I mondi sotto al mondo. Viaggi sotterranei e iniziatici nella pratica del Buddhismo esoterico

In Xanadu did Kubla Khan
A stately pleasure-dome decree:
Where Alph, the sacred river, ran
Through caverns measureless to man
   Down to a sunless sea…

S.T. Coleridge, Kubla Khan

In moltissime tradizioni presenti in tutto il mondo, trasversali ad ogni epoca e ad ogni cultura, si parla di caverne o addirittura di interi mondi sotterranei abitati da una stirpe di esseri dotati di facoltà straordinarie: grandi maghi, mistici, sciamani o eroi del passato che vi si sono ritirati illo tempore e da cui emergeranno nuovamente in un futuro lontano, quando il presente ciclo cosmico terminerà e ne inizierà uno nuovo.

Il Buddhismo, fin dalle origini, non ha fatto eccezione: già nei commentari al Sutta Nipāta, che fa parte del Canone pāli, si parla di tre caverne, Suvannaguhā, Maniguhā e Rajataguhā, che si aprirebbero sulle pendici del Gandhamādana oltre le sette catene montuose che circondano il monte Meru (l’axis mundi della cosmologia indo-buddhista); qui vivrebbero i Pratyekabuddha, ovvero quegli individui che in virtù dei meriti accumulati nelle epoche precedenti hanno potuto raggiungere la Realizzazione suprema autonomamente, senza cioè doversi affidare alle prassi tramandate dall’insegnamento buddhista. In una di queste caverne, ai piedi del mitologico albero Mañjūsa, esisterebbe una speciale piattaforma circondata da seggi detta Ratanamālaka attorno alla quale tutti i Pratyekabuddha si radunerebbero in occasione dell’uposatha (il giorno festivo infrasettimanale buddhista, basato sulle fasi della luna) ed anche per accogliere l’arrivo dei nuovi Pratyekabuddha appena Realizzati. Un’altra tradizione parla del Mahāpapāta, un monte della catena himalayana dove i Pratyekabuddha si ritirerebbero a morire, mentre nell’Isigili sutta (MN 116) in relazione ai Pratyekabuddha si fa menzione della Gola del Saggio (Isigili) presso la città di Rajagrha:

Così ho sentito. Dimorava un tempo il Sublime dimorava presso Rajagrha, al monte della Gola del Saggio. Là ora il Sublime si rivolse ai monaci dicendo: ‘O monaci’.
‘Venerabile Signore’, risposero quelli.
‘O monaci, vedete voi il monte Vebhāra?’
‘Sì, o Signore’
‘Un tempo aveva un altro nome, un’altra denominazione. Vedete voi il monte Paṇḍava…  il monte Vepulla… il monte del Picco dell’Avvoltoio? Un tempo aveva[no] un altro nome, un’altra denominazione. Ma vedete voi il il monte della Gola del Saggio?’
‘Sì, o Signore’
‘Da sempre ha lo stesso nome, la stessa denominazione. Anticamente, o monaci, cinque centinaia Pratyekabuddha per lungo tempo si stabilirono su questo monte. Essi si vedevano entrare; entrati, non comparivano più. Le genti guardandolo dicevano: Questo monte ingoia i Saggi! E Gola del Saggio fu appunto il nome che gli venne dato […].

Il Venerabile Mahākāśyapa

Sempre probabilmente riconducibile al milieu culturale del Buddhismo antico, ma con un esito più esplicitamente escatologico, è la tradizione secondo cui il Venerabile Mahākāśyapa, discepolo diretto del Buddha e primo Patriarca della tradizione chan/zen, non sarebbe mai morto, ma si sarebbe ritirato in uno stato di animazione sospesa in una caverna da qualche parte sul monte Gurupādāḥ a sud est della città santa di Bodhgayā; da qui uscirà solo per salutare l’avvento di Maitreya, il futuro Buddha che comparirà quando il nostro mondo si sarà trasformato di nuovo in una Terra Pura e l’umanità godrà gli splendori di una rinnovata Età dell’oro.

Dobbiamo tuttavia aspettare una evoluzione successiva del pensiero buddhista, e segnatamente la tradizione tantrica Vajrayāna, per scoprire uno sviluppo affatto peculiare di questo apparato mitologico, ovvero un corpus di insegnamenti pratici che consentirebbero effettivamente al miste di accedere al mondo sotterraneo per raggiungere uno stato sovrumano.

Con il termine pātālasiddhi ovvero “raggiungimento dei pātāla” si intende un insieme di pratiche ed esercizi di carattere esoterico finalizzate appunto alla discesa nei regni sotterranei (pātāla) ove risiedono i nāga (una stirpe di serpenti giganteschi dotati di poteri magici), gli asura (corrispettivo indiano dei titani presenti della mitologia greca) e una moltitudine di altre categorie di spiriti ed esseri soprannaturali.

Facciamo notare per inciso che nella cosmologia del Buddhismo antico i pātāla, intesi come una serie di “strati” posti sotto la superficie terrestre ma al di sopra dei veri e propri inferni (naraka) dove i malvagi subiscono la retribuzione per le loro opere, non esisteva; non se ne trova traccia, ad esempio, nelle varie versioni dell’Abhidharma, e nāga ed asura sono detti risiedere al di sotto della superficie dei fiumi, dei laghi o dell’oceano anziché sottoterra. La comparsa dei pātāla nella dottrina esoterica buddhista si deve dunque con ogni probabilità all’influenza dell’Induismo; tali reami sotterranei, genericamente in numero di sette, sono infatti descritti con dovizia di particolari in testi di matrice induista quali il Bhāgavata Purāṇa (che parla più esattamente di bilasvarga, “paradisi sotterranei”) ed il Viṣṇu Purāṇa.

Naraka

I pātāla, lungi dall’essere cupe spelonche, sono rappresentati come luoghi luminosi dalla vegetazione lussureggiante, ed i loro abitanti risiedono in palazzi ingioiellati che non hanno nulla da invidiare a quelli delle divinità celesti. I nāga, che all’occorrenza possono anche assumere aspetto umano, amano decorare i loro corpi di pietre preziose della più bell’acqua, e le ragazze asura sono dette essere talmente affascinanti da poter sedurre persino l’asceta più misogino ed austero. Eppure, almeno nel caso degli asura, questo stato paradisiaco rappresenta una prigione, ancorché dalle sbarre dorate: i testi induisti e buddhisti, in una serie di resoconti anche profondamente divergenti l’uno dall’altro, ci raccontano che questi esseri furono confinati nel mondo sotterraneo o subacqueo dopo essere stati sconfitti dagli dèi capeggiati da Indra, la divinità delle folgori, della pioggia e della magia.

LEGGI ANCHE  Bestie, Uomini, Dèi

L’idea che grotte e caverne naturali ritenute abitazioni degli asura potessero essere utilizzate per discendere nei reami sotterranei ed ottenere facoltà paranormali ricorre in alcuni dei testi più antichi del Buddhismo tantrico, che ci sono pervenuti sia nell’originale sanscrito sia nella traduzione cinese: tra essi il Mañjuśrīmūlakalpa, l’Āryavajra Pātāla Nāma Tantrarāja, il Sādhanamālā e il Kaṇikrodha Vajrakumāra Bodhisattva Sādhana Vidhi. Tali testi in genere vengono considerati come facenti parte della classe dei kriyātantra, dove viene data molta enfasi a pratiche quali le abluzioni rituali, l’utilizzo di sigilli (mudrā) realizzati con i gesti delle mani o anche con tutto il corpo e la recita dei mantra. Leggiamo nel Kaṇikrodha le istruzioni impartite dal Bodhisattva Vajrapāṇi:

Chi desiderasse dimorare nei palazzi degli asura per goderne i piaceri si rechi all’ingresso della caverna degli asura e con canne di giunco formi un pungolo per elefanti (aṅkuśa). Che per sette volte reciti il mantra di Vajrakumāra per conferire potere al suo pungolo, quindi lo faccia ruotare per aria verso destra accanto all’ingresso. Grazie alla sola recitazione del mantra questo si aprirà […]. Vi è anche un altro rito. Se il maestro delle formule recita per centomila volte il mantra di fronte ad una caverna degli asura nella quale i suoi sodali sono già penetrati, i maestri delle formule che precedentemente erano entrati nella caverna ne usciranno e lo accoglieranno, quindi lo guideranno all’interno fino ai palazzi degli asura.

Come si è visto il ruolo centrale nel rito è giocato dalla ripetizione dei mantra:

Il mantra-radice di Vajrakumāra è: namo ratnatrayāya namaś caṇḍa vajra pāṇaye mahāyakṣasenāpataye tadyathā oṃ kaṇi hūṃ phaṭ svāhā. Esiste anche un secondo mantra-radice che si usa allo scopo specifico di aprire i palazzi degli asura: namo ratnatrayāya namaś caṇḍa vajra pāṇaye mahāyakṣasenāpataye tadyathā oṃ dhuna vidhuna kaṇi krodha sarva yantraṇi hūṃ.

Ma anche i mudrā hanno un’importanza da non sottovalutare, e certe descrizioni non possono non richiamare alla mente le danze estatiche praticate dagli sciamani di tutto il mondo:

Ora illustrerò il mudrā da fare in posizione eretta per aprire i cancelli della caverna degli asura. Che il maestro delle formule percuota velocemente il terreno coi piedi, inceda gioiosamente, balzi in avanti con ferocia […]. Questo mudrā è il migliore di tutti i mudrā, in grado di far saltare via tutti i chiavistelli della caverna degli asura.

Il miste poteva essere intenzionato a visitare il mondo sotterraneo per diversi motivi: uno di essi era il godimento dei piaceri sessuali offerti dalle ragazze asura, ma anche in questo caso apparentemente piuttosto prosaico sembrano emergere elementi che ci rimandano a concezioni escatologiche molto più profonde e complesse. Si dice ad esempio nel Mañjuśrīmūlakalpa che:

Gli yogi buddhisti padroni dei mantra che desiderano l’unione erotica con donne soprannaturali possono invocare tutte le categorie di asura o altre femmine soprannaturali usando i loro mantra, e dimorare con esse nei pātāla per la durata di un intero eone (kalpa). Quindi, quando Maitreya finalmente giungerà, costoro udranno il Suo insegnamento e diverranno Realizzati. Ma a costoro che hanno soggiogato in questo modo una donna degli asura è proibito da quel momento in poi persino anche solo toccare una donna umana.

Similmente si legge nel già citato Kaṇikrodha:

[All’interno della caverna degli asura] le asura femmine si riveleranno e diranno al maestro delle formule: ‘O nobile signore, entrate pure nella nostra caverna e prendetevi il piacere che desiderate’. Quando egli avrà conquistato l’ingresso potrà rimanere nella caverna per un intero eone, godendo di delizie paradisiache.

Un altro valido motivo per addentrarsi nell’inframondo, sempre legato alla ricerca, se non dell’immortalità vera e propria (ogni fenomeno condizionato, insegna il Buddhismo, è impermanente) almeno di un prolungamento straordinario della vita umana, era costituito dalle conoscenze alchemiche, erboristiche e magiche di cui si pensava gli asura fossero dotati; grazie ad esse il praticante sarebbe stato in grado per scongiurare la morte per lungo tempo ed attendere Maitreya senza rischiare di precipitare nuovamente nella sofferenza e nell’incertezza della condizione samsarica. E, naturalmente, gli estensori dei testi non si trattengono nel descrivere forzieri stracarichi di tesori inestimabili e gioielli superiori a qualsiasi cosa un orefice umano potrebbe produrre allo scopo di sottolineare ulteriormente quanto i pātāla siano desiderabili.

Tuttavia, per quanto queste descrizioni tendano a sfociare in un fiabesco che forse ai nostri occhi stona un po’ con lo spirito dell’ascesi buddhista, un punto fermo resta sempre e comunque: nei pātāla non si scende per avidità di tesori materiali o per soddisfare le nostre brame, ma prima di tutto per ottenere la conoscenza che conduce alla Realizzazione. Il celeberrimo monaco Hsüan-tsang ci tramanda ad esempio che il filosofo Bhāvaviveka, tormentato da questioni dottrinali particolarmente complesse che da solo non era in grado di risolvere, avrebbe eseguito un rito legato alle caverne degli asura molto simile a quello descritto nel Kaṇikrodha in modo da prolungare la propria vita fino alla venuta di Maitreya e chiedere direttamente a Lui di sciogliere i suoi dubbi.

LEGGI ANCHE  Extrema Ratio: cenni sul suicidio "sacro"

Proprio come nel caso di Mahākāśyapa, anche a Bhāvaviveka veniva attribuito il raggiungimento di uno stato di animazione sospesa in attesa dell’avvento escatologico del Buddha futuro, ed anzi pare che lungo la Via della Seta fosse nato in tempi antichi un culto incentrato su questo tema.  

Nāga

Si è già accennato al fatto che nei testi antichi le dimore di nāga ed asura non si trovavano sottoterra, bensì sott’acqua: nello specifico i nāga vivevano nei fiumi e nei laghi, mentre gli asura erano confinati nel grande oceano che secondo l’antica cosmologia buddhista circonderebbe le terre emerse. Va detto però che questi reami non venivano mai descritti come se fossero effettivamente subacquei: in una delle tante versioni della cacciata dal paradiso ad esempio si dice che Indra abbia sconfitto gli asura facendoli ubriacare e poi gettandoli giù dal monte Meru nell’oceano mentre dormivano; tuttavia gli asura si sarebbero resi conto della cosa solo qualche tempo dopo, accorgendosi delle differenze nella fioritura degli alberi di cittapātalī (che appunto crescono nel reame degli asura) rispetto a quella di una specie vegetale a quanto pare molto simile, gli alberi di āricchattaka che si trovano solo in paradiso.

Anche le descrizioni del reame dei nāga sembrano sempre riferirsi ad un luogo che si trova all’aria aperta. Insomma, si ha l’impressione che l’idea dei mondi subacquei sia da intendersi più simbolicamente che letteralmente: come la superficie delle acque riflette le immagini del nostro mondo così i vari piani di esistenza della cosmologia buddhista sono il riflesso reciproco l’uno dell’altro, ovviamente con differenze qualitative che si fanno sempre più marcate a mano a mano che si procede verso l’“alto” o verso il “basso” fino agli estremi dei paradisi e degli inferni. Se dovessimo mutuare un termine dalla moderna fantascienza si parlerebbe di universi paralleli; ma da un altro punto di vista il Buddhismo descrive in realtà un unico mondo che viene percepito in modo diverso dalle diverse categorie di esseri a seconda delle loro propensioni karmiche.

Sia come sia, il simbolismo legato all’acqua non venne necessariamente meno anche quando nāga ed asura nei testi tantrici vennero traslocati dal mondo subacqueo a quello sotterraneo. Secondo l’etimologia accettata dagli antichi sanscritisti lo stesso termine pātāla avrebbe una connessione con l’elemento acqua derivando da patanti alam ovvero “ben irrigato”, ed anzi in certi resoconti cosmologici si dice che nei pātāla scorra il corrispettivo celestiale del sacro fiume Gange, chiamato talvolta Bhogavatī.

La famosa caverna degli asura presso il monastero di Pema Ösel di Pharping (Nepal), dove Padmasambhāva meditò e sottomise una divinità femminile locale, comunicherebbe con grandi fiumi sotterranei connessi con altri luoghi di culto e fonti miracolose del mondo; ed anche Vajrakumāra, ipostasi del Bodhisattva Vajrapāṇi invocata nel Kaṇikrodha in relazione alla pratica del pātālasiddhi, viene esplicitamente associato alle acque (in particolare alle onde dell’oceano) e più in generale al controllo sull’elemento acqueo; il praticante che padroneggia il potere del suo mantra «sarà in grado di trovare tesori nascosti, infrangere le porte sigillate degli asura, asciugare i fiumi e fermare il flusso delle acque».

La caverna degli asura presso il monastero di Pema Ösel di Pharping (Nepal)

I riferimenti ad un mondo sotterraneo popolato da esseri sovrumani richiama alla memoria uno dei miti buddhisti più noti nel mondo occidentale, quello del regno occulto di Śambhala di cui si parla nel Kālacakratantra. In realtà va detto che la versione di Śambhala presentata nei testi tradizionali apparentemente non è connessa al sottosuolo: si tratta piuttosto un paese molto lontano (generalmente in direzione nord) ma pur sempre esistente sulla superficie terrestre che solo gli iniziati possono raggiungere. L’idea di una Śambhala capitale del mondo sotterraneo (se non addirittura della Terra cava) nacque probabilmente a causa delle interferenze con un’altra tradizione mitica, quella dell’Agarthi; tradizione che viaggiatori europei tra la fine del XIX e i primi anni del XX secolo come Joseph Alexandre Saint-Yves e Ferdynand Antoni Ossendowski attribuirono (se legittimamente o meno è tutt’ora oggetto di discussione) al Buddhismo mongolo, ma di cui effettivamente non ci sono tracce nei testi dottrinali a noi pervenuti.

Un possibile legame tra i pātāla e il regno di Śambhala non è comunque da escludersi, visti alcuni parallelismi effettivamente esistenti tra le due tradizioni. Primo, l’aspetto esoterico-iniziatico: basta leggere poche pagine del Śambha-la’i lam yig (“Descrizione del cammino verso Śambhala”) del terzo Panchen Lama per rendersi conto che non si tratta della guida per un itinerario di viaggio da compiersi esclusivamente nel mondo fisico. Il pellegrino verso Śambhala deve conoscere i mantra e le formule di protezione, costruire degli strumenti magici, fare offerte agli spiriti tutelari, dominare le apparizioni conturbanti o terrifiche che gli si manifesteranno, sottomettere una speciale categoria di esseri soprannaturali femminili che in questo caso sono definiti Vajrayoginī… insomma, il cammino per Śambhala non è poi così diverso da quello che porta ai palazzi degli asura.

LEGGI ANCHE  "L'Era del Serpente": "Il serpente e il drago: morfologia del simbolismo ofidico"
Śambhala mandala

C’è poi da considerare la questione escatologica. Si è visto in precedenza che uno degli aspetti centrali della mitologia buddhista legata all’inframondo è quello dell’attesa del Buddha Maitreya, che giungerà sulla Terra per rinnovare la Dottrina; orbene, è noto che nel Kālacakratantra un ruolo abbastanza simile è svolto dal sovrano di Śambhala, Rudra Chakrin, il quale a sua volta corrisponde al Kalki Avatāra della versione induista di Śambhala ed anche al Re del Mondo di cui si parla nei miti e nelle leggende sull’Agarthi.

Si ricordi infine la tradizione tutta tibetana dei gTer gnas o “luoghi del tesoro” ai quali solo un miste equipaggiato con specifiche conoscenze e formule magiche può accedere: qui si trovano i gTer ma, i tesori nascosti che possono essere testi oppure oggetti di significato sacrale (si ricordino i gioielli preziosi ma anche i prodotti farmacologici ed alchemici degli asura e dei nāga). I gTer gnas sono spesso costituiti da grotte o vallate segrete che il grande mistico Padmasambhāva o qualcuno dei suoi discepoli avrebbe nascosto in epoche remotissime dietro una sorta di cortina magica impenetrabile a chiunque se non alle persone predestinate; citiamo a questo proposito un episodio occorso in Tibet all’esploratrice Alexandra David-Néel, che riferisce di aver ricevuto in dono da parte di un mutégspa (un cantore specializzato in epopee) un bellissimo fiore blu che in nessun modo poteva essere sbocciato in quella particolare stagione dell’anno e a quell’altitudine.

Il mutégspa, descritto dall’autrice come un individuo misterioso che spesso spariva dalla circolazione per lunghi periodi di tempo, sosteneva di essere in grado di recarsi nientemeno che presso la corte del re Gesar di Ling, eroe di un popolarissimo ciclo epico tibetano che ancora oggi dimorerebbe assieme ai suoi guerrieri nascosto in qualche luogo accessibile solo agli iniziati, in attesa della fine di quest’epoca oscura per tornare a cavalcare nel mondo e riportare la pace e la giustizia. E proprio dalle mani dello stesso Gesar, asseriva il cantore, era arrivato quell’omaggio floreale. Anche qui le similitudini sia con la mitologia dei pātāla sia con i cicli tantrici associati alla terra segreta di Śambhala ci sembrano troppo evidenti per essere ignorati, quasi che ci si trovasse di fronte a una moltitudine di varianti di uno stesso tema.

Rudra Chakrin

Resta ancora da porsi un quesito fondamentale, cioè se la discesa nell’inframondo avvenisse fisicamente o meno. Sembra molto probabile che la pratica dei pātālasiddhi prevedesse il raggiungimento di uno stato alterato di coscienza da parte del praticante, forse attraverso la ben nota tecnica della ripetizione dei mantra accompagnata dalla danza; qualcosa di analogo, insomma, ai viaggi nell’aldilà in stato di trance tutt’ora praticati dagli sciamani di alcune popolazioni asiatiche.

Tuttavia l’insistenza dei testi sul fatto che i riti dovessero essere celebrati alla caverna degli asura, quindi presumibilmente in prossimità o all’interno delle cavità sotterranee che la tradizione associava a questi esseri, lascia ipotizzare che la discesa nel sottosuolo potesse essere almeno in parte anche fisica, e che la situazione di isolamento sensoriale e le reazioni fisiologiche dovute al trovarsi in un ambiente chiuso sottoterra servissero ad accentuare il fenomeno di alterazione delle percezioni. Nota è, del resto, la pratica degli anacoreti tibetani di isolarsi anche per periodi lunghissimi di tempo in piccole celle che spesso sono ricavate da grotte naturali.

Purtroppo però una risposta definitiva a questa domanda probabilmente non potrà mai essere data. La pratica dei pātālasiddhi nel contesto del tantrismo buddhista è stata via via sempre più marginalizzata a partire dalla fine del primo millennio dopo Cristo fino a sostanzialmente scomparire dalla pratica odierna, nonostante come visto alcune tematiche fondamentali si siano conservate anche in tradizioni molto più tarde.

Oltre al generale crescente disinteresse nei confronti di tali dottrine, nel caso specifico del Tibet è anche possibile che le persecuzioni del Buddhismo da parte del re Glang dar ma’s, il successivo secolo e mezzo di guerra civile e le tendenze di risistemazione su criteri più ortodossi della dottrina buddhista da parte di maestri quali Atiśa e Marpa che la reintrodussero in territorio tibetano contribuirono a creare una cesura rispetto al passato oltre la quale gli insegnamenti in parola, almeno nella loro forma compiuta e coerente, non sopravvissero.

In mancanza della possibilità di verificare direttamente sul campo come avvenissero effettivamente questi riti siamo dunque costretti per forza di cose ad affidarci a possibili parallelismi con le pratiche presenti in altre tradizioni (come il già citato sciamanesimo) e, in ultimo, alle nostre congetture; consci però che i segreti ultimi delle grotte degli asura alla fine resteranno forse per sempre negati agli uomini del mondo di superficie.


Punnadhammo Mahāthero “The Buddhist Cosmo, a Comprehensive Survey of the Early Buddhist Worldview according to Theravāda and Sarvāstivāda Sources”, Arrow River Fores Hermitage 2018

Mayer, Robert “The Importance of the Underworlds: Asuras’ Caves in Buddhism, and Some Other Themes in Early Buddhist Tantras Reminiscent of the Later Padmasambhava Legends”, in Journal of the International Association of Tibetan Studies n. 3, Tibetan and Himalayan Digital Library dicembre 2007

Néel, Alexandra David e Lama Yongden “La vie surhumaine de Guesar de Ling”, du Rochet, Monaco 1978

Rivière, Jean M. “Kālacakra, initiation tantrique du Dalai Lama”, Robert Laffont, Paris 1985

Tucci, Giuseppe “Die Religionen Tibets”, W. Kholhammer GmhH, Stuttgart 1970


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *