Arthur Machen e il fascino panico del perturbante

Il nuovo albo speciale di Zothique, rivista di letteratura fantastica e “weird” edita da Dagon Press, nelle sue oltre 230 pagine ci permette di ripercorrere la vita e l’opera di Arthur Machen, scrittore gallese che tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX ha saputo guardare oltre il “velo del reale” e rivelare l’essenza del “Grande Dio Pan“, imponendosi come uno dei più grandi autori della narrativa sovrannaturale della sua epoca.


di Lorenzo Pennacchi
copertina: Arthur Machen visto da Andrea Bonazzi

« L’uomo è creato mistero per misteri e visioni. »
— Arthur Machen

Il quarto numero di Zothique, rivista di letteratura fantastica & weird edita da Dagon Press, uscito a luglio, è interamente dedicato ad Arthur Machen, scrittore gallese che da più di un secolo ha rivelato l’essenza del grande dio Pan a migliaia di lettori. La copertina di Adriano Monti Buzzetti ci introduce immediatamente nel perturbante universo macheniano. Nel suo saggio del 1919, Das Unheimliche, Sigmund Freud prendendo spunto dalle intuizioni del collega Ernst Jentsch indagò la natura di questo strato della vita psichica:

« Non c’è dubbio che esso appartiene alla sfera dello spaventoso, di ciò che ingenera angoscia e orrore, ed è altrettanto certo che questo termine non viene sempre usato in senso nettamente definibile, tanto che quasi sempre coincide con ciò che è genericamente angoscioso. È lecito tuttavia aspettarsi che esista un nucleo particolare, che giustifichi l’impiego di una particolare terminologia concettuale. » [1]

Nondimeno, ben prima delle ricerche freudiane e oltre un decennio dopo, Machen scandagliò tale sentimento in lungo e in largo, conducendo il suo pubblico all’interno di quel nucleo che lo psicanalista austriaco aveva soltanto abbozzato. Il presente corposo volume, comme d’habitude curato con grande passione e professionalità da Pietro Guarriello, ricostruisce organicamente tale esperienza, attraverso numerosi contributi critici e cinque racconti (di cui quattro dello scrittore gallese) rimasti fino ad ora inediti in Italia.

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L’amplissimo saggio di Matteo Mancini (Arthur Machen. Oltre il Velo dell’Ignoto), in apertura dell’albo, offre un dettagliato ritratto di questo indomito ricercatore di verità nascoste, in cui vita e opera si relazionano tangibilmente:

« Era un personaggio che ripudiava il materialismo, completamente disinteressato ai soldi e alle cose materiali, sospettoso circa l’utilità del progresso scientifico, essendo ancorato a valori spirituali che lo portavano a regredire ai fasti di un antico passato, in un crocevia di culture tra paganesimo e cristianesimo, passando dalle tradizioni romaniche a quelle celtiche, per interessarsi più alle cose dell’altro mondo – quello a cui si riferiscono gli occultisti – che a quelle del mondo che scandisce i ritmi e determina le scelte di vita della maggior parte delle persone. » [2]

Arthur Llewelyn Jones nacque a Caerleon-on-Usk il 3 marzo del 1863, figlio del pastore anglicano John Edward Jones e della scozzese Janet Robina Machen, da cui prenderà il cognome d’arte. Nelle sue memorie rimarcò come la sua più grande fortuna sia stata quella di essere nato nel cuore del Gwent, in un vero e proprio caleidoscopio di leggende [3].

All’interno del suo mirabile studio inserito nella seconda parte dell’albo (pp. 181-222), Le fate, le streghe e la porta per l’Altro Mondo: rilievi folklorici ed etnografici sull’opera di Arthur MachenMarco Maculotti ricorda come già Jorge Luis Borges avesse rilevato la fiera identità celtica di Machen, attraverso cui «poté sentirsi oscuramente vittorioso e antico, radicato nella propria terra e alimentato da primitive scienze magiche» [4]. Caerleon, Isca Silurum per i romani, è anche identificata con Camelot, la fortezza di re Artù. Infine, è una delle terre maggiormente interessate dalla tradizione dei fairies, le enigmatiche creature che abitano il Regno segreto, pregevolmente tratteggiato dal presbiteriano scozzese Robert Kirk sul finire del Seicento (The Secret Commonwealth, scritto nel 1692 e pubblicato per la prima volta solo nel 1815).

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Arthur Machen nel 1905

Nell’opera macheniana, tuttavia, si assiste a più riprese ad un capovolgimento radicale della percezione post-shakespeariana di questi esseri, in quanto l’autore gallese, appassionato studioso di folklore celtico, recuperò la visione tradizionale e perturbante del cosiddetto “piccolo popolo“. Ne La storia del sigillo nero, il professor Gregg, alter ego dell’autore, sembra riferirsi direttamente a Kirk quando afferma: «Così come i nostri antenati avevano chiamato “fatati” o “buoni” gli esseri terribili perché li temevano, li avevano anche rivestiti di forme affascinanti, ben sapendo che la verità era assai diversa», giungendo alla conclusione per cui fate e diavoli sarebbero di un’unica razza e di un’unica origine [5].

Il giovane Arthur, di carattere schivo e poco socievole, trascorse la sua gioventù senza agi da solitario bohemien, immerso nei grandi classici, nei racconti di Edgar Allan Poe, nei volumi di alchimia, mitologia e storia, sviluppando uno stile di scrittura arcaico e fortemente anti-commerciale. Nel 1887 sposò Amelia Hogg, un’insegnante di musica ben inserita negli ambienti letterari. È in questi anni che, accanto all’attività di traduttore, iniziò a scrivere per vari giornali, conoscendo diversi personaggi importanti, come l’occultista Arthur Edward Waite e un Oscar Wilde all’apice del suo successo, che frequentò nell’estate del 1890. Solo pochi anni dopo, nel ’95, Wilde verrà incarcerato per omosessualità, scandalizzando la società inglese e impattando negativamente sugli autori intorno a lui [6].

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Ad ogni modo, Machen ci mise del suo. The Great God Pan, uscito prima a puntate sulla rivista Whirlwind nel 1890 e poi in forma definitiva nel ’94, venne recensito così dal Manchester Guardian: «Il più spregevole romanzo mai scritto in inglese. Lo è deliberatamente, di un’empietà acuminata. Potremmo dire di più, ma non vogliamo far pubblicità a questo libro maledetto» [7]. Sebbene giudizi simili arrivassero anche da altre testate [8], l’opera tracciò la via maestra di Machen e travalicò i confini nazionali, tanto che il poeta simbolista Paul Jean Toulet ne rimase estasiato. Come sottolinea Mancini:

« Per “Dio Pan” Machen non intende banalmente il Baphomet in carne e ossa […], bensì il mondo fantastico che si distende oltre la caducità del mondo di tutti i giorni. Pan è un qualcosa di immateriale, il principio e la fine di tutto. Assume un valore astratto, un po’ come se si volesse fargli simboleggiare la verità assoluta, ovvero il segreto dell’esistenza. » [9]

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Arnold Böcklin, “Pan in the Reeds”, 1857

Nella mitopoiesi macheniana, scrive Maculotti, «Pan assurge a simbolo del Caos primordiale e ad agente primario del processo di regressione al preformale, esperienza al tempo stesso estatica e terrifica» [10]. La regressione protoplasmatica, che denota una differente linea evolutiva (rilevata da Jacques Bergier, citato da Maculotti), è uno dei temi portanti del romanzo d’esordio e si ritrova a più riprese nell’opera del gallese. Un’altra tematica centrale, originaria della vicenda, è rappresentata dal mistero del mondo veramente reale, offuscato alla vista dei più. In uno dei passi più celebri dell’autore, il dottor Raymond rivela al suo assistente: 

« Ti dico che tutte queste cose non sono che sogni e ombre, le ombre che celano il mondo reale ai nostri occhi. C’è un mondo reale, ma si trova al di là di questo incanto e di questa allucinazione, oltre queste “scene di caccia su un arazzo, fantasie sfrenate”, al di là di esse come al di là di un velo. Non so dire se qualche essere umano abbia mai alzato quel velo. Ma so, Clarke, che stanotte tu e io lo vedremo sollevato davanti agli occhi di qualcun altro. Penserai che questa sia una bizzarra assurdità. Sarà anche bizzarra, ma è reale: gli antichi sapevano cosa significa sollevare il velo. Chiamavano ciò: “vedere il dio Pan”. » [11]

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Arnold Böcklin, “Pan Frightens a Shepherd”, 1860

La produzione letteraria continuò vivacemente con due tappe che, introducendo il “piccolo popolo” nella mitopoiesi macheniana, ebbero un ruolo estremamente significativo per la narrativa dell’autore gallese: The Three Impostors, una raccolta di racconti connessi l’uno all’altro, tra cui il già citato Novel of the Black Seal, pubblicata a puntate tra maggio e giugno del 1895, in cui la natura altra di questi esseri sinistri emerge chiaramente, attraverso una delle descrizioni più perturbanti in assoluto [12]. Ma quando le cose sembrano andare professionalmente per il verso giusto, nel ’99 ad Amelia viene diagnosticato un cancro al cervello e muore nel giro di pochi mesi:

« È il momento più buio del gallese. Barcolla sul filo della sanità mentale, alla stregua di un tronco trasportato dalle onde del mare. Quando l’irreparabile si consuma, cade in una profonda depressione che cerca di vincere in lunghe passeggiate, senza meta, per le vie di Londra. » [13]

In questo periodo, su pressante invito dell’amico Waite, diventò membro della Golden Dawn, ordine iniziatico a cui presero parte, tra gli altri, William Butler Yeats, Aleister Crowley e Algernon Blackwood. Quest’esperienza viene ripercorsa ampiamente in questo nuovo albo di Zothique, nei contributi di Giorgio Giorgi e Leigh Blackmore, che ne mettono in luce le differenti connotazioni. Certamente Machen era attratto dalla suddetta società segreta e dalla possibilità di trovare al suo interno delle risposte soddisfacenti ai misteri che lo appassionavano. Nel 1899 scrisse al già menzionato Toulet:

« Sono ormai convinto che non c’è niente di impossibile sulla Terra. Ho appena bisogno di aggiungere, suppongo, che nessuna delle esperienze che ho fatto ha rapporti con imposture quali lo spiritismo e la teosofia. Ma credo che noi viviamo un mondo di gran mistero, di cose insospettate e del tutto stupefacenti. » [14]

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Il Machen «mago barbuto» (Zothique, p. 133)

Ciò che nel Pan e negli altri lavori letterari di fine Ottocento era apparso inizialmente come un divertissement letterario, adesso sembra divenire senza ombra di dubbio una preoccupazione reale, tangibile, fondata su una concezione del mondo ben precisa e in forte polemica con lo scientismo che già allora la faceva da padrone. In altre parole, Machen entrò nella Golden Dawn per comprendere queste forze segrete e invisibili esistenti dietro il “velo del reale” e per cercare di dominarle. Tuttavia il tentativo si mostrò vano, sfociando nuovamente in una ricerca solipsista, incurante della gerarchia iniziatica e finalizzata a quello che Machen stesso ebbe modo di definire «il grande salto interiore». Come ricordò nel 1925:

« La società come società era una vera corbelleria, basata su inutili e sciocchi ‘Abracadabra’. Essa non era assolutamente a conoscenza di nulla, e nascondeva il fatto con rituali assurdi e una fraseologia altisonante. Non insegnava nessuna vera dottrina a coloro che vi venivano ammessi. » [15]

Nella Golden Dawn Machen venne iniziato col nome di Frater Avallaunius, un nome che riprese dal componimento The Garden of Avallaunius composto diversi anni prima e che poi troverà forma compiuta in prosa nel romanzo The Hill of Dreams, scritto nel 1897 e pubblicato solo nel 1907. Mancini considera questo testo una sorta di spartiacque nella produzione macheniana, l’inizio di una nuova fase in cui l’autore sperimentò come mai fatto in passato, e ciò nondimeno in continuità con i lavori precedenti.

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Del resto, viene riproposto il tema della ricerca di sé, sintetizzato nella frase simbolo della filosofia del protagonista Lucian: «Soltanto nel giardino di Avallaunius è possibile scoprire la vera e sublime scienza» [16]. Sulla stessa lunghezza d’onda si pone The Secret Glory, romanzo che impegnò l’autore per oltre vent’anni prima di essere pubblicato nel 1922. Questo testo testimoniò anche la conversione a quello che potremmo definire un cristianesimo celtico”, operata diversi anni prima su suggerimento della seconda moglie Dorothie, al fine di scacciare i demoni interiori che lo tormentavano. Machen stesso fa dire al giovane protagonista di questa storia, evidentemente uno dei suoi tanti alter ego letterari:

« Ero rapito al pensiero di quei meravigliosi cavalieri erranti, di quella cristianità che non era un codice morale con una qualche specie di paradiso metaforico offerto in ricompensa per la sua doverosa osservanza, ma una grande avventura mistica nel mistero della santità. » [17]

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Facciamo un passo indietro, perché nel 1904 Machen pubblicò sull’Horlick Magazine The White People, uno dei suoi capolavori assoluti, forse il fiore all’occhiello delle sue storie riguardanti il “piccolo popolo”. Una storia stratificata e agghiacciante rinvenuta nel Libro verde, preceduta da una premessa sul significato del male e del peccato, la cui essenza sarebbe incarnata da una formula che, una volta incontrata, difficilmente abbandonerà la memoria del lettore: Prendere d’assalto il paradiso [18].

Per questioni di spazio, diverse opere (quali A Fragment of Life, The Terror e The Green Round) restano inevitabilmente fuori da questa nostra breve ricostruzione, ma nondimeno vogliamo accennare ad un’ultima esperienza estremamente significativa nella vita di Machen. Nel 1910 venne assunto come giornalista all’Evening News e allo scoppio della Grande Guerra venne catapultato sul fronte, ritrovandosi a scrivere articoli sulla vita di trincea. Il 29 settembre 1914 esce The Bowmen, un racconto incentrato sull’apparizione di San Giorgio e degli arcieri della battaglia di Azincourt (1415), che conducono gli inglesi alla vittoria bellica contro i tedeschi. Sebbene la narrazione di per sé non sia nulla di eccezionale, una parte del popolo inglese e alcune riviste prendono per vera questa invenzione letteraria dello scrittore gallese, trasformandola in fenomeno di culto: nacque così la leggenda dei cosiddetti Angeli di Mons:

« E mentre il soldato udiva queste voci, egli vedeva sopravanzare, oltre la trincea, una lunga schiera di sagome rilucenti. Apparivano come uomini scolpiti nella luce che tendevano l’arco e con un grido facevano tintinnare frecce sibilanti contro le linee tedesche. » [19]

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È l’apice commerciale della carriera letteraria di Machen, che continuò a scrivere racconti a sfondo bellico, intrisi di elementi mitico-religiosi, per i successivi cinque anni. Nel corso degli ultimi due decenni di vita, di contro a una produzione assai limitata, la sua opera ricevette apprezzamenti internazionali abbastanza diffusi. Eppure, durante la seconda guerra mondiale, Machen finisce con la moglie in un ospizio per poveri, da cui viene fatto uscire attraverso una colletta condivisa da molti scrittori, come Blackwood e T.S. Eliot [20]. Spirerà nove mesi dopo la morte di Dorothie, il 15 dicembre 1947, in una clinica privata di Beaconsfield.

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Nel pregevole volume curato da Guarriello, oltre a una quantità di informazioni e considerazioni in grado di arricchire a dismisura il quadro tratteggiato in questa breve recensione, si trovano quattro racconti macheniani inediti in Italia (Il piccolo popolo, I cangiantiLa strana avventura sul monte Nephin e Tortura). Infine, viene proposta La Cosa gialla che striscia, una parodia del Pan di Machen firmata da Arthur Compton-Rickett, a testimonianza delle varie critiche (non sempre benevoli) ricevute dal romanzo al momento della pubblicazione, a cui abbiamo fatto riferimento. Nondimeno, checché ne pensi Compton-Rickett, quando si parla di Arthur Machen c’è ben poco da ridere. La sua multiforme opera, anche a distanza di un secolo e più, può essere letta come una terrificante catabasi panica, costituita attorno a quel nucleo del perturbante agognato da Freud e modellato attorno a paesaggi inquietanti, creature enigmatiche e menti deviate.

Nel luglio 1924, sul Sewanee Review, Ellis Roberts difese l’opera letteraria del gallese, sostenendo come la sua grande forza risiedesse nella capacità «di scrivere con una profonda convinzione spirituale» [21]. Apprezzato nel tempo dai vari Eliot, Borges, Blackwood, Bergier, King e Del Toro, per via della sua continua ricerca oltre il “velo del reale” Machen poté contare anche sulla stima assoluta di H.P. Lovecraft che, riferendosi al Pan, lo omaggiò con queste parole nel suo celebre saggio Supernatural Horror in Literature (1927):

« Ma il fascino della storia risiede nel modo in cui viene narrata. Nessuno potrebbe descrivere la suspense cumulativa e l’orrore insuperabile di cui abbonda ogni paragrafo senza seguire alla lettera l’ordine preciso in cui Machen dispiega nella trama allusioni e rivelazioni graduali […]. Il lettore sensibile, giunto alla fine del libro, rabbrividisce approvando e tende a ripetere le parole di uno dei protagonisti: “È troppo incredibile e mostruoso; simili cose non possono accadere in questo mondo tranquillo. […] Perché, amico mio, se ciò accadesse la nostra Terra diventerebbe un incubo”. » [22]

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Illustrazione di Lynd Ward per “The White People” di Arthur Machen’s (in “The Haunted Omnibus”, Alexander Laing, 1937)

Note:

[1] Sigmund Freud, Il perturbante, in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Bollati Boringhieri, Torino 1991

[2] Matteo Mancini, Arthur Machen: Oltre il velo dell’Ignoto, in Zothique n. 4/2020, Dagon Press, 2020, p. 6

[3] Cfr: Ivi, pp. 12-13

[4] Jorge Luis Borges, introduzione a La piramide di fuoco, cit. in Marco Maculotti, Le fate, le streghe e la porta per l’Altro Mondo: rilievi folklorici ed etnografici sull’opera di Arthur Machen, in Zothique n. 4/2020, p. 185

[5] Arthur Machen, La storia del sigillo nero, cit. in Maculotti, pp. 185-186

[6] Cfr: Mancini, pp. 14-18

[7] Jacques Bergier, Elogio del fantastico, Il Palindromo, Palermo 2018, p. 82

[8] Celebre la risposta di Machen alle critiche mosse da alcuni giornali, secondo cui il Pan sarebbe stato una rimasticatura stupida e incapace dei libri di Huysmans: «Non avevo letto quei libri quindi me li procurai entrambi. Al che, mi accorsi che non li avevano letti neppure i miei critici». Arthur Machen, introduzione a Un frammento di vita, Hypnos, edizione digitale, pos. 187

[9] Mancini, p. 55

[10] Maculotti, p. 182. Il tema è stato approfondito dall’autore nel suo saggio in Oltre il reale. Lovecraft, Machen, Meyrink, Smith e Tolkien: cinque scultori di universi, GOG, Roma 2020

[11] Arthur Machen, Il grande dio Pan, Adiaphora, edizione digitale, pos. 128

[12] Cfr: Maculotti, Zothique n. 4/2020, pp. 210-211

[13] Mancini, p. 25

[14] Arthur Machen, cit. in Giorgio Giorgi, Il fantastico allusivo di Machen, in Zothique n. 4/2020, p. 135

[15] Arthur Machen, Things Near and Far, cit. in Leigh Blackmore, Arthur Machen e la Golden Dawn, in Zothique n. 4/2020, p. 149

[16] Arthur Machen, La collina dei sogni, cit. in Mancini, p. 93

[17] Arthur Machen, La gloria segreta, cit. in Mancini, p. 95

[18] Arthur Machen, Il popolo bianco, Hypnos, edizione digitale, pos. 1590

[19] Arthur Machen, Gli arcieri, Miraviglia, edizione digitale, pos. 332

[20] Cfr: Mancini, p. 37

[21] Ellis Roberts, Machen e i critici del suo tempo, in Zothique n. 4/2020, p. 127

[22] Howard Phillips Lovecraft, L’orrore soprannaturale in letteratura, in Teoria dell’orrore, Bietti, Milano 2018, p. 410