L’intransigenza della grazia. In ricordo di Cristina Campo, a cento anni dalla nascita

«Trappista della perfezione» come ebbe a salutarla Guido Ceronetti, Cristina Campo fu figura di vetta, irradiata da grazia sublime. Nel silenzio del mondo culturale, oggi come allora, la ricordiamo a cento anni dalla nascita.

di Andrea Venanzoni

Io vado sotto le nubi, tra ciliegi
così leggeri che già sono quasi assenti.
Che cosa non è quasi assente tranne me,
da così poco morta, fiamma libera?

Cristina Campo, Elegia di Portland Road
Cristina Campo, nata il 29 aprile 1923

Ombra a Sant’Anselmo

Il profilo di Roma si tinge di cremisi e di argento, tra spire serpentine di un tramonto ispessito dall’ombra di un prolungato silenzio. Dalla balconata del Giardino degli Aranci, in una prospettiva incuneata tra filari di alberi, cespugli e fiori, si volge lo sguardo sul Lungotevere fino alla Cupola di San Pietro che irradia un lucore iridescente, sensualmente carnicino. 

Nella estasi dei sensi, e nella beata contemplazione di un tempo dipanato come gomitolo di seta lungo la stretta strada che digrada dalla sommità fino al cuore pulsante e caotico della città, poco alle spalle si staglia quel quadratino di palazzetti liberty e di Abbazie dalle mura oggi abborracciate, forse espanse rispetto il tempo che fu, che è Piazza Sant’Anselmo.

La piazza se ne sta assopita alle spalle del giardino, tra chiese e il palazzo dei Cavalieri di Malta, e la loro chiave incistata nel costato di una ricca e florida siepe da cui chinandosi si osserva la infinita finitezza del Vaticano, e l’abbazia, ora Pontificio Ateneo, di Sant’Anselmo.

Qui, tra il civico 2 e il civico 3, in un arco temporale di anni seguiti la dolorosa morte dei genitori, in un florilegio cristallino, armonico e tormentato di graziosa solitudine, nel castello personale di una bellezza che chiedeva al mondo la cortesia di starsene fuori dalla finestra, visse Cristina Campo.

E con lei la dolcezza rituale dell’aver elevato la propria camera in una stanza del ricordo, della memoria, in un altare votivo di persone care scomparse e di autori essenziali [1], fino a costituire un castello turrito di bellezza.

Bellezza anche nelle ore dell’angoscia che, come ebbe a ricordare in una commovente lettera indirizzata alla filosofa spagnola Maria Zambrano risalente al 1965, evocando la recente e dolorosissima morte dei genitori, si traduceva in un

 orrore indicibile della Loro assenza, ogni giorno più concreta e terribile – e quel lavoro spietato della morte che, come sul volto umano, così anche nel nostro cuore non lascia che i lineamenti sovrani della creatura – i soli, i veri – quelli che tra noi ben pochi seppero riverire ed amare.

[2]

Prigioniera-Regina, e per questo liberissima pur nella sofferenza enigmatica della sua presenza a Sant’Anselmo, di una stanza, di un altare fatto di letture e foto votive dei propri cari, in una rara eleganza che baluginava come quell’esatto tramonto a picco sui tetti di Roma.

E in questa raffinata, anacoretica prigionia, si spinge la bellezza sinuosa della metafora della condizione del ragno, al tempo stesso artefice e prigioniero della sua propria architettura [3], che Cristina Campo raffina e cesella riflettendo sul Diario di Virginia Woolf.

La rete, delle relazioni e delle corrispondenze, della letteratura elevata a piedistallo di vita che le fu propria, in un femminile divino, in una costellazione di donne straordinarie, Anna Cavalletti, Maria Zambrano, Margherita Pieracci Harwell, Alejandra Pizarnik, avvinte dalla gioia e dall’amicizia, pur nella sofferenza del contingente e di queste ombre.

Le ombre di piazza Sant’Anselmo si allungano ora morbide e setose lungo la facciata della pensione, prima, e della casa, poi, dove Cristina Campo costruisce un mondo che come tutti i luoghi di paradiso non ha epoca né consistenza materiale.

Un mondo che fu allora, e che è ancora oggi. Anche e soprattutto per la solerte dimenticanza di qualunque burocrazia nell’effigiare quella memoria, nella apposizione di una targa del ‘qui visse’ o ‘qui costruì il mondo della bellezza sovra-umana’.

Ma la dimenticanza, i burocrati non possono immaginarlo, è presenza. Né strade intitolate, né targhe, o celebrazioni per quanto sommesse – e non è un male giacché la semantica della mediocrità, il linguaggio delle frasi fatte e delle citazioni prese come banana da cappello per suonare intelligenti, sarebbero state affronto intollerabile.

Altre città hanno pur provveduto. Una viuzza, una scuola di tanto in tanto. In genere nel cuore grigio di qualche distretto industriale, forse pensando di seminare bellezza nella livella architettonica di uno stile brutalista da casermoni sovietici.

La casa di Cristina Campo a piazza Sant’Anselmo

E proprio in questa assenza, in questo oblio istituzionale di carte bollate e voci retoriche si avverte la forza della presenza, il cuore trafitto da saetta di ghiaccio. Un’ombra in particolare, tra le molte che baluginano di tenebra nel fondo dell’orizzonte, ci si staglia davanti.

L’ombra da fendere per la salvazione, che Cristina Campo poeticamente rivela in ‘Un sigillo di fuoco arrivato attraverso i secoli’, descrivendo la devozione emersa dal ventre del Museo delle Anime purganti [4], tratteggiandola come una traccia scura.

Il dono, tra i molti, che le capitò in sorte fu quello della potenza espressiva della memoria e della tradizione intessuta della notte fonda dell’ereditare. Ereditare la gioia, la bellezza, attraverso l’arte orafa della traduzione e del rendere propri i passi amati degli autori che, nell’atto stesso della traduzione, non venivano semplicemente resi fruibili ad una qualche platea ma eternati nel suo animo. ‘Maestri come amici’ ha scritto Margherita Pieracci Harwell [5].

Alessandro Spina [6], altra figura eccellente di scrittore, rimosso e dimenticato con proletario fastidio da una pletora di intellettuali militanti incapaci di una elevazione culturale che potesse andare oltre il realismo socialmente impegnato, ha sottolineato questo aspetto con acuto nitore. In ‘Conversazioni in Piazza Sant’Anselmo’, testo pensato per costituire una iconografia campiana e che oggi è finito nel limbo della quasi totale irreperibilità, l’autore riflette sul senso profondo, e dolente, della sua amica affermando 

l’arte di scrivere presuppone l’arte di leggere e l’arte di leggere a sua volta reclama la difficile, impervia arte di ereditare.

[7]

Ogni autore crea i propri predecessori, modellando la capacità di riscrivere e cesellare con dovizia artigiana il passato [8]. La clessidra stanca di una epoca impaludata nell’impegno sociale, nelle rivendicazioni industriali ed operaie condotte da annoiati condottieri da salotto, con le loro puntute bacchettine e le metaforiche lavagnette intrise di manicheismo morale, ha tentato di obliare il lascito campiano.

Ed oggi, oggi sì, molti di quelli che strinsero patti ad excludendum e ostracismi di varia natura, si dicono estimatori, lettori, esegeti ed apologeti di Cristina Campo. Paradossi del tempo presente – ma come è assai noto aquila non capit muscas.

Luce a Sant’Anselmo

Nata il 29 aprile [9] del 1923 a Bologna, Vittoria Guerrini, o Cristina Campo nel più noto e a lei caro tra gli eteronimi che pur numerosi utilizzò in vita [10], fu un fuoco silenzioso irradiato di splendore in un Paese troppo gretto per poterne cogliere la sapienza ultima. ‘Nella vita Vittoria usava l’incendio. Metteva fuoco appena poteva. Anche con la gente’ , ha ricordato Elémire Zolla [11], che le fu vicino per molti anni.

E la potenza baluginante di Cristina Campo seppe mettere a frutto e a rigore anche il caos rigoglioso d’erudizione dello stesso Zolla che, come rileva Pietro Citati nell’intimo e potente ricordo di Zolla [12], era portento di conoscenza, di letture e di sapienza ma preda, al tempo stesso, di una oscillazione sagittale divorata dal caos, dalla frenesia, da una deriva nomade di accumulazione.

E lei standogli vicino riuscì lentamente a guidarlo attraverso le praterie luminescenti del rigore individuale, del farsi fiamma per comporre in un ordito le trasformazioni culturali e spirituali che lo scrittore torinese poneva in essere e salvandolo, salvandolo sì, dal gorgo paludoso del neo-illuminismo, e di quel razionalismo spicciolo alla Marcuse e alla Adorno che pure agli inizi egli aveva abbracciato e per cui era stato lodato dai custodi della ortodossia intellettuale del tempo.

Il mondo culturale operoso e progressista non gliene perdonò il tradimento. Il voltafaccia. Ne fecero dannazione della memoria, mettendo all’indice del proibito i loro nomi, della Campo e di Zolla. Troppo metafisici. Troppo inattuali. Troppo sospetti.

Nella sua breve e intensa esistenza, spesa nella natia Bologna, nella amata Firenze e infine, dal 1955, seguendo la madre e il padre, musicista e direttore di Conservatorio, a Roma, prima al Foro Italico e poi in Piazza Sant’Anselmo, Cristina Campo ha vissuto di bellezza, di poesia, di lirismo liturgico, di una profonda attenzione spirituale per ogni dettaglio che potesse far germogliare un giardino interiore popolato di fantastico e di perfezione.

Traduttrice, poetessa, scrittrice, ma di ogni categoria seppe andare oltre, oltre le castranti, ottuse, burocratizzanti, esangui definizioni da libercolo, come ha sottolineato Guido Ceronetti nel suo anatema vergato affinché nessuno si azzardasse a sminuire la Campo con le avvilenti etichette di ‘scrittrice’ o peggio di ‘saggista’. Scrisse e pensò come gli anacoreti del deserto, intenti non a predicare silenzio ma a rimanere silenziosi per la gioia dell’eternità, nell’accostamento subitaneo al senso del divino.

Cristina Campo fu profeta di verità. Una verità mistica e sofferta che perseguì oltre tutto, nel corso della sua vita. In una intensamente sofferta lettera del 26 luglio 1956 scrive a Leone Traverso

a me importa, a questo mondo, unicamente la verità; e al centro delle cose non trovai – una volta di più – se non un irrimediabile sentimento di solitudine.

[13]

La verità rende soli. Come la luce. Che divelle ogni illusione e smotta qualunque sicurezza di oscurità. Nella luce si è soli. Splendenti e bellissimi, ma scavati dal pensiero di ciò che si è. Un vuoto riempito di luce, che diventa figura di pleroma [14] ha magistralmente annotato Ceronetti.

Robert Burns, Deer Hunting

Fabula (il genio è bambino)

Di tutto e tra tutto ciò che il mondo culturale a lei coevo non seppe perdonarle, uno degli aspetti più evidenti fu la ricerca di una perfezione oltre-mondana che poco, o nulla, si curava della questione sociale per come, grettamente, veniva intesa. 

LEGGI ANCHE  L'Altrove fantastorico di Pupi Avati

Di questo tragico totalitarismo intellettuale intessuto di rivoluzione, di proletarismo, di realismo oltranzista, quasi unica speranza di redenzione mondana per artisti e letterati di scarsi mezzi, gingillati sotto i riflettori rossini della scena letteraria, lei non seppe cosa farsene.

Giornali, riviste, quotidiani, salotti buoni guardarono con inusitato e narcisistico fastidio il ritorno del mito, della fiaba, della dimensione oltre-umana, di quella squisita ritualità formale che davvero avrebbe potuto salvare la civiltà.

Ma per Cristina Campo la fiaba fu tutto. Fu la sua stessa vita di fanciulla a cui la malattia negò la fanciullezza, costringendola a rinunciare alle scuole e a molte spensierate uscite e che la lasciò a costruire un proprio mondo, un mondo senza strade in cui si cammina davanti a sé, rivelando la consistenza ombrosa del labirinto [15].

Nella potenza mitografica della fiaba alberga il più lucente dei segreti, già scorto in penombra da Ernst Jünger, quello di una narrazione che nata bambina e per bambini si avviluppa alla consistenza porosa della propria esistenza [16]

Il mistero del narratore di fiabe, di chi trasfigura l’oggetto-bambino della propria narrazione per celebrare la sua esistenza vissuta nella libertà e nella capacità di superare le limitazioni di qualunque sistema istituzionale, è il mistero assoluto del genio e del poeta i cui tratti gentilmente ‘infantili’, per citare Schiller, permangono fermi nella loro essenza [17].

Nella fiaba si scorge la straordinaria, veggente soluzione di ogni destino nell’affidarsi, senza le fallaci requie di una timida speranza [18]. In questo aspetto affiora una notturna affinità con le più disperanti pagine di Emil Cioran, quando la speranza viene incatenata semanticamente alla forma di schiavitù.

Chi si affida, non spera. Chi si affida matura un convincimento verso l’inarrivabile. Proprio per questo Cristina Campo fu libera e cantrice di libertà. Libera di non curarsi del dibattito del giorno; ma non fu insensibile o cinica, anzi fu persona di grande cuore, attenta a combattere discriminazioni e ad aiutare, con fedeltà meravigliosamente cavalleresca e feudale, gli ultimi. Ad aiutarli sul serio, pragmaticamente, e non solo con vuote orazioni da coscienza nettata dal demone dell’impegno sociale.

Visse e soffrì di passioni che non sono di questo mondo e proprio per ciò espresse magneticamente una gentilezza aristocratica, una nobiltà d’animo, una attenzione perfetta verso qualunque cosa fosse invisibile alla sensibilità insensata di una cultura militante che aveva già all’epoca intossicato il cuore fondo d’Italia.

Inafferrabile

La poetica della libertà in Cristina Campo è la via dei giardini fioriti. Distese geometricamente smeraldine, di un verde intenso, solare, punteggiate dalla policromia musicale di fiori. La vita stessa di Cristina Campo è stata un giardino inafferrabile, nutrito da un affetto devozionale tendente alla perfezione celeste.

Furono giardini veri, come quello che delicatamente cingeva l’ospedale Rizzoli nel cui villino visse a Bologna, e quelli di Firenze e Roma, o giardini metaforici, intimi, invisibili, dentro cui coltivare la buona solitudine che, nietzschanamente, ci consenta di dirci buoni.

Nel descrivere la sua amata Firenze ferita dalla pioggia di bombe e fuoco del secondo conflitto mondiale, annota ‘Firenze si ricompose con l’impassibile grazia di una Dama che una bomba ha interrotto mentre sorbiva il tè[19] e i giardini, le ville, il verde, sono elementi consustanziali e ontologici di quella aristocratica, imperfettibile perché già perfetta, grazia, prosecuzione letteraria e mistica della ‘grande casa’. In In medio Coeli, scrive:

Chi abbia avuto la ventura di nascere in campagna o almeno in un giardino abbastanza vasto da non saperne troppo bene i confini, porterà per tutta la vita il sentimento di un arcano e pure preciso linguaggio, di uno svolgersi musicale di frasi che, mentre colma i sensi di sovrabbondante letizia, annuncia alla mente un ultimo disegno, sempre di nuovo promesso e differito.

[20]

Per tutta la sua esistenza, edificò un giardino interiore, capace di trasfigurarla e preservarla dall’orrido grigiore del contingente, fino ad occupare ogni spazio silenzioso. In città, persino in una singola stanza. D’altronde, esistono in città certe tranquillità di campagna [21].

Nel suo racconto Le rovine circolari, Borges immagina un trasporto totalizzante di un individuo-Dio che ambisce a sognare un uomo per imporlo alla realtà, un progetto magico che ‘aveva esaurito l’intero spazio della sua anima’ [22]: ed esattamente come questo straniero approdato nel cuore della notte, dal ventre del fiume, così Cristina Campo fu inafferrabile nei suoi sogni, nelle sue passioni, nello sguardo lucido e limpido di dissolvenza a sé stessa.

Come lo straniero-demiurgo, così lei sogna un cenacolo simile a quello della Zarina Alessandra, con profumi e un angolo dedicato allo splendore delle icone, popolato da particolari foto dei più bei volti del mondo, Chopin, Weil, Checov, Hofmannsthal, ritratti in un aspetto, noto e caro a Cristina, della loro esistenza.

E non è forse questa immagine, onirica e potentissima, evocativa, una sfida al reale della propria epoca, propria solo nel senso anagrafico e di corredo burocratico, ma non certo in chiave spirituale, giacché lei non ebbe epoca?

Una imposizione del bello e della grazia, della gioia eterna della perfezione, sfuggente, liminale, ritrosa a mostrarsi ed esibirsi, simbolicamente scintillante, a ciò che circonda i lineamenti chiusi del nostro essere. Liturgia di incontri eccezionali in cui ci si dice tutto e che glorificano l’esistenza, la memoria, la bellezza quasi mistica della biografia e della intimità che origina dall’ascoltare storie irripetibili [23].

Inafferrabile, in questo. Nel furore rigoroso e tranquillo, contemplativo, di splendori stuccati, di luminescenze ambrate e dipinte lungo l’arco di volta dell’universo sensibile, con il fiato corto, ritmico, nel poter vedere, vedere davvero, ciò che si situa oltre. Un senso di inafferrabile che si misura con la forma di un’altra inafferrabilità. La libertà.

Devota nel suo slancio fondazionale di una metafisica della libertà, Cristina Campo fu sempre fedele a un ideale superiore e individuale, alla consegna segreta da soldato di vedetta sull’immoto lago di sabbia dell’esistenza; il rimanere ciò che si è, senza cedimento di sorta alle sirene e alle lusinghe dell’inessenziale, dell’attuale, del contingente, del materiale, di un collettivo reso feroce tirannia.

Libertà dalla nuda forma della società, del richiamo a un contrito dovere sociale, dell’impegno fine a sé stesso, dai cenacoli, fulgida sagoma che si trasla gracile lungo le strade, brillando di una consapevolezza bellissima e muta – poiché tutti viviamo di stelle spente [24].

Inesprimibile

C’è una bellezza che nessuna parola può esprimere e che solo può consistere della Verità ultima della parola. La parola del sacro, del divino. Di quel silenzio carico di incensi e di sinuose volute di fumo che alterano la linea d’orizzonte racchiusa nella finitezza spaziale di qualunque chiostro.

Filatrice d’inesprimibile’, fu Cristina Campo nelle parole di Guido Ceronetti [25]; il risultato e l’argomento della sua poetica combaciano nella esatta, acuta idea della trasfigurazione di qualunque percorso che non sia teso alla inafferrabilità, verso la sommità cangiante e luminosa della perfezione [26]. Ed è questo il suo meraviglioso tratto distintivo, la sua ferrea capacità di immedesimazione empatica, tra lo scorrere delle parole e nel tumulto del pensiero, giù dove la luce è un bargiglio di fiamma e di tenebra redenta.

Come ha sottolineato Margherita Pieracci Harwell, Cristina Campo si nutriva di alcuni libri e di alcuni autori, suggendone un nettare distillato che la avrebbe permeata per la vita e che sarebbe emerso ed affiorato alla calda luce del mattino anche a distanza di tempo, e questi autori erano, come Simone Weil ed Hugo von Hofmannsthal, gli autori in cui originariamente lei poteva riconoscersi [27]. Specchiarsi e vedere un carattere che similmente si dedicava alla inattualità del messaggio della perfezione.

Il canto lirico di Cristina Campo è senso dell’inesprimibile, poiché davvero la poesia ha bisogno di spazio interiore [28]. Ogni verso limato, dolorosamente cesellato si staglia a definire i pilastri di marmo del nostro impero interiore, quel locus sensuale in cui consistiamo della fiamma dell’ultimo presente – impassibili e immoti.

Imperdonabile

Nella citazione in esergo da Ezra Pound ‘venite mie canzoni, parliamo di perfezione: ci renderemo passabilmente odiosi’ che introduce ‘Gli imperdonabili’ Cristina Campo opera una precisissima scelta: il cammino della solitudine verso la perfezione, ciò che più di ogni altra cosa eleva e indigna le masse, rendendoci appunto ‘passabilmente odiosi[29]. La passione per la perfezione viene tardi, ma è l’unica forma di reazione a un mondo in magmatica decomposizione.

Nelle bellissime pagine sulla orizzontalità del progresso, rievoca un episodio della repressione contro le rivolte boxer in Cina. I condannati, in lunga fila che si snoda serpentina verso il patibolo, ingannano l’attesa accapigliandosi per il loro turno, e in questa folla senza via di scampo si scorge la figura di un uomo che, destinato pure a morte come gli altri, nonostante tutto legge un libro, dimostrando sapienza e amore alla vita, e venendo per questo graziato da un ufficiale tedesco. ‘Io so che ogni rigo letto è profitto’ [30].

Cristina Campo fu imperdonabile. Come Simone Weil. Come Hugo von Hofmannsthal. Come Gottfried Benn. Come Andrea Emo, il filosofo appartato, celato nella sua aristocrazia di pensiero e nell’orizzonte di un Dio negativo, il quale molto colpito dalla pubblicazione de Il flauto e il tappeto, e dal silenzio della critica su quel testo, le scrisse una bellissima lettera nel 1972 [31] da cui sarebbe germogliata una intensa amicizia nutrita di lunghissime telefonate, incontri a Roma e missive [32].

Imperdonabile come chiunque, non pago della facile serenità promessa dall’idea di una estetica del contingente, se ne sia rimasto in margine a fissare quel cielo turrito screziato di nubi e trascendenza.

LEGGI ANCHE  L'Altrove fantastorico di Pupi Avati

Nelle ‘desolate vastità di una angusta cella’ dentro cui lo rinchiusero a guerra finita i vincitori, Carl Schmitt si pose la domanda definitiva, quella domanda abissale capace di scorticare la pelle e ardere le carni. Chi sei tu? [33]. La risposta a quel quesito è terremoto che abbatte ogni certezza edificata sul tufo di fragili certezze. Ma Cristina Campo seppe rispondere a quella domanda, guardandosi dentro e guardando oltre, nella imperdonabilità di non essersi mai piegata a favore dello scorrere di corrente.

Nella devozione del suo cammino, riluce la verità di chiunque abbia destinato il proprio tempo materiale all’ascolto di quelle voci invisibili che si emanano come frequenze dolcissime ed eteree, i proscritti dalla cultura ufficiale, dall’accademia, dalla burocrazia di programmi e studi, ed è la verità della riduzione di ogni ontologia alla parola – perché noi non esistiamo oltre e fuori dal campo della nostra parola, dai segni che amorevolmente abbiamo cullato, allevato, lasciato specchiare nell’oceano di spuma bianchissima e cristallina, e in questa sensibilità, come ogni vero poeta, siamo imperdonabili, reclamando lo splendore del senso sovra-umano, dello spirito e del suo trionfo sulla materia.

Grazia

La separazione da tutto un mondo, di affetti, di realtà quotidiana, di osservazioni voraci, sublima nel freddo della contemplazione la piena consapevolezza di una ascesa allo stato di grazia. Scrive Cristina Campo a Mita 

il tempo passa e mi separa da tutto un lato del mondo – i contatti si fanno a poco a poco diversi – l’albero azzurro diventa una idea azzurra – non più il mio tronco, i miei petali.

[34]

E nella grazia della distanza, mai compiaciuta, ma scarna, essenziale, come un breviario da consultare nelle fredde giornate in preghiera su una panca di legno, si stagliano l’epistolario come genere letterario, ed esistenziale, e il ricorso a un lemma così peculiare, profondo e personale, quel Diario riferito al Diario Bizantino [35].

Di ogni sofferenza, di ogni calvario, di ogni ascesa silente sul Golgota, Cristina Campo ha vivificato l’essenza nutriente di un nettare celestino, di ogni solitudine e di ogni silenzio, di ogni veglia, di ogni notte febbricitante tra palpitazioni e gambe molli, e la camera scura, incurvata sotto il peso di un lumino arancio.

La poetica dell’addio. La bellezza dell’assenza, di una impermanenza come coscienza della natura transeunte dell’essere. Imperdonabile, per questo rigoglio di fiamma carnicina, per questa consapevolezza eterea che annuncia, di giorno in giorno, ciò che davvero è e che non vogliamo vedere. Ogni angolo, per Cristina Campo, è riflessione. Ogni nube, ogni nebbia, ogni dolore.

In una accorata lettera a Mita dell’8 marzo 1965, stremata dalla morte della madre e dal dover accudire il padre infermo che sarebbe scomparso di lì a pochi mesi, medita su quanto doloroso e penoso sia il pensiero di quella Chiesa, Sant’Anselmo, dentro cui si è insinuata la ‘lebbra’, il nuovo rito liturgico, che la priva dall’entrarvi dentro se non quando calano oscurità e silenzio [36].

Imperdonabilità, nella sua forma altera e bellissima, di una purezza abbacinante, cosmica, vorticante come scintillio dei sensi perduti, che fa risorgere ed emergere alla luce, la luce di una ritrovata vertigine, una fratellanza in spirito e leggiadria. Estasi della assenza, del non detto, dei sospiri, di una malinconia fissa verso quel profilo.

Devota come ramo
Curvato da molte nevi
Allegra come falò
Per colline d’oblio
Su acutissime làmine
In bianca maglia d’ortiche, ti insegnerò, mia anima, 
questo passo d’addio…

[37]

La grazia di Cristina Campo è una sinfonia di violini, pianoforte e solitudine. Monastica definizione di ogni canone supremo di estasi, capace di trasfigurare e leggere, oltre qualunque forma, il dolore supremo della perdita.

Il pudore poetico del lutto, di questo strazio che dilania l’anima e le carni, che lascia sgomenti a domandare, verso il cielo o verso gli abissi di lava e ghiaccio, il perché di una scomparsa. La grazia, nella risposta che giunge, la dolorosa risposta, nella perdita di madre e padre.

La deliziosa, ellittica e tragica circolarità redenta de La Tigre Assenza [38], in cui ogni verso si riassume, si piega e si ammira nel riflesso di ciò che va e di ciò che in esso torna, nelle figure archetipiche della bocca, della preghiera, del volto.

In particolare, il lucente nitore de La Tigre Assenza è stato letto, borgesianamente, come ‘infrazione continua alla funzione referenziale del linguaggio’ [39]. Il segno semantico non si connette al proprio, materico riferimento, ma ne svuota il cardine ontologico determinandone l’assenza e la distanza.

E in questa distanza prende corpo, assume forma, l’aristocrazia del contegno che impedisce alle scorie del tempo presente di inquinare l’anima. Anche davanti il dolore e le lacrime e il silenzio imposto da qualcosa che si spezza [40], come avvenuto nella morte, straziante, dei genitori.

La forza della grazia di Cristina Campo si sublima nella chiave della sprezzatura, bellezza fragrante che lei così definisce, 

sprezzatura è un ritmo morale, è la musica di una grazia interiore; è il tempo, vorrei dire, nel quale si manifesta la compiuta libertà di un destino,  inflessibilmente misurata, tuttavia, su un’ascesi coperta” proseguendo poco più oltre ‘prima d’ogni altra cosa sprezzatura è infatti una briosa, gentile impenetrabilità all’altrui violenza e bassezza, un’accettazione impassibile – che a occhi non avvertiti può apparire callosità – di situazioni  immodificabili che essa tranquillamente  «statuisce come non esistenti» (e in tal modo ineffabilmente modifica), ma attenzione. Non la si conserva né trasmette a lungo se non sia fondata, come un’entrata in religione, su un distacco quasi totale dai beni di questa terra, una costante disposizione a rinunciarvi se si posseggono, un’ovvia indifferenza alla morte, profonda riverenza per più altro che sé e per le forme impalpabili, ardimentose, indicibilmente preziose che quaggiù ne siano figura. La bellezza, innanzi tutto, interiore prima che visibile, l’animo grande che ne è radice e l’umor lieto. Ciò significa, tra l’altro, capacità di volare incontro alla critica con impeto sorridente, con la graziosa enfasi dell’incuranza di sé: un tratto che troviamo tanto nei precetti dell’educazione mistica quanto in quelli della scienza mondana.

[41]

Il cavaliere medievale. La dama. Il verso poetico di Simone Weil o la fiaba o l’avanzata di Lawrence d’Arabia nel cuore ocra del deserto o la passione di Cristo. O il poeta, par excellence.

La sprezzatura è atteggiamento colmo di grazia, calda, celestina, irrorata da un bagliore di luce che rende belli qualunque pensiero e qualunque forma. Ed è sublimazione di gioia contemplata, vivissima, nuda e pura, 

nella gioia noi ci muoviamo in un elemento che è del tutto fuori del tempo e del reale, con presenza perfettamente reale. Incandescenti, attraversiamo i muri.

[42]

Nella fiaba e nel simbolo, nel particolare e nel dettaglio, nella poesia e nella liturgia, trovano conforto le parole ultime, inespresse e proferite sotto voce, in silente beatitudine, tendenti come la corda tesa di un arco Zen alla bellezza di ogni grazia.

Intransigenza

Si può eleggere una bellezza senza tempo e senza nome ad altare votivo su cui lasciar impallidire la mediocre essenza di uno scorrere frenetico dipanato oltre quegli orti, nel serpente di caos e metallo di una città impazzita?

Si può coltivare, segretamente e intimamente, un amore, un amore così puro e assoluto e che ci dice e afferma per diversi rispetto la routine meccanizzata del mondo, un amore che va oltre quel volto iconograficamente perfetto che adorna, nella sua severa bellezza, nella sua gravitas solenne, le pagine dei libri dentro cui ci si immerge nel lavacro ultimo per attingerne bellezza, poesia ed emergerne nuovi a noi stessi?

Sì. Si può. A patto di esercitare ogni giorno, in ogni margine, in ogni cavità obliqua, l’intransigenza più assoluta. Nel suo senso, letterale, di atteggiamento di rigorosa determinazione. Si può soffrire, per empatia e per straordinaria sensibilità fin quasi a macinarsi le ossa nella adesione emotiva a un disegno metafisico di perfezione letteraria? 

Si può. Lo scrive Cristina Campo a Gianfranco Draghi in una lettera del 16 febbraio 1958, a proposito della lettura del Dr. Zivago, in un periodo complesso e doloroso della sua vita, squassata da una devastante febbre: 

è un libro che mi ha fatto soffrire terribilmente: tutte quelle cose che non si credono più possibili – tutti quei miracoli raccontati con tanta fede.

[43]

L’intransigenza è cura. Affetto. Devozione. Amore filiale per i particolari, per quanto di poco offuscato dal progresso e dalla modernità continua ad albergare in un cosmo fantastico di ricchezza interiore. La bellezza dei particolari [44] è rituale purificatore che eleva i lavacri e li lascia consistere di un senso ultimo.

Cristina Campo non si situò ‘fuori dalla realtà, ma contro l’aria del tempo’ [45]; contro quel vento immondo di coscienza sociale, di nettezza nei giudizi manichei dove il senza-Dio giudica il Dio, nel nome di una autoimposta logorrea che svilisce qualunque suprema elevazione, qualunque superiorità intellettuale.

Come nell’Amleto, con la virtù che in ginocchio chiede al vizio il permesso di rendergli del bene, Cristina Campo portò in spalla il peso di rivendicare il senso della gioia e della bellezza in un secolo che mito, fiaba, bellezza, poesia aveva relegato nello scantinato uggioso delle facezie.

Cristina Campo fu libera e bella come un silenzio. Bella come un silenzio [46], scrive in una lettera a Remo Fasani del 26 ottobre del 1953 riferendosi a una lettera in precedenza ricevuta da Fasani stesso. Chiunque riesca a raggiungere simili vette, simili vertigini di potenza espressiva e di empatica partecipazione alla cosmogonia dell’oltre, chiunque possa e sappia circondarsi della inarrivabile eccezionalità dell’ulteriore non è di questo mondo, ma dell’altro [47]

LEGGI ANCHE  L'Altrove fantastorico di Pupi Avati

Di quel mondo riflesso da uno specchio di cristallo e cielo dentro cui insiste un cerchio che ruota nella sua perfezione. L’amore per i particolari che altri non giudicherebbero, nella loro spicciola quotidianità di celebrità, degni della minima menzione, furono per la intransigenza emotiva e spirituale e culturale di Cristina Campo la profonda manifestazione di una bellezza senza tempo e senza scampo alcuno.

In una lettera a Mita, ricorda di un ricevimento al Quirinale a cui prese parte, assieme ad altre ‘tremila nullità’; figlia di un grande e stimato compositore, si era ritrovata invitata e invece di rendersi silente e piccina davanti alla istituzionalità mondana del ricevimento, davanti gli stucchi, gli arazzi e gli affreschi, davanti la pretesa regalità del sempre saggio Custode della Costituzione, annotò la sinuosa bellezza dei Corazzieri, di questi Cavalieri dall’alto pennacchio e fu colpita intimamente, fin quasi alla commozione, dal nobile gesto di uno di loro che si era chinato, cavallerescamente, ad allacciare la scarpetta di una invitata [48].

Ecco, queste sono le attenzioni che echeggiano in gloria e nello splendore di una bellezza dimenticata, di cui abbiamo bisogno per vivere, senza requie, senza riposo, nella ricerca del nostro senso e di una armonia celeste.

Quei versi dall’andatura sinuosa, armonica e circolare, dedicati al padre e alla madre, noi li vediamo e sentiamo ora rivolti a Cristina Campo, la cui figura, la cui essenza non è scomparsa in quel gennaio del 1977 ma è più presente che mai, e nella sua inesprimibile, imperdonabile grazia ci confida ancora oggi, a cento anni esatti dalla nascita, la sua gioia incandescente.

E come lei scrisse, con filiale devozione, pro patre et matre, così noi grati rispondiamo:

pro Cristina Campo.

NOTE:

[1] C. Leri, Questo strano lunghissimo viaggio – Cristina Campo tra dialogo epistolare e bellezza liturgica, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2018, pp. 110-111.

[2] La lettera è riprodotta in C. Campo, Se tu fossi qui – Lettere a Maria Zambrano (1961-1975), Milano, Archinto, 2009.

[3] C. Campo, Il Diario di Virginia Woolf, in Id., Sotto falso nome, Milano, Adelphi, 1998, p. 39.

[4] C. Campo, Un sigillo di fuoco arrivato attraverso i secoli, in Id, Sotto falso nome, cit., Milano, Adelphi, 1998, p. 109.

[5] M. Pieracci Harwell, Cristina Campo e i suoi amici, Città di Castello (PG), Edizioni Studium, 2005, p. 31.

[6] “Alessandro Spina” è nom de plume di Basili Shafik Khouzam, nato a Bengasi nel 1927, dirigente d’azienda e scrittore di rara raffinatezza, dai tratti enigmatici e impossibili da catalogare e rinchiudere nell’asfittica natura delle categorie e delle definizioni letterarie. La conoscenza con la Campo nacque dopo la lettura di questa del racconto Giugno ’40, apparso nel 1960 sulla rivista Paragone; vividamente colpita dal nitore del racconto, “una cosa di una qualità molto rara, come da tempo non mi accadeva di leggere”, la Campo scrisse a Spina nel febbraio 1961, scusandosi dell’ardire di scrivergli senza conoscerlo. Come rilevò Spina anni dopo, furono proprio la Campo e Zolla a renderlo pienamente consapevole del suo talento di scrittore, convincendolo ad avviarsi definitivamente alla letteratura.

[7] C. De Stefano, Belinda e il mostro – vita segreta di Cristina Campo, Milano, Adelphi, 2002, p. 103. Le struggenti lettere di Cristina Campo ad Alessandro Spina sono raccolte nel volume C. Campo, ‘Lettere a un amico lontano’, Milano, Scheiwiller, 1989.

[8] J. L. Borges, Otras Inquisiciones, Buenos Aires, Emecé, 1960, p. 160.

[9] C. De Stefano, Belinda e il Mostro, cit., p. 13. M. Pieracci Harwell, Nota biografica, in C. Campo, Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1987, p. 265.

[10] Sulla importanza e sulla genesi del nome ‘Cristina Campo’, rimangono ancora oggi immutabili e definitive le parole di Vittoria Guerrini eternate in una intervista radiofonica concessa pochi mesi prima della morte alla emittente Radiotelevisione Svizzera. Quel nome, nato quasi per gioco di infanzia, alla luce della tragica scomparsa della sua tanto amata e dolcissima amica Anna Cavalletti, uccisa in un bombardamento alleato di Firenze, divenne da quel momento non più pseudonimo, ma eteronimo in senso pessoiano, parte sostanziale di lei. La Cavalletti, oltre che intima amica e confidente, fu anche poetessa. Poetessa di talmente raro lirismo che la Campo decise di includerla nel progetto, poi non più realizzato, di una antologia con ottanta poetesse. Una parte dei meravigliosi diari della Cavalletti è stata pubblicata sotto il nome ‘L’esatta divisione dell’aria’ e a breve sarà ristampata dalle Edizioni Cenere, che peraltro proprio a partire dalla data del 29 aprile 2023, in coincidenza con l’anniversario del centesimo anno dalla nascita di Vittoria Guerrini, daranno vita a un corposo piano di pubblicazioni a tema Cristina Campo, con inediti e semi-inediti.

[11] C. De Stefano, Belinda e il mostro, cit., p. 95

[12] P. Citati, Così la sua mente senza strutture divorava il mondo intero, La Repubblica, 11 agosto 2002.

[13] C. Campo, Caro Bul – Lettere a Leone Traverso (1953-1967), Milano, Adelphi, 2007, p. 69.

[14] G. Ceronetti, Cristina Campo o della Perfezione, in C. Campo, Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1987, p. 277.

[15] C. Campo, In medio Coeli, in Id., Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1987, p. 17. E’ uno dei capitoletti che compongono la celebre, forse la più nota e letta, opera campiana Il flauto e il tappeto, originariamente edita da Rusconi nel 1971.

[16] C. Campo, Della Fiaba, in Id., Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1987, p. 29.

[17] M. Pieracci Harwell, Quando vedrai Cielo e Terra oscurarsi, tuffa le mani nell’acqua, in C. Campo, Il mio pensiero non vi lascia, Milano, Adelphi, 2011, p. 265.

[18] C. Campo, Della Fiaba, cit., p. 41.

[19] C. Campo, Ville Fiorentine, in Id., Sotto falso nome, Milano, Adelphi, 1998, p. 125.

[20] C. Campo, In medio Coeli, in Id., Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1987, pp. 19-20.

[21] F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 115.

[22] J. L. Borges, Le rovine circolari, in Id., Finzioni, Torino, Einaudi, 1955, p. 49.

[23] E. Cioran, Un apolide metafisico, Milano, Adelphi, 2004, pp. 44-45.

[24] C. Campo, Oltre il tempo, oltre un angolo, in Id., La Tigre Assenza, Milano, Adelphi, 1991, p. 37.

[25] G. Ceronetti, Cristina, in C. Campo, Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1987, xiv.

[26] G. Ceronetti, Cristina Campo o della Perfezione, cit., p. 277.

[27] M. Pieracci Harwell, Cristina Campo e i suoi amici, cit., p. 31.

[28] G. Benn, Pietra, verso, flauto, Milano, Adelphi, 1990, p. 71.

[29] C. Campo, Gli imperdonabili, in Id. Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1987, p. 73.

[30] C. Campo, Gli imperdonabili, cit. p. 74.

[31] Lettera del 7 febbraio 1972 di Andrea Emo a Cristina Campo, citata in C. De Stefano, Belinda e il Mostro, cit., p. 161, e riprodotta in A. Emo, Lettere a Cristina Campo. 1972-1976 In forma di parole, III, 2001, p. 19.

[32] È noto come la più titanica e maestosa opera di Emo siano i Quaderni di metafisica, composti da appunti, aforismi, riflessioni che Emo giornalmente redigeva su quaderni, con calligrafia ordinata e precisa, siglando ogni pagina. Nel corso della sua esistenza ne produsse ben trentottomila pagine, e nonostante le richieste di Ugo Spirito affinché ne prendesse in considerazione la pubblicazione, Emo declinò sempre gentilmente. Una delle salienti caratteristiche de I Quaderni, al di là degli aspetti prettamente filosofici e delle magistrali riflessioni sulla divinità e sul nulla, è l’aver lasciato fuori dall’orizzonte prospettico la contingenza, il quotidiano, espungendo qualunque nome a lui coevo e contemporaneo. Tutti a parte uno. E quell’uno è proprio quello di Cristina Campo. Come ricorda Alessandro Spina, Emo molto colpito dalla morte della sua amica scrisse in margine a uno dei quaderni ‘È morta, Cristina Campo è morta’. Una frase in apparenza laconica e telegrafica ma che pure, nella significatività di quel nome, unico tra migliaia di pagine che avrebbero visto luce editoriale solo dopo la morte di Emo per interessamento di Massimo Donà, Romano Gasparotti e Massimo Cacciari, rappresentava l’irruzione fiammeggiante, oltre il velo aristocratico di impermanenza e di impermeabilità delle pagine di Emo, della potenza artistica e umana della Campo. Il soliloquio che i Quaderni hanno rappresentato per un vibrante istante tornava alla dimensione intimamente dialettica del colloquio con Cristina Campo.

[33] C. Schmitt, Ex Captivitate Salus, Milano, Adelphi, 1987, p. 11.

[34] C. Campo, Lettere a Mita, Milano, Adelphi, 1999, p. 109.

[35] G. Scarca, Nell’oro e nell’azzurro. Poesia della liturgia in Cristina Campo, Milano, Ancora Editrice, 2010, pp. 158-159.

[36] C. Campo, Lettere a Mita, cit., p. 189.

[37] C. Campo, Devota come ramo, in Id., La tigre assenza, Milano, Adelphi, 1991, p. 29.

[38] C. Campo, La tigre assenza, in Id., La tigre assenza, Milano, Adelphi, 1991, p. 44.

[39] M. Morasso, In bianca maglia d’ortiche – per un ritratto di Cristina Campo, Genova, Marietti, 2010, P. 74.

[40] C. De Stefano, Belinda e il mostro, cit., p. 117.

[41] Entrambe le citazioni in C. Campo, Con lievi mani, in Id., Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1987, p. 100.

[42] C. Campo, Fiaba e mistero, in Id., Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1987, p. 143

[43] C. Campo, Il mio pensiero non vi lascia. Lettere a Gianfranco Draghi e ad altri amici del periodo fiorentino, Milano, Adelphi, 2011, p. 70.

[44] D. Vespier, Autoritratto della perfezione – per una lettura di Cristina Campo, cit. p. 66.

[45] C. Mezzasalma, Il ‘caso’ Cristina Campo tra poesia e ancoraggio alla fede, in AA. VV., Cristina Campo – la via dell’interiorità redenta, Panzano in Chianti (FI), Edizioni Feeria, 2012, p. 19.

[46] C. Campo, Un ramo già fiorito – Lettere a Remo Fasani, a cura di M. Pertile, Venezia, Marsilio, 2010, p. 75.

[47] “Due mondi – e io vengo dall’altro” è lo struggente verso che apre la poesia Diario Bizantino, C. Campo, Diario Bizantino, in Id., La Tigre Assenza, Milano, Adelphi, 1991, p. 45.

[48] C. Campo, Lettere a Mita, cit., p. 102.


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *