Bestie, Uomini, Dèi

Il resoconto di viaggio di Ferdinand Ossendowski attraverso l’Asia centrale è una preziosa testimonianza degli sconvolgimenti geopolitici di inizio ‘900, ma ad emergere sono soprattutto le credenze “magiche” e le superstizioni ataviche degli altopiani himalayani.


di Daniele Palmieri

In Europa, tra il 1910 e il 1924, vennero pubblicati due testi singolari: Mission de l’Inde en Europe di Saint-Yves d’Alveydre e Bestie, uomini, dèi di Ferdinand Ossendowski. Due resoconti di viaggio molto diversi tra loro, eppure legati da un filo conduttore che attirò l’attenzione di uno dei tradizionalisti più importanti del ‘900: René Guénon. In entrambi i testi si narra  di una terra sotterranea leggendaria, situata in un luogo non ben precisato dell’Asia; la mitica Agartha (o Agarthi, in base alla versione). Una città nascosta nelle viscere della terra in cui vivrebbe una popolazione “illuminata”, guidata da un misterioso Re-Sacerdote chiamato il Re del Mondo.

Le somiglianze tra i racconti di Saint-Yves e di Ossendowski sono così tante che molti critici iniziarono a dubitare della buona fede del secondo, accusandolo di plagio. A difesa non solo di Ossendowski ma, in generale, del mito di Agartha, si sollevò la voce del Guénon, che in un breve pamphlet intitolato, appunto, Il Re del Mondo, analizzò come il mito di una civiltà sotterranea [1], polo spirituale dell’umanità, sia ben più antico dei racconti dei due autori e sottolineò che le somiglianze, piuttosto che da un’influenza diretta, derivino invece da un’idea radicata nella coscienza umana, comune in diverse tradizioni.

Al di là della difesa di Guénon, basterebbe leggere per intero Bestie, uomini, dèi di Ossendowski per scoprire come, al di là della narrazione del mito del Re del Mondo, trattato solo nei capitoli conclusivi del testo, si nasconde molto altro: Beasts, Men, Gods è uno dei resoconti di viaggio più belli che mi sia mai capitato di leggere e, probabilmente, uno dei più suggestivi mai scritti.

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Ferdinand Ossendowski.

Nato a Vitebsk nel 1871, Ferdinand Ossendowski fu un chimico, giornalista, rivoluzionario e scrittore polacco che, in seguito al fallimento del tentativo di indipendenza da parte Siberia Orientale nei confronti della Russia, dovette fuggire dai bolscevichi, per non cadere vittima dei loro rastrellamenti. Il lungo viaggio, che lo porterà dalla Siberia a Pechino, cominciò «nella quiete profonda dell’inverno siberiano», nel 1920. Come le più grandi avventure, cominciò all’improvviso quando Ossendowski, mentre tornava da casa di un amico, ricevette la notizia che la sua abitazione era presidiata dai soldati bolscevichi, e che doveva immediatamente lasciare il paese per non essere imprigionato.

«Perciò» scrive Ossendowski nell’incipit del testo, «indossai in fretta una vecchia tenuta di caccia del mio amico, presi del denaro e mi affrettai a piedi lungo le viuezze della città, finché raggiunsi la strada principale fuori dall’abitato; qui assoldai un contadino che in quattro ore mi condusse con il suo carro trenta chilometri lontano» [2]

L’evento imprevisto lo trovò impreparato, e fin da subito Ossendowski fu costretto ad adattarsi a una vita completamente diversa, lontano dagli agi dell’esistenza domestica. Recuperando soltanto fucile, coltello, borraccia e qualche scorta di cibo, Ossendowski fugge tra le foreste, simile al Waldganger di jungheriana memoria. A metà tra Walden di Thoreu e il Richiamo della foresta di London, la prima parte di Bestie, uomini, dèi di Ossendowski narra la sua “regressione” a uomo del bosco, costretto a vivere dell’essenziale, a procacciarsi il cibo con la caccia, a sopravvivere alle condizioni estreme dell’inverno siberiano, a nascondersi dai soldati bolscevichi, ad affinare l’intuito sulle persone incontrate e capire, con pochi sguardi, di chi si poteva fidare e di chi no, perfino ad affrontare gli animali selvaggi delle foreste siberiane. Particolarmente suggestiva, a tal proposito, la battaglia con un orso che si aggirava nei pressi del suo accampamento, che risveglia nell’animo dell’autore gli istinti primordiali che, per millenni, hanno permesso all’uomo di sopravvivere alle condizioni più estreme, e che ormai giacciono latenti e inermi, ma non per questo completamente dimenticati, nell’animo di ciascun uomo. Così, la prima parte del testo assume l’aspetto di un’incubazione iniziatica, in cui Ossendowski risveglia le energie più profonde latenti nel suo animo. Come egli stesso scrive nel libro [3]:

« In ogni individuo spiritualmente sano del nostro tempo, vi sono ancora tratti dell’uomo primitivo che possono riemergere in condizioni di estrema difficoltà, trasformandolo in cacciatore e guerriero, e lo aiutano a sopravvivere nella lotta con la Natura. È una prerogativa dell’uomo dalla mente e dallo spirito temprati, mentre gli altri che non posseggono sufficienti conoscenza e forza di volontà sono destinati a soccombere. Ma il prezzo che l’uomo civilizzato deve pagare è che per lui non esiste nulla di più spaventoso della solitudine assoluta e della consapevolezza del completo isolamento dal consorzio umano e dalla cultura in cui s’è formato. Un passo falso, un momento di debolezza e la nera follia si impadronirà di lui, trascinandolo verso un’inevitabile distruzione. Avevo trascorso giorni terribili lottando contro il freddo e i morsi della fame, ma ne vissi di ancor più spaventosi lottando con la forza di volontà contro pensieri distruttivi, che mi indebolivano psicologicamente. […] Inoltre, sono stato costretto a osservare che le cosiddette persone civilizzate attribuiscono scarsa importanza a quell’allenamento dello spirito e del corpo che è indispensabile all’uomo che si ritrova in condizioni primitive, nella spietata lotta per la sopravvivenza in una Natura ostile e selvaggia. È questa la via per educare una nuova generazione di uomini sani, forti, di ferro, che conservino nello stesso tempo anime sensibili. La natura annienta i deboli ma tempra i forti, risvegliando nell’animo emozioni sopite nelle normali condizioni di vita dell’attuale civiltà. »

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Per scappare dall’avanzata bolscevica, Ossendowski è costretto a inoltrarsi sempre di più nel profondo cuore dell’Asia, attraverso Mongolia e Tibet, spinto da tali energie ataviche e da una strenua volontà che lo tiene aggrappato alla vita anche nei momenti più difficili e pericolosi. Tra scontri a fuoco, compagni di viaggio incontrati e perduti, fughe e tradimenti, lo scrittore polacco varca la soglia di un’Asia dal grande fermento (e fervore) culturale, religioso, spirituale e politico. Più si addentra nelle terre d’oriente, più il viaggio si colma di credenze, folklore, superstizione, magia e meraviglia, attraverso le parole degli autoctoni e i loro racconti riguardanti demoni delle vette che presiedono passaggi, dèi del vento che scatenano tempeste, fantasmi e spiriti degli antenati che scrutano le vite degli uomini, indovini che preannunciano fortune e sfortune imminenti, il tutto riportato con uno stile oggettivo e giornalistico, ma non per questo arido e asciutto. Con la sua prosa, Ossendowski è in grado di non cadere mai nella sempliciotta credulità né nell’arido scetticismo, ma sempre oggettivo e distaccato riporta racconti ed eventi con una sorta di sguardo dall’alto, allo stesso tempo realistico e incantato.

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Oltre a un grande racconto di viaggio, Bestie, uomini, dèi è una fonte importante sulla storia degli sconvolgimenti politici avvenuti tra Siberia, Mongolia e Tibet nella prima metà del ‘900. Tra le testimonianze più importanti, l’incontro di Ossendowski con il sanguinario Barone von Ungern, militare russo ma d’origine tedesca che tentò di fondare, in Mongolia, una monarchia teocratica lamaista, fondata sui principi mistici e spirituali di un buddhismo sincretico, che mischiava elementi nazionalisti ai principi del buddhismo di derivazione tibetana, con influssi cinesi e mongoli [4]. Memorabili le parole con cui Ossendowski descrive il suo primo incontro il Barone [5]:

« Mentre varcavo la soglia un uomo vestito di una tunica mongola di seta rossa si avventò su di me con lo scatto d’una tigre, mi afferrò e strinse la mano frettolosamente e quindi si buttò sul letto sistemato lungo un lato della tenda. […] In un istante mi resi conto del suo aspetto e del suo carattere. Una testa piccola su ampie spalle; capelli biondi spettinati; baffi rossicci a spazzola; un volto stanco ed emaciato come quelli delle antiche icone bizantine. Ma il tratto più caratteristico dei suoi lineamenti era la spaziosa fronte sporgente che sovrastava due occhi penetranti, dallo sguardo d’acciaio, che mi scrutavano come quelli di un animale in fondo a una caverna. Il mio esame durò un attimo, ma capii subito d’aver di fronte un uomo molto pericoloso, pronto a dare un ordine irrevocabile. »

Il militare/dittatore, dopo questo iniziale incontro in cui Ossendowski riuscirà ad attirarsi le sue simpatie, scorterà l’autore fino alla dimora del cosiddetto Buddha Vivente, la guida spirituale dell’autoproclamato stato lamaista e, ufficialmente, suo imperatore, che di fronte agli occhi di Oossendowski predice la morte del Barone Sanguinario, e la sua reincarnazione in uno spirito guerriero ancor più grande. Agli occhi di Ossendowski, il  Buddha Vivente, con le sue contraddizioni, la sua grandezza e le sue meschinità, diviene l’incarnazione perfetta della spiritualità lamaista, sempre in bilico tra cielo e terra, materia e spirito, ascetismo e sfarzosità [6]:

« Intelligente, penetrante, energico, egli indulge contemporaneamente al vizio del bere, che gli ha provocato la cecità […]. Non smette mai di meditare sulla causa della sua Chiesa e della Mongolia e nello stesso tempo indulge a piccole manie. Ad esempio gli piace l’artiglieria […]. Automobili, grammofoni, telefoni, cristalli, porcellane, quadri, profumi, strumenti musicali, animali e uccelli rari, elefanti, orsi himalayani, serpenti indiani e pappagalli… questo e altro ancora trovava posto nel palazzo del dio, ma era stato presto messo da parte e dimenticato. […] Mi mostrò tutti i pezzi del museo, parlandomene a lungo con evidente piacere. »

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Ma sotto il velo superficiale e contingente degli sconvolgimenti politici, delle debolezze degli uomini, delle superstizioni, del sangue e delle atrocità, si nasconde lo spirito autentico di una sacralità atavica, che alberga nel cuore della Mongolia da millenni [7]:

« Avete mai visto le polverose ragnatele e le muffe nei sotterranei di qualche antico castello d’Italia, Francia o Inghilterra? È la polvere dei secoli. Forse la stessa che ha sfiorato il volto, l’elmo e la spada di un imperatore romano, di San Luigi, del Grande Inquisitore, di Galileo o di re Riccardo. Il vostro cuore batte più in fretta e vi sentite pieni di rispetto per questa muta testimonianza di età lontane. Provai la stessa impressione a Ta Kure, ma forse con maggior intensità. Qui la vita scorre con lo stesso ritmo di otto secoli fa; qui gli uomini vivono immersi nel passato, e il mondo del passato non fa altro che complicare e intralciare la loro normale esistenza. »

Testimonianza di questa spiritualità ancestrale, il Mistero dei Misteri, il mito del Re del Mondo. Come accennato in precedenza, la critica si è spesso soffermata unicamente su queste pagine, senza considerare il contesto dell’intero viaggio di Ossendowki, alla luce del quale tale testimonianza dovrebbe essere letta. Anzitutto, occorre sottolineare che più volte, lungo il suo lungo tragitto, l’autore testimonia di aver sentito raccontare, dalle bocche degli autoctoni, la leggenda di Agartha, del regno sotterraneo e del suo sovrano illuminato, ritiratosi nelle viscere della terra. Presenza costante ma sempre di sfondo, come un’ombra, il Re del Mondo sembra seguire Ossendowski con gli occhi della mente per tutto il viaggio, e ancor più delle parole del popolo e del Buddha Vivente, a meravigliare Ossendowski è un incontro silenzioso e intangibile con l’aurea mistica di tale leggendario sovrano [8]

« Avete visto, chiese il mongolo, come i nostri cammelli muovevano le orecchie per la paura? Come la mandria di cavalli sulla prateria si è fermata improvvisamente attenta e come le greggi di pecore e armenti si sono acquattate al suolo? Avete notato che gli uccelli hanno smesso di volare, le marmotte di correre e i cani di abbaiare? L’aria era percorsa da una sommessa vibrazione e portava da lontano la musica di un canto che andava dritto al cuore di uomini, animali e uccelli. La terra e il cielo trattenevano il respiro. Il vento non soffiava più e il sole era immobile. In simili momenti il lupo che si avvicina alle pecore arresta il suo strisciare furtivo; il branco di antilopi spaventate d’un tratto interrompe la sua corsa selvaggia; il coltello del pastore che sta per tagliare la gola della pecora gli cade di mano. Tutte le creature viventi, in preda a un misterioso timore, involontariamente cominciano a pregare, attendendo il loro destino. […] E così è sempre stato ogni qual volta il Re del Mondo prega nel suo palazzo sotterraneo e vaglia il destino di tutti i popoli della Terra. »

Alla luce dell’intera vicenda di Ossendowski, sempre in bilico tra realtà, leggenda ed esigenze politiche e spirituali, il mito del Re del Mondo assume caratteri profetici, diviene una sorta di auspicio e monito al rinnovamento spirituale dell’intera umanità. Come accennato in precedenza, nella prima parte del libro, in concomitanza alla dura vita nei boschi e al risveglio della volontà atavica, Ossendowski giunge a immaginare un’umanità diversa che ha recuperato il contatto con le forze ancestrali, quasi primordiali, del proprio essere, senza tuttavia perdere l’arte, la nobiltà e la delicatezza. Narrando i suoi travagli autobiografici, Ossendowski sembra raccontare, allo stesso tempo, le sofferenze e le guerre dell’intera umanità e, tanto per l’autore quanto per gli uomini, la leggendaria terra di Agartha assume i connotati di una speranza salvifica in una terra diversa, una dimensione tanto terrena quanto metaforica in cui l’uomo ha ritrovato il proprio centro spirituale, la condizione edenica dell’Età dell’Oro. Il mito del Re del Mondo rappresenta proprio questo; il recupero di un polo spirituale superiore, nascosto però nelle profondità della terra, in un punto di contatto tra le forze celesti e telluriche. Da tale prospettiva, tutte le altre critiche, dicerie, supposizioni attorno al testo di Ossendowski [9] non sono altro che flebili contingenze.

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Note:

[1] Cfr. M. Maculotti, Civiltà “sotterranee” nel mito, nell’occultismo e nella “realtà alternativa”, su AXIS mundi.

[2] F. Ossendowski, Bestie, uomini, dei, Edizioni Mediterranee, Roma 2003, p. 25.

[3] Ivi, p. 40.

[4] Cfr. A. Della Guerra, La religiosità di von Ungern-Sternberg: tra buddhismo, sciamanesimo e cristianesimo, su AXIS mundi.

[5] F. Ossendowski, op. cit., pp. 173-174.

[6] Ivi, p. 208.

[7] Ivi, p. 213.

[8] Ivi, p. 227.

[9] Per un significativo estratto di Bestie, uomini, dèi vedi Il Regno Sotterraneo (F. Ossendowski, «Bestie, Uomini, Dèi»), su AXIS mundi.