Blackwood: il «Panico della Natura Selvaggia» e dell’infinita distanza

Oggi, 150 anni fa, nasceva Algernon Blackwood, iniziatore del genere narrativo dei “detective dell’occulto” ma soprattutto cantore insuperato della poetica psicogeografica dell’alterità.


di Marco Maculotti

« […] la “tristezza” che noi attribuiamo ad un particolare paesaggio è realmente e oggettivamente nel paesaggio e non solo in noi stessi; di conseguenza, il paesaggio può influenzarci e plagiarci, esattamente nella stessa maniera in cui le droghe, la carne e l’alcool producono in noi i loro diversi effetti. Poe, che conosceva molti segreti, sapeva anche questo, e ci ha insegnato che lo studio della disposizione dei giardini è realmente un’arte altrettanto nobile della poesia e della pittura, poiché contribuisce ad esprimere i misteri dello spirito umano. »

— Arthur Machen, The Children of the Pool (1936)

Già H.P. Lovecraft rese plauso, nel suo Supernatural Horror in Literature (1927), alla pervasiva percezione, emergente dai racconti di Algernon Blackwood (1869 – 1951), di «un mondo irreale che incombe continuamente sul nostro» [Teoria dell’orrore, Bietti, Milano 2012, pp. 414-415]:

« Nessun altro si è neanche lontanamente avvicinato alla maestria, alla serietà, e alla realistica e minuta fedeltà con cui egli annota gli aspetti più misteriosi di cose ed esperienze quotidiane, o l’intuito quasi sovrumano con cui accumula, particolare su particolare, le complesse sensazioni e percezioni che dalla realtà sfociano in vite o visioni sovrannaturali […]. Meglio di tutti gli altri egli capisce quanto certe menti sensibili indugino per sempre ai confini del sogno, e quanto sia relativamente tenue la distinzione fra le immagini prodotte da oggetti reali e quelle frutto del giuoco dell’immaginazione» .

Ci troviamo dunque, con l’opera blackwoodiana, nel campo della cosiddetta «psicogeografia», epperò di stampo ben diversa da quella, per esempio, di un Arthur Machen. Se nei racconti perturbanti del gallese, infatti, l’elemento psicogeografico dell’ambiente appare indissolubilmente connesso agli aspetti mitico-cultuali e folklorico-culturali delle popolazioni che vi sono state insidiate per millenni (segnatamente in Machen le popolazioni di ceppo gaelico pre-celtico e pre-romano, connesse al «Piccolo Popolo»), in Blackwood la situazione si presenta diversamente: nei suoi racconti del terrore l’ambito geografico assurge a portale di forze altre e minacciose completamente avulse al mondo dell’umanità, le quali prediligono certi luoghi come proprio spazio di manifestazione proprio in virtù della loro desolazione e del loro aspetto selvaggio, proprio perché — in altre parole — non sono ancora stati calpestati dall’impronta «civilizzatrice» ed «ordinatrice» dell’ecumene umano.

Centrale nell’opera di Blackwood è, quindi, l’atmosfera: un’atmosfera sospesa, nella quale l’«uomo moderno» sembra ritornare idealmente e traumaticamente, anche per una notte soltanto, all’alba dei tempi. Trovatosi improvvisamente circondato dalla natura vergine, potremmo dire pre-umana, solo allora il protagonista blackwoodiano avverte l’instabilità e la fragilità della posizione che l’essere umano «civilizzato» ricopre all’interno di un cosmo che, in ultima analisi, appare come il palcoscenico su cui si manifestano potenze ataviche ben più antiche dell’umanità e non concepibili secondo i valori sociali e morali ad essa proprî; potenze che, pur manifestandosi talvolta per mezzo degli elementi naturali a noi noti, nondimeno differiscono ontologicamente dagli stessi, utilizzandoli piuttosto come portali per manifestarsi nella nostra realtà, a cui accedono infiltrandosi attraverso il labile velo che la separa dall’«altro mondo».

Sono soprattutto due i racconti, all’interno della produzione letteraria dell’Autore, che noi portiamo a titolo di esempio di questa sua particolare poetica psicogeografica dell’alteralità (“Il Wendigo” e “I salici”) con l’aggiunta di un terzo (“Lupo-che-corre”) che, pur presentando delle differenze tematiche, per altri versi aggiunge interessanti sfumature all’argomento trattato in questa sede.

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“THE WENDIGO”

“Il Wendigo” (1910), ispirato a una tradizione folklorica algonchina (gruppo etnico che comprende Cree, Ojibwa, Abenaki, Blackfoot, Mik’maq e tanti altri gruppi minori) con cui i coloni europei entrarono in contatto fin dall’epoca settecentesca dei trapper e dei logger, è probabilmente il racconto più noto di Blackwood; accessibile ai lettori italiani grazie al suo inserimento, da parte di Gianni Pilo, nell’albo Fanucci del ciclo “I miti di Cthulhu” intitolato La saga di Cthulhu (Roma 1986). Il personaggio mitico del Wendigo verrà in seguito inserito, a partire da August Darleth, in alcuni racconti facenti parte del «ciclo dei Grandi Antichi» con la denominazione di Ithaqua, demone dei venti settentrionali. [Abbiamo già avuto occasione, sulle nostre pagine, di parlare del corpus leggendario-folklorico riguardante il Wendigo: a tal proposito rimandiamo i Lettori al precedente articolo a cura dello scrivente ed a quello del Mollar, nonché al saggio di Emanuela Monaco Manitu e Windigo: visione e antropofagia tra gli algonchini (Bulzoni, 1990)].

Nel racconto di Blackwood ispirato a questa leggenda nativa una spedizione di caccia nelle foreste della taiga canadese, nella regione dell’Ontario, si tramuta in un vero e proprio incubo: subito gli spazi appaiono ai protagonisti immensi («Non hanno fine, no, non hanno fine… Questo l’hanno scoperto in molti, e sono finiti male!»), e sembra loro che «un’altra vita» pulsi minacciosamente intorno ad essi, nell’atmosfera. Fin dal principio Défago, la guida franco-canadese ferrata in materia di leggende autoctone, cerca inconsciamente di far presagire allo sventurato protagonista Simpson, un giovane teologo, ciò che li attende in quelle desolate lande senza fine, accennandogli di «uomini colpiti da una misteriosa passione per la natura selvaggia, una vera e propria febbre che il fascino delle lande deserte accendeva in loro e che, ammaliandoli, li conduceva alla morte».

È durante la prima notte trascorsa in tenda nel territorio che il mito narra essere l’ambito geografico di manifestazione del Wendigo che Défago mostra i primi preoccupanti segni di cedimento: improvvisamente, nel bel mezzo di un sogno agitato, egli si lascia andare in modo incontrollato a singhiozzi e vagiti a dir poco impressionanti, che terrorizzano letteralmente Simpson, suo compagno di tenda:

« Ed il suo immediato impulso, prima che potesse pensare o riflettere, fu un moto di intensa tenerezza. Questo suono intimo, umano, udito nella desolazione da cui erano circondati, suscitava la commozione. Era così assurdo, così pietosamente assurdo… e così vano! Lacrime… in quei luoghi selvaggi e crudeli: a che servivano? »

Fin da questo momento, il «Totalmente Altro», epifania del mysterium tremendum che si cela dietro le pieghe del reale, si insinua nella mente razionale di Simpson. L’orrore prosegue quando quest’ultimo si accorge che il corpo del suo compagno di tenda è stato progressivamente trascinato al di fuori di essa, di modo che i piedi finiscono per fuoriuscirne, esposti ai venti gelidi della notte subartica.

Poi, ecco che «il profondo silenzio dell’alba fu rotto da un suono stranissimo», che «giunse all’improvviso, senza avvertimenti; ed era indicibilmente spaventoso»: si trattava di una voce «forse umana», «rauca e tuttavia flebile», che veniva «dall’esterno della tenda, ma da vicino; e piuttosto dall’alto che non dal terreno»; «una specie di voce ventosa, piangente, come qualcosa di solitario e selvaggio, orribilmente possente», che chiama per nome la sventurata guida: «Dé-fa-go!». Su tutta la scena, inoltre, si diffonde un odore mai avvertito prima, a dir poco pungente e nauseante, che inebria Simpson come un incantesimo malevolo.

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Il terrore provato da quest’ultimo durante la sinistra nottata culmina all’alba, con l’improvviso abbandono della tenda da parte di Défago, come richiamato da una potenza insormontabile:

« E, andandosene — con tale sorprendente rapidità che in un attimo si poté udire la sua voce morire in lontananza — urlava in un tono di folle angoscia, che aveva allo stesso tempo una strana nota di esultanza frenetica: “Oh! Oh! I miei piedi infuocati! I miei piedi che ardono infuocati! Oh! Oh! Che impeto, che velocità!” »

Simpson non può far altro, per il momento, che avvertire nell’intera faccenda «il tocco di un grande Orrore Esterno», indecifrabile secondo i paradigmi interpretativi dell’uomo civilizzato, al cui universo mentale egli è sempre appartenuto, pur trovandosi ora, solo e indifeso, nelle solitarie e selvagge lande subartiche di fronte al Grande Ignoto. Abbandonato a se stesso, non gli rimane altro da fare che tentare di ritrovare il suo compagno di avventura, seguendone le tracce lasciate sulla neve.

E qui all’orrore precedente si aggiungono indizi ancora più perturbanti: le orme di Défago sono accompagnate da quelle di un grosso animale misterioso, «segni sinistri […] lasciati nella neve dalla creatura sconosciuta che aveva adescato un essere umano per portarlo alla rovina». Proseguendo la ‘pista’, le impronte scheletriche lasciate dall’inconcepibile entità non cessano di sconvolgere la psiche dell’inseguitore: egli si accorge del fatto che, man mano che le orme si allontanano, la distanza intercorrente fra di esse aumenta sensibilmente, quasi che la creatura avesse smesso di correre per saltare con balzi prodigiosi di molti metri. Ma — fatto ancora più assurdo — lo stesso sembra essersi verificato anche per quanto concerne le impronte del suo amico Défago, allontanatosi all’alba dalla tenda come richiamato da un istinto atavico e ingovernabile!

« E la vista di queste stranissime tracce che correvano fianco a fianco, silenziosa prova di un viaggio in cui il terrore o la pazzia avevano portato a risultati impossibili, era profondamente sconvolgente. Ne era turbato fin nei segreti abissi dell’anima. »

Non è finita qui: a un certo punto — si accorge Simpson — le impronte sia della misteriosa creatura che della guida franco-canadese si arrestano improvvisamente, come se i due avessero letteralmente lasciato il terreno:

« In quel momento gli sembrò di provare l’esperienza più distruttiva della sua vita; il suo cuore si svuotò di qualunque sensazione, come se si fosse improvvisamente prosciugato. “Oh! Questa terribile altezza! Oh, i miei piedi infuocati! I miei piedi che ardono infuocati!“. Questo richiamo angoscioso corse dal cielo con accenni vaghi e supplichevoli. »

Udito per la seconda volta il richiamo di colui che era stato posseduto dal Wendigo, al culmine del terrore, Simpson prende a correre freneticamente verso la tenda,

« Perché in quella voce lontana, a chiamarlo era stato il Panico della Natura Selvaggia — il Potere dell’Immensa Distanza — il Fascino della Desolazione che porta alla morte. In quel momento conobbe tutte le sofferenze di chi si è irrimediabilmente perduto, senza speranze di ritrovare la via del ritorno; le pene dell’anima che vive il piacere e il dolore dell’Infinita Solitudine. La visione di Défago, eternamente inseguito, cacciato, sospinto attraverso le altissime vastità di quelle antiche foreste, brillò come una fiammata tra le oscure rovine dei suoi pensieri. »

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Una illustrazione tratta dalla prima edizione del racconto, uscita nel 1910.

Solo quando riesce a riunirsi agli altri membri della spedizione, Simpson comincia a valutare gli inspiegabili fatti a cui ha assistito secondo le tradizioni dei nativi del luogo. Parlando con il dottor Cathcart e con Hank, egli apprende che Défago non voleva andare a caccia in quella regione a causa delle dicerie di molti indiani che colà avevano «visto il Wendigo» («Quando un indiano impazzisce tirano sempre fuori che ha “visto il Wendigo”»), «la personificazione della Voce del Vento, di cui alcune nature sentono il richiamo fino a esserne condotte alla morte»:

« La Voce, dicono, somiglia a tutti i suoni del bosco: al vento, all’acqua che scorre, alle grida degli animali, e così via. E quando la vittima la sente, è già perduta, ovvio! »

L’esperienza tremenda del Wendigo si presenta dunque, nella tradizione algonchina come nel racconto in analisi in questa sede, come una vera e propria catarsi panica, caratteristica di quelle popolazioni eschimo-amerindie dell’estremo settentrione che, trascorrendo i lunghissimi inverni nelle desolate vastità della taiga, sono particolarmente soggetti a quella che la psicanalisi dl Novecento denominò isteria artica. Nondimeno, i particolari più agghiaccianti delle credenze folkloriche native sul Wendigo devono essere ancora rivelate dai due interlocutori ad un Simpson sempre più terrorizzato:

« Si dice che i suoi punti più vulnerabili siano i piedi e gli occhi; i piedi, capisci, per la smania di andare, e gli occhi per la smania di bellezza. Il poveraccio [“rapito” dal Wendigo, ndr] va ad una velocità così terribile che gli occhi sanguinano, ed i piedi bruciano. […] Si dice che il Wendigo si bruci i piedi — evidentemente per l’attrito prodotto dalla sua tremenda velocità, finché non cadono. E allora si riformano dei piedi nuovi esattamente uguali ai precedenti. […] E non si mantiene sempre sul terreno, ma a volte arriva così in alto da pensare che le stelle gli abbiano dato fuoco. E fa dei grandi balzi, e corre lungo la cima degli alberi, trascinando con sé il suo compagno, per poi lasciarlo cadere come l’aquila marina lascia cadere un piccolo luccio per ucciderlo prima di mangiarlo. Ed il suo cibo, di tutta l’immondizia della foresta è… il muschio! »

Ed è a questo punto, al culmine della tensione nervosa, che finalmente anche i due interlocutori di Simpson odono per la prima volta il richiamo del Wendigo, che il loro compagno di avventura aveva già avuto l’occasione di udire ben due volte: le parole sono esattamente le stesse, e richiamano orribilmente tutti gli sconcertanti topoi delle leggende native sulla malevola entità della taiga invernale: l’altezza spaventosa, la velocità folle e i piedi che ardono infuocatiEd ecco che, non appena udito questo raccapricciante richiamo proveniente dall’alto, i tre amici sentono piombare giù dal cielo, con un tonfo spaventoso sul terreno ghiacciato, quello che sembra essere il corpo del redivivo Défago, il quale li apostrofa con una voce flebile e roca, ansimante e affannosa: «Sto facendo un bel giro all’inferno…».

L’aspetto repellente di Défago, del tutto simile ad una parodia o «caricatura spettrale» di ciò che era stato un tempo, sconcerta profondamente i suoi tre compagni di spedizione; ma l’orrore supremo giunge quando, spostatosi in modo tale da esporre le gambe alla luce del focolare, essi notano per la prima volta i suoi piedi mostruosi, bruciati dalla folle corsa nelle vastità del cielo settentrionale. È l’ultima, orrenda, epifania: poi “Défago” — o quel che è diventato — ritorna con una rapidità stupefacente alle sue spaventose altezze, a percorrere le immensità cosmiche in compagnia del demone che lo possiede.

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Più tardi, ritornando al campo base, i tre amici ritrovano il vero Défago: questa volta è davvero lui, e non vi è più traccia di possessione demoniaca. Eppure egli si presenta adesso con un’espressione ebete, come se fosse stato del tutto svuotato di ogni personalità umana, simile un fantoccio ormai privo di ogni volontà e spirito vitale, una sorta di vegetale che riesce a mangiare unicamente muschio e che non sa fare altro che lamentarsi dei suoi piedi dolenti. Le note di Simpson concludono in maniera esemplare la perturbante vicenda, splendidamente narrata da Blackwood:

« Era sua opinione che lì, nel cuore della natura selvaggia, essi fossero stati testimoni di qualcosa di crudelmente primitivo. Qualcosa che era sopravvissuto, chissà come, all’avanzare dell’umanità, ed ora aveva fatto la sua terribile apparizione, rivelando l’esistenza di una dimensione di vita primordiale e mostruosa. Simpson considerò quell’esperienza come uno sguardo sulle età preistoriche, quando il cuore dell’uomo era ancora oppresso da superstizioni immani e selvagge; quando le forze della natura erano ancora intatte, e non ancora sconfitti i Poteri che devono aver dominato l’universo primitivo. Ancora oggi ripensa a quelle che, anni dopo, definì in un sermone “Potenze formidabili e selvagge che si annidano nelle anime degli uomini, non malvagie in se stesse, ma fondamentalmente ostili all’umanità per come essa è”. »

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Illustrazione per “The Willows”.

“THE WILLOWS”

Le stesse tematiche che emergono dalla lettura de “Il Wendigo” erano state trattate da Blackwood in un racconto scritto nel 1907, The Willows (“I salici”), profondamente influenzato dai viaggi compiuti dall’Autore sul Danubio e considerato da Lovecraft il suo picco creativo nonché il migliore racconto britannico in assoluto ascrivibile al filone dell’Orrore Sovrannaturale [il racconto è consultabile dai Lettori italiani nell’antologia H.P. Lovecraft — I miei orrori preferiti, a cura di Gianni Pilo e Sebastiano Fusco, Newton Compton, Roma 1994)].

Rispetto a “Il Wendigo” ci troviamo nelle lande dell’Europa orientale anziché in quelle dell’America settentrionale, ma la sostanza non cambia. La narrazione si incentra sulla spedizione di due amici in una vasta area acquitrinosa, che i locali ungheresi evitano superstiziosamente, in quanto ritengono appartenere «ad esseri estranei al mondo degli uomini»:

« Il lugubre fascino di quell’isola solitaria che emergeva tra milioni di salici, spazzata da un uragano e circondata da profonde acque mulinanti […]. Mai calpestata da piede umano, e quasi sconosciuta, giaceva lì, sotto la luna, lontano da influenze umane, sulla frontiera di un altro mondo: un mondo alieno, abitato solo dai salici e dalle anime dei salici. »

Pur manifestandosi ai sensi dei protagonisti mediante la fisicità dei salici, più si prosegue nella lettura e più diventa chiaro che le entità malevole che li insidiano si limitano ad utilizzare queste piante come «maschere» per accedere al nostro mondo: «Sono i salici, naturalmente. I salici mascherano “gli altri”, ma gli altri ci stanno cercando qui intorno».

Va subito notato come anche qui, in modo eguale rispetto al racconto precedentemente analizzato, Blackwood mette in scena la sensazione di totale alterità che possiede l’uomo «civilizzato» non appena, allontanandosi dalla propria safe-zone urbana, si immerge fatalmente nella Natura primordiale, dove ancora sopravvivono le «Potenze formidabili e selvagge» che, penetrando minacciosamente nell’animo umano, non possono che condurre alla morte o alla pazzia.

Così, sin dalla prima notte passata nelle vastità dell’«isola aliena», i salici sembrano posseduti da una volontà sinistra e sovrannaturale, i cespugli sembrano spostarsi, una remota vibrazione simile al suono di un gong sembra diffondersi in tutta l’area, provenendo ora dall’alto, ora dal basso, e addirittura da dentro gli stessi protagonisti («nella maniera in cui si dice debba giungere un suono dalla Quarta Dimensione»).

« È il suono del loro mondo, l’eco del loro regno. Il diaframma, qui, è talmente sottile che in qualche maniera c’è un passaggio tra le due regioni, e il suono può filtrare. Ma, se ascolti attentamente, troverai che non è tanto sopra quanto intorno a noi. È nei salici. Sono i salici stessi che lo riecheggiano, perché qui i salici sono divenuti simboli delle forze che ci sono nemiche. »

Anche in questo racconto le potenze sovrannaturali, ostili all’uomo, non appaiono malvagie in sé, quanto piuttosto totalmente estranee, altre rispetto alla moralità tipica dell’essere umano: si tratta di forze caotiche, ontologicamente in contrasto dicotomico con l’intelletto ascrivibile al Logos «ordinatore» che governa la razionalità umana. «Ci sono delle cose intorno a noi — esclama uno dei due avventurieri — che mirano al disordine, alla disintegrazione, alla distruzione… la nostra distruzione».

Nelle tenebre notturne, avvolti dai fasci sonori vibrazionali che sembrano tentare di localizzarli e sempre più pervasi da oscuri presagi, i due sperimentano un «oscuro senso ancestrale di terrore, più profondamente inquietante di qualunque altra cosa» essi avessero mai vissuto o sognato». La maestria di Blackwood, forse in The Willows ancora più che in Wendigo, sta proprio nel riuscire a calare il Lettore in un’atmosfera a tal punto pregna di terrore atavico evitando di definire in termini effettivi in cosa esso si esplichi concretamente.

Infatti, pur incentrando la narrazione sulla sinistra sensazione, avvertita dai due protagonisti, di trovarsi in «un luogo occupato da abitanti di uno spazio diverso, una specie di avamposto dal quale riuscivano a spiare la Terra, rimanendo invisibili, un punto in cui il velo che ci divideva era diventato più sottile», Blackwood non definisce esplicitamente chi cosa siano questi abitanti di uno spazio diverso: uno dei due narratori li considera «una personificazione degli elementi perturbanti», mentre l’altro ha l’impressione di aver profanato un santuario antico, «un luogo in cui le divinità ancestrali avevano ancora il loro dominio, dove le forze emotive degli antichi adoratori aleggiavano ancora».

È a questo punto della narrazione che la realtà appare completamente trasfigurata agli occhi della voce narrante, ed ecco l’«altro mondo» erompere in tutta la sua fulgida, terrificante alterità, nello straordinario orrore psicogeografico di stampo blackwoodiano, il cui genio immaginifico in certi passi sembra persino anticipare l’«ipotesi patafisica» di Keel e Vallée, di molti decenni successiva:

« Mai, prima o dopo di allora, sono stato assalito con tanta forza da indescrivibili suggestioni di una “regione ulteriore”, di un altro schema di vita, un’altra evoluzione non parallela a quella umana. E, alla fine, le nostre menti avrebbero dovuto soccombere sotto il peso di quell’incantesimo spaventoso, e saremmo stati trascinati al di là della frontiera, nel loro mondo. […] tutti questi elementi, erano stati derubati dai loro caratteri naturali, e avevano rivelato qualcosa di un altro loro aspetto: quello che vigeva oltre il confine, nell’altra regione. E questo aspetto stravolto, lo sentivo, era estraneo non solo a me, ma all’intera razza umana. L’intera esperienza i cui limiti stavamo sfiorando era del tutto ignota all’umanità. Era un’altra sfera di esperienza, “non terrena” nel senso più vero della parola. »

Più avanti, uno dei due protagonisti descrive la natura di queste entità misteriose in toni che, oltre ad anticipare di vent’anni le suggestioni cosmiche lovecraftiane, potrebbero elevare Blackwood a precursore involontario di un vasto filone di ricerca e letteratura fortiana, dalle teorie di Salvador Freixedo alle riletture più o meno New Age del mito teosofico del «Re del Mondo» di ossendowskiana e guénoniana memoria:

« Ci è accaduto di accamparci in un punto dove la loro regione tocca la nostra, dove il velo tra le due è divenuto più sottile. […] Per tutta la vita sono stato stranamente, vivamente consapevole dell’esistenza di un altro regno, non molto distante dal nostro mondo, in un certo senso, ma di natura del tutto diversa, dove accadono continuamente grandi cose, dove immense e terribili personalità si affannano, occupate in immani imprese, al cui confronto gli affari terreni, il sorgere e il cadere delle nazioni, i destini degli imperi, il fato di eserciti e di continenti, sono come polvere […]. Tu pensi che siano gli spiriti degli elementi, e io ho pensato che forse erano gli antichi Dèi. Ma ora ti dico che non si tratta né degli uni né degli altri. Queste sarebbero entità comprensibili, perché hanno relazioni con gli uomini, dipendono da loro per il culto e i sacrifici: mentre questi esseri che sono ora intorno a noi non hanno assolutamente nulla a che fare con l’umanità, ed è una semplice combinazione che il loro spazio tocchi il nostro, proprio in questo punto. »

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Horace Vernet, “Hunting In The Pontine Marshes”, 1833.

“RUNNING WOLF”

Parzialmente ascrivibile a questo filone blackwoodiano dell’«Orrore Panico della Natura Selvaggia» e dell’«Infinita Solitudine» è anche un terzo racconto, Running Wolf (“Lupo-che-corre”), pubblicato per la prima volta nel 1920 e disponibile nella traduzione italiana nella raccolta di racconti di autori vari Notti di luna piena, pubblicato da Fanucci (Roma 1987) all’interno della collana “I miti di Cthulhu”, a cura di Domenico Cammarota.

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Qui, il protagonista è Malcolm Hyde, un pescatore che, nonostante i consigli dei locali, si arrischia ad accamparsi sulla sponda «vietata» del Medicine Lake, dove un tempo i nativi erano soliti compiere i propri rituali sciamanici. In questo racconto si trova una sorta di spiegazione psicologica per questa sensazione perturbante e panica, già incontrata nei due racconti sopra analizzati, sensazione che emerge dal ritrovarsi improvvisamente nella più assoluta solitudine, in mezzo alla Wilderness sconfinata:

« Un uomo che si trovi in condizioni simili ed in un posto simile, non avverte il disagio finché il senso di solitudine non lo colpisce come qualcosa di troppo reale e vivido. La solitudine apporta fascino, piacere, e una bella sensazione di calma fino a che, o a meno che, non arrivi troppo vicina. Dovrebbe restare solo un ingrediente tra gli altri; non dovrebbe essere notato troppo direttamente, con troppa concretezza. Una volta che si sia avvicinata troppo, però, può facilmente attraversare lo stretto confine tra benessere e malessere, e il buio è il momento peggiore per questa transizione. »

Per Malcolm Hyde questa transizione avviene quando, non appena calate le tenebre, si accorge con terrore di essere osservato da qualcuno o da qualcosa che, sebbene non riesca a vedere, sembra nascondersi all’interno — ancora una volta — di una schiera di folti salici.

Perché — ci si permetta un breve excursus –, fra tutte le piante, proprio i salici? Probabilmente Blackwood non era a digiuno di folklore britannico, dove questa pianta è strettamente connessa con le pratiche magiche e stregonesche. Per i Britanni, attesta Robert Graves, il salice è infatti tradizionalmente e ancor prima semanticamente legato alle streghe: i termini witch willow derivano dalla stessa radice, così come dalla medesima derivano anche wicked («malvagio») e wicker («vimini»), vale a dire appunto il ramo del Salix viminalis, utilizzata dai Celti per la realizzazione del fantoccio nella celeberrima pratica sacrificale del Wicker Man, già riportata da Giulio Cesare nel De Bello Gallico (si noti come in The Willows i due protagonisti avvertono in maniera nettissima di essere stati prescelti come vittime sacrificali dai “Salici”). Non solo: le streghe del North Berwick affermavano di volare ai Sabba su setacci per cereali intrecciati col salice; la celebre scopa delle streghe inglesi era legata col salice; secondo una credenza popolare con due rami di salice intrecciato a forma di croce si poteva predire la propria morte; e così via.

Inoltre, tradizione forse ancora più esplicativa in questa sede, nella mitologia greca il salice è l’albero posto alle porte degli Inferi, in quel territorio di transizione fra la terra e l’acqua, fra il «mondo di sopra» e il «mondo di sotto». Per questo era considerato dalle popolazioni mediterranee sacro ad Ecate, la dea selenica della notte, dei morti e della magia. Salici crescono nel boschetto infero di Persefone, ed Orfeo nel mito tenta di riportare Euridice nel mondo dei vivi tenendo in mano un ramo di salice.

Nondimeno — ritornando a Running Wolf e avviandoci alla conclusione — a differenza di Wendigo e Willowsqui la potenza sovrannaturale non è del tutto estranea al mondo degli uomini e alla sua moralità, anzi. Si rivela infatti essere l’anima disincarnata e penitente di un potente sciamano nativo, reo di aver commesso in vita una pecca rituale e per questo cacciato dalla propria tribù e lasciato morire senza sepoltura. Membro del clan del Lupo, egli aveva — imperdonabile sacrilegio — ucciso un esemplare dell’animale-totem del gruppo tribale e per questo, dopo il decesso fisico, egli seguitò a vagare sulla sponda «vietata» del Medicine Lake sotto le sembianze di un lupo, fino al momento in cui qualcuno non gli avrebbe dato una pia sepoltura. Hyde, guidato dall’animale, conduce le operazioni in modo esemplare, liberando così l’anima dannata dal suo errare che, se non lo avesse incontrato, sarebbe potuto essere stato eterno.

Algernon Blackwood
Algernon Blackwood (1869 – 1951)

Bibliografia:

  • BLACKWOOD, Algernon: Lupo-che-corre. Contenuto in Notti di Luna Piena. A cura di D. Cammarota, collana “I miti di Cthulhu”, Fanucci, Roma 1987
  • BLACKWOOD, Algernon: I salici. Contenuto in H.P. Lovecraft — I miei orrori preferiti. A cura di G. Pilo e S. Fusco, Newton Compton, Roma 1994
  • BLACKWOOD, Algernon: Il Wendigo. Contenuto in La saga di Cthulhu. A cura di G. Pilo, Fanucci, Roma 1986
  • GRAVES, Robert: La dea bianca. Adelphi, Milano
  • LOVECRAFT, Howard Phillips: Teoria dell’Orrore. Tutti gli scritti critici. A cura di G. De Turris, Bietti, Milano 2011
  • MACULOTTI, Marco: La psicosi nella visione sciamanica degli Algonchini: Il Windigo, su AXIS mundi
  • MOLLAR, Gian Mario: Jack Fiddler, l’ultimo cacciatore di Wendigo, su AXIS mundi
  • MOLLAR, Gian Mario: I misteri del Far West. Storie insolite, macabre e curiose dalla frontiera americana”. Il Punto d’Incontro, Vicenza 2019
  • MONACO, Emanuela: Manitu e Windigo. Visione e antropofagia tra gli algonchini. Bulzoni, Roma 1990

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