conviviale donata dal vino; esse trascinavano in un mondo infernale al di là del tempo, in cui cibi e bevande, benché consumati in abbondanza, non davano sazietà né avevano sapore. Inducevano grida, paranoia, convulsioni incontrollabili, come narrano le testimonianze degli inquisitori contenute nel Malleus maleficarum che, per studiare gli effetti dell’unguento sulle cosiddette streghe, costringevano le vittime a utilizzarlo di fronte a loro. Piante, dunque, demoniche, in grado di estendere in maniera incontrollabile loro radici nella psiche umana, e di lasciare così ombre e impronte indelebili nella coscienza.

Ma c’è un’altra pianta, insospettabile, che ritorna a più riprese come simbolo della natura perturbante e del Forestaro: l’edera. L’edera, Hedera elix, famiglia delle Araliaceae, viene citata a più riprese ogni volta che nel romanzo si parla del Forestaro. Essa è la pianta che per eccellenza rappresenta i luoghi abbandonati, ricoperti dalla vegetazione e, soprattutto, fa da perfetto contraltare alla vite. Come la vite, infatti, l’edera si arrampica, ma il suo avanzare non è ordinato e delicato come quello della vite; essa si avvinghia a terreno, alberi e muretti, si pensava che risucchiasse con le sue radichette la linfa vitale dagli alberi, e il suo lento e inesorabile avanzare nel bosco e nei luoghi da cui si è ritirata la civiltà simboleggia alla perfezione “il timore che ci prende ovunque si ripresenti il groviglio della vegetazione, come dinanzi alla immagine di un dio, che ci attiri con mille braccia” [21].

L’etimologia stessa del nome è connessa al latino haerere, “essere attaccato”, e dal greco eileo, “avvolgo, stringo”. Come la vite, l’edera produce infiorescenze rosse, a grappolo, simili all’uva ma velenose, dunque difficilmente “addomesticabili”, sebbene Plutarco riporta come greci e romani ne producessero una bevanda inebriante [22]. Scrive l’autore greco: “secondo alcuni, essa contiene spiriti violenti che risvegliano, eccitano e producono moti seguiti da convulsioni. Insomma, ispira ebbrezza senza vino, una specie di possessione, in quanti hanno disposizione naturale per l’estasi” (Plutarco, Quest.Conv., III,2). Non a caso come la vite anche l’edera era associata a Dionisio; il suo capo è infatti cinto, nelle rappresentazioni, da una corona di edera. Plinio nella Storia naturale riporta come venisse usata per saggiare la qualità del vino, così come il Forestaro con il suo lento avanzare saggia l’ormai decadente forza e nobiltà del popolo della Marina. Ed è proprio di fronte all’edera, insieme ad altre piante ferali, che i due protagonisti si ritrovano addentrandosi nei domini selvaggi del Forestaro:

Belladonna (Atropa belladonna) che, tra l’altro, come giusquiamo e stramonio è una delle Solanacee psicoattive associate al regno della stregoneria, altro ingrediente dell’unguento sabbatico nonché altra pianta contenente alcaloidi tossici (atropina e scopolamina). 

Insieme  all’edera, altro tema vegetale ricorrente nel corso del romanzo è quello del confine tracciato dagli alberi. Quando si entra in un bosco, sono proprio gli alberi a tracciare il confine tra mondo civilizzato e mondo selvaggio. Essi si ergono come colonne di un tempio; un tempio sterminato, un labirinto disordinato che si estende senza una ratio, che ingloba il viaggiatore facendolo svanire nell’intrico di rami e cespugli, nell’oscurità del sottobosco. Nel romanzo, alberi simbolo di questo passaggio sono i tre alti pioppi, la linea di confine che determina l’attraversamento della soglia del Corno del Carnefice. 

Il pioppo, Populus nigra, famiglia delle Salicaceae, è una pianta associata agli inferi. “Il mito vuole che Ercole, disceso nell’Ade” si legge ne La simbologia delle piante di Lapucci e Antoni “trovò il pioppo Acheore sulle rive dell’Acheronte e, coltene delle fronde, se ne fece una corona. Di questa la parte che toccava la testa del semidio conservò il colore bianco, che era quello originario della pianta, mentre la parte esterna, esposta alla tetra caligne degl’Inferi, divenne scura” [24]. Similmente, scrive Piterà in Compendio di Gemmoterapia:

Come nel mito, anche nel romanzo al di là dei al di là dei tre pioppi si cela una realtà infera, si trova l’infame capanna del macellaio, un vero e proprio inferno di corpi morti, smembrati, di teschi inchiodati agli alberi che battono al vento le loro mascelle ormai ingiallite e, seppur morte, ancora sofferenti degli atroci terrori che le orbite vuote hanno osservato. Un inferno che, come l’oltretomba pagano, è vegliato anche nel romanzo dalla presenza canina, in particolare la furiosa muta di mastini, capitanata da un molosso di Cuba, con il pelo rossastro e la maschera nera, il Cerbero del Forestaro. Anche il tre è un numero fortemente simbolico; esso rimanda alle tre teste di Cerbero, ai tre volti di Ecate, alle tre sorelle di Fetonte e, soprattutto, se due alberi, affiancati, formano un portale, dunque una regione che suggerisce l’idea di un attraversamento, tre alberi allineati danno vita a un confine, dunque una regione che separa due ambiente che non dovrebbero entrare in comunicazione tra loro. Da notare, inoltre, che anche il pioppo era uno degli ingredienti inserito nell’unguento sabbatico sebbene, probabilmente, per carminare gli effetti negativi delle sostanze psicoattive, dato che un unguento populeo era molto diffuso come panacea come sedativo e per curare dolori e infiammazioni. 


Il ruolo fondamentale svolto dalle piante e, in particolare, dai fiori all’interno del romanzo è esplicitato dallo stesso Jünger, in un passo emblematico. Scrive lo scrittore tedesco: “Nei variopinti disegni dei fiori, come in segrete scritte a geroglifico, l’immutabile vive, e i fiori sono simili a orologi, ove sia sempre da leggersi l’ora giusta” [26]. È dunque da ricercare nei fiori il significato ultimo della novella e, a conclusione del presente articolo, occorre soffermarsi sui due fiori simbolo descritti all’interno del romanzo, che più incarnano i destini dei due mondi, quello della distruzione e quello della sacralità e che, non a caso, sono due fiori opposti, uno raro e uno invece estremamente comune ma che, allo stesso tempo, si nascondono nel folto dell’erba, come il mistero dell’esistenza

Il motivo per cui i due protagonisti varcano il confine proibito del bosco, così come descritto in precedenza, è per rintracciare un raro fiore che cresce nei campi; un fiore rosso, sfuggevole, soprannominato “uccellino di bosco”, denominato da Linneo rubra e che penso di aver identificato nella Cephalanthera rubra, detta anche elleborina rossa, famiglia delle Orchidacee. L’attribuzione è più incerta rispetto alle specie vegetali descritte in precedenza ma le caratteristiche della pianta sembrano coincidere con quanto descritto dall’autore; essa, infatti è una specie rara, che cresce isolata nel folto dei boschi e possiede due specie affini dal colore più pallido, la Cephalanthera damasonium e la Cephalanthera longifolia. Tuttavia, benché l’attribuzione sia dubbia, il dettaglio simbolico più importante risieda nel colore rosso dei petali. L’elleborina rossa è una pianta sfuggevole, oggi protetta, di cui è vietata la raccolta data la rarità, di cui non si trovano informazioni in campo mitologico e officinale. Dovremo dunque basarci esclusivamente sul simbolismo introdotto da Jünger all’interno del testo e al simbolismo delle orchidee.

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Come tutte le orchidee, la rubra rimanda alla sfera sessuale; la forma del fiore ricorda una vulva e anche al muso di una serpe. Per questo le orchidee venivano utilizzate, nell’antichità, come amuleti contro l’impotenza e per le fascinazioni d’amore [27]. Nel caso specifico della rubra, sono due i dettagli fondamentali descritti da Jünger: il colore rosso e il luogo in cui essa, per due volte, viene rinvenuta dai protagonisti. Essa si trova al di là del confine dei tre pioppi ma, ancora più importante, la sua scoperta pone i protagonisti per la prima volta di fronte all’orrore della capanna del macellaio, fungendo prima da presagio funesto e, più avanti nella narrazione, da compimento di tale presagio. Il protagonista, infatti, vi si ritroverà di fronte nuovamente durante la battaglia finale contro il popolo del Forestaro, laddove il rosso della rubra è intrinsecamente legato all’orrore; l’orrore delle rosse fiamme del fuoco, del manto rosso del mastino, del rosso sangue che scorre dai corpi impalati, smembrati e scorticati; ed è perfino di “rossa luce” che si illumina uno dei teschi inchiodati a una architrave della capanna

A fare da contraltare al simbolismo funesto della rubra vi è il secondo fiore che, al contrario della rubra, è estremamente comune: la piantaggine, Plantago major, famiglia delle Plantaginaceae. Anche la piantaggine possiede un duplice ruolo simbolico all’interno della narrazione, sia di presagio sia di compimento del fato. I protagonisti si imbattono in essa in un luogo che fa da contraltare alla capanna infernale del macellaio: il convento di Maria Lunare, venerata dal popolo come la falcifera, la portatrice della falce, vegliato da padre Lampro. Padre Lampro è, nel romanzo, un monaco cristiano che, come i protagonisti, ha intrapreso il percorso mistico della botanica, a tal punto da cambiarsi il nome in Fillobio: colui che vive nelle foglie, immagine che ricorda da vicino l’iconografia del Green Man.

Simbolo del convento è Maria che reca sotto al piede la falce lunare, venerata come dominatrice di quanto è mutevole e come colei che dona e dispone. Anche in questa immagine si nasconde un legame intrinseco come il mondo vegetale. Il simbolismo della Maria falcifera è collegato alla Luna che, nella visione astrologica antica, sia greco-romana sia medievale, aveva un ruolo fondamentale nell’influenzare i processi biologici degli esseri viventi che si trovavano sotto al suo cielo, il cosiddetto cielo sublunare. Da qui la grande importanza, nel mondo magico e contadino, di svolgere certi lavori agricoli, raccolti, preparazioni ecc. seguendo meticolosamente il percorso della Luna nel cielo. Mentre la rubra pone di fronte i protagonisti al mistero tremendo dell’orrore, Fillobio, mostrandogli la piantaggine, li pone dinnanzi al mistero dell’iniziazione. Narra Jünger:

Come la rubra, la piantaggine non ha alle spalle grandi miti e leggende; era una pianta povera, ma proprio per questo estremamente utilizzata nella medicina popolare che vedeva in essa una panacea per tutti i mali. Era usata infatti come cicatrizzante, contro la gotta, per lenire i mali legati alla deambulazione, le piaghe, l’affaticamento. Essa era infatti una pianta perennemente calpestata da tutti coloro che si mettevano in cammino – e, per la teoria delle segnature, era dunque considerata la pianta in grado di lenire le sofferenze di pellegrini e viaggiatori sul sentiero della vita [29]. I suoi fiori, inoltre, cadendo durante il ciclo vitale creano una aureola in cui veniva intravisto un segno divino, una santità, nascosta perfino nella semplicità di una pianta infestante. 

Come la rubra, anche la piantaggine riappare sul finire del romanzo, nel momento di apoteosi di sangue e violenza del conflitto finale. I due protagonisti, consapevoli di aver perso la battaglia contro il Forestaro, cercano ultimo rifugio spirituale presso il convento di Maria Falcifera, per far benedire da padre Lampro la testa mozzata del nobile condottiero che aveva tentato l’ultima resistenza contro il popolo della foresta. Qui trovano, tuttavia, la chiesa già in fiamme; il rosso della rubra è già avanzato, sconfinando al di là dei tre pioppi e distruggendo l’intero mondo. Tuttavia, è in questo contesto che si compie il secondo presagio, quello della piantaggine, che al rosso della distruzione oppone il verde della ricrescita:

Questo episodio del romanzo, estremamente misterioso ma sicuramente emblematico, rappresenta il vertice della teofania vegetale. I protagonisti rivedono nel rosone della chiesa distrutta la ratio ordinatrice simbolica che si nasconde dietro il velo delle cose. Il rosone non è altro che lo schema geometrico che si nasconde non solo dietro ogni piantaggine, ma dietro a ogni pianta, testimonianza di un verbo ordinatore divino che, per un momento, persiste anche nelle fiamme – salvo poi andare distrutto. È la perenne lotta tra la natura ordinatrice e la natura distruttrice, tra il popolo della città e il popolo del bosco. Il popolo bosco avanza, distrugge, le piante civilizzate lasciano spazio alle piante colonizzatrici in seguito alla distruzione; eppure vi sono dei semi, esuli, che si salvano e travalicano i confini, come i due protagonisti che, dopo l’infuriare della battaglia, riescono a mettersi in salvo e riapprodare in un nuovo paese dove li attende una fattoria, cinta da un antico bosco di querce, dove in granai, stalle e abitazioni riecheggia l’ordine andato prima perduto, e poi ritrovato. E in tutto questo alternarsi di vita e distruzione, sono proprio le piante a trascendere i secoli, a vegliare l’uomo al di là del muro del tempo. Poiché, come scrive lo stesso Jünger:


[1]  E. Jünger, A. Hofmann, LSD. Carteggio 1947-1997, Giometti & Antonello, Macerata 2017. 

[2] E. Jünger, La battaglia come esperienza interiore, Piano B, Prato 2014, p. 140.

[3] F. T. Marinetti. L’Alcova d’acciaio, Start Press Milano 2019, pp. 32-33. 

[4] E. Jünger, Avvicinamenti, Guanda, Parma 2006, pp. 111-112. 

[5] E. Jünger, L’Albero, in La Grande Madre. Meditazioni mediterranee, a cura di Mario Bosincu, Le lettere, Firenze 2021, pp. 127-128.

[6] Si prenda, a esempio, il testo Cacce sottili, Guanda, in cui ripercorre la sua passione per l’entomologia. 

[7] E. Jünger, La grande madre. Meditazioni mediterranee, a cura di Mario Bosincu, Le lettere, Firenze 2021.

[8] E. Jünger, Avvicinamenti, Guanda, pp. 38-39.

[9] RigenerAzione Evola / Evola recensisce “Sulle scogliere di marmo” di Jünger – RigenerAzione Evola (rigenerazionevola.it)

[10] E. Jünger, Sulle scogliere di marmo, Guanda, Milano 2023, p. 10. 

[11] Ibidem.

[12] Apicio, De re coquinaria

[13] E. Campanini, Piane medicinali in Sardegna, Ilisso, Nuoro 2009, p. 506.

[14] E. Jünger, Sulle scogliere di marmo, Guanda, Milano 2023, p. 19. 

[15] Ibidem. 

[16] G. Camilla, Le droghe nel mondo greco e romano, in Allucinogeni sacri nel mondo antico, Nautilus Edizioni, Torino 2017, p. 37. 

[17] E. Jünger, Avvicinamenti, Guanda, Parma 2006, pp. 88-89.

[18] E. Jünger. Sulle scogliere di marmo, Guanda, Milano 2023, p. 44.

[19] C. Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Adelphi, Milano 2017.

[20] Si veda G. Toro, L’ombra mortale della notte, Yume, Torino 2017. 

[21] E. Jünger, Sulle scogliere di marmo, Guanda, Milano 2023.

[22] G. Samorini, G. Camilla, Rappresentazioni fungine nell’arte, Annali del Museo Civico di Rovereto, vol. 10, pp. 307-326, 1995.

[23] E. Jünger, Sulle scogliere di marmo, Guanda, Milano 2023, p. 65.

[24] C. Lapucci, A. M. Antoni, La simbologia delle piante, Sarnus, Firenze 2022, p. 314. 

[25] F. Piterà, Compendio di Gemmoterapia Clinica, De Ferrari Editore, Genova 1996.

[26] E. Jünger. Sulle scogliere di marmo, Guanda, Milano 2023.

[27] C. Lapucci, A. M. Antoni, La simbologia delle piante, Sarnus, Firenze 2022, p. 294.

[28] E. Jünger. Sulle scogliere di marmo, Guanda, Milano 2023, pp. 51-52.

[29] E. Campanini, Piane medicinali in Sardegna, Ilisso, Nuoro 2009, p. 424.

[30] E. Jünger. Sulle scogliere di marmo, Guanda, Milano 2023, pp. 105-106.

[31] E. Jünger, La grande madre. Meditazioni mediterranee, a cura di Mario Bosincu, Le lettere, Firenze 2021, p. 139

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