Origine e significato del Mâgên Dâwîd – Hildegard Lewy (parte II)

Seconda parte della nostra traduzione dello studio comparativo, finora inedito in italiano, sulle antiche religioni di Gerusalemme e di Mecca. A cura di Andrea Casella.

di Hildegard Lewy

«Archiv Orientàlnì», Praga, vol. 18, fasc. 3 (Nov. 1, 1950) pp. 330-365.
Traduzione di Andrea Casella. Segue dalla PARTE I

Il rapporto di Šalim con il Tempio sul Monte Morîịâ

Applicando al culto preisraelitico di Gerusalemme e al Tempio di Salomone le informazioni così messe insieme sul culto del pianeta Saturno, iniziamo richiamando l’attenzione su due significative caratteristiche esteriori del santuario del Monte Morîịâ. In I Re, VI, 20, è riportato che il Sancta Sanctorum misurava 20 cubiti tanto in lunghezza, quanto in larghezza e in altezza. Aveva perciò la stessa caratteristica forma a cubo che, a giudicare dal suo stesso nome “Cubo”, la Ka’ba di Mecca doveva aver avuto fin dal principio [1]. Un ulteriore dettaglio è rivelato dal passo del Cantico dei Cantici I, 5, dove una ragazza di campagna esclama: “Nera sono, ma bella, o figlie di Gerusalemme; come gli accampamenti di Kedar, come le tende di Salomone”. Nel passo della Cosmografia di ad-Dimišqî citato sopra, p. 339, le tende nere sono elencate come una delle caratteristiche tipiche dei templi di Saturno. Non è forse solo una coincidenza che la Ka’ba, oggi come nei primi secoli dell’Islam, sia coperta da un telo di stoffa nera [2].

Tornando ora alla dottrina dell’originaria religione di Gerusalemme, osserviamo in primo luogo che Šulmânu, il dio patrono della città, era venerato, proprio come l’assiro-babilonese Ninurta, insieme alla sua paredra divina; infatti, quando gli elenchi cuneiformi di dèi menzionano una dea Šulmânîtum che è definita come “Ištar di Gerusalemme”, non c’è dubbio, come ha messo in luce per primo J. Lewy [3], che si riferiscano alla sposa di Šulmânu. In mancanza di dati circa la natura di questa dea [4] è forse pertinente ricordare che immediatamente sotto il limite occidentale dell’area del tempio, c’è un pozzo, oggi noto come Ḥammâm aš-šifâ, “Il Bagno della Guarigione”, la cui acqua, come quella di Zemzem a Mecca, è amara e quasi imbevibile, ma che a detta dei Musulmani ha il potere di guarire dalle malattie [5]. Se ammettiamo, come proposto sopra [6], che l’effetto taumaturgico dell’acqua di Zemzem rappresenti il potere curativo della dea Gula, la “grande guaritrice” e sposa del pianeta Saturno, lo stesso effetto attribuito al pozzo di Gerusalemme dovrebbe indicare che, nel culto di Gerusalemme, la dea guaritrice avesse le stesse prerogative che aveva a Mecca e nei luoghi più antichi che erano sacri al pianeta Saturno. 

Molto più importanti dal punto di vista del presente discorso sono certe tradizioni che mettono in relazione i pozzi e i corsi d’acqua proprio con l’area del tempio. Nel Talmud di Gerusalemme leggiamo la seguente storia [7]: quando Davide stava scavando i canali per il tempio, penetrò fino alla profondità di 115 cubiti, ma non raggiunse le acque abissali (tehôm). Si imbatté infine in una pietra, che volle rimuovere, ma la pietra lo avvertì di non farlo, perché essa stava lì per coprire l’abisso. Quando, a dispetto di tale avvertimento, Davide sollevò la pietra, il tehôm risalì in superficie e minacciò di inondare la terra. Quindi si decise di incidere il Nome del Signore sulla pietra e di gettarla nelle acque tracimanti. Immediatamente l’alluvione si arrestò, ma le acque si abbassarono talmente tanto che la terra venne minacciata dalla siccità.

L’inizio di questa leggenda richiama vividamente un passo degli Annali di Aššûr-nâṣir-apli [Assurnasirpal n.d.r.], dove, descrivendo i preparativi per la costruzione del tempio di Ninurta a Kalḫu, il re assiro fa dire a sé stesso: “Ho scavato fino al livello delle acque, fino a una profondità di 120 strati di mattoni [8] sono arrivato. Il tempio di Ninurta, il mio Signore, vi ho fondato al centro” [9]. La ragione per cui Davide e Aššûr-nâṣir-apli avessero scavato fino al livello delle acque dell’abisso è alquanto chiarita dal fatto che all’interno della Ka’ba di Mecca c’è un pozzo sulla bocca del quale era posta, in età preislamica, la statua del dio Hubal [10]. Che ancora nel periodo islamico questo pozzo, oggi prosciugato, fosse comunicante con l’acqua del sottosuolo deriva da un’annotazione di al-Bîrûnî [11] secondo cui, al tempo del pellegrinaggio di ‘Arafa, esso era sempre pieno d’acqua, di modo che i pellegrini potevano dissetarsi [12]. È significativo che a Mecca e, a quanto pare, anche nel tempio di Ninurta a Kalḫu, il pozzo comunicante con le acque sotterranee fosse all’interno del santuario e non, come era usuale in altri antichi templi orientali, nel rispettivo cortile [13]. Perciò questa peculiarità suggerisce che si credeva esistesse una speciale relazione tra la divinità del santuario e le acque abissali, che gli Ebrei chiamavano tehôm. La natura di questa relazione è chiarita dalla summenzionata circostanza per cui la statua di Hubal era posizionata sulla bocca del pozzo; perché ciò indica che si credeva che il dio impedisse col suo corpo la risalita delle acque infere e il diluvio sulla terra.

C’è ora prova che questa stessa credenza fosse un tempo radicata a Gerusalemme. Nella leggenda talmudica testé citata, era una pietra, generalmente designata nella letteratura ebraica come Eben Šeṯîịâ, che tratteneva il tehôm entro i suoi confini [14]. Ora, secondo altri passi trovati nelle fonti post-bibliche, il Tempio di Salomone era costruito in modo tale che lo Eben Šeṯîịâ si trovasse al centro del Sancta Sanctorum [15], e sopra di esso stava l’Arca dell’Alleanza, il trono di Yahweh sulla terra. Quindi è evidente che, come nella Ka’ba Hubal stava sulla bocca del pozzo che metteva in comunicazione il santuario con le acque abissali, allo stesso modo nel Tempio di Gerusalemme Yahweh stava in trono sull’apertura dalla quale si credeva che le acque del tehôm avrebbero inondato la terra [16]. Tuttavia, prima che il compito di tenere sotto controllo le devastanti acque dell’abisso fosse attribuito a Yahweh, un altro dio sembra avesse avuto questa prerogativa a Gerusalemme: il dio rappresentato dallo Eben Šeṯîịâ

Che onori divini fossero effettivamente resi a questa pietra proprio dagli Ebrei risulta particolarmente chiaro dalla famosa notizia contenuta nell’Itinerarium Hierosolymitanum del Pellegrino di Bordeaux a proposito del “lapis pertusus, ad quem veniunt Judaei singulis annis et unguent eum et lamentant se cum gemitu…” [17]. Ulteriore prova in tal senso è data dal fatto che, come anche le pietre sacre degli Arabi pagani [18], sullo Eben Šeṯîịâ venisse cosparso sangue sacrificale [19] e incenso fosse bruciato su di esso [20]. Allo stesso modo è significativo, a dispetto dell’importanza che, a giudicare dalle tradizioni post-bibliche, la pietra sembra aver avuto nel rituale del Tempio di Salomone, che non ne sia fatta alcuna menzione nei passi biblici dedicati alla costruzione del santuario. È evidente che gli autori biblici considerassero lo Eben Šeṯîịâ un così grossolano residuo di paganesimo da rifiutarsi di darne notizia [21]

Ora è un fatto ben noto che tra i Semiti, e particolarmente fra gli antichi abitanti della penisola arabica, le pietre ricevessero spesso onori divini [22]. Il reale carattere di questo culto delle pietre è facilmente spiegato se si ricorda che esso era praticato dalle stesse popolazioni fra le quali ebbe origine l’adorazione degli astri [23], e in particolare dei sette pianeti. La connessione del culto delle stelle con la venerazione delle pietre è chiarita da un passo dell’opera di Sanconiatone-Filone di Biblo, dove si dice che i meteoriti, essendo considerati “stelle cadute dal cielo”, avevano un ruolo preminente nella religione dei Fenici. È importante notare che il meteorite a cui si riferisce l’autore fenicio si trovava ed era venerato a “Tiro, la sacra isola” [24]. Il nome di questo sacro meteorite di Tiro può essere desunto dal trattato concluso tra Aššûr-aḫ-idinna e Ba’al, re di Tiro [25]. Come d’uso in documenti di questo genere, il trattato termina con un elenco di dèi che ciascuna delle parti contraenti invoca per punire l’inadempiente ai termini concordati. Ora, il primo degli dèi presi a testimone dal re di Tiro è chiamato dBa-a-ti-ilâni.meš, un nome in cui Langdon [26] riconosce il semitico-occidentale Bêṯ-êl [27] ben conosciuto dalla Bibbia e dai teofori dell’occidente semitico [28]. Che questo dio di Tiro Bêṯ-êl sia effettivamente il sacro meteorite menzionato da Sanconiatone-Filone di Biblo deriva da un ulteriore riferimento presente nell’opera di questo autore, dove Βαιτύλια si intendono in generale “pietre ispirate” (λίϑοι ἐνψῦχοι) [29].

Per capire le piene implicazioni di questa definizione, richiamiamo l’attenzione su ciò che gli antichi adoratori delle stelle credevano sulla natura dei loro dèi. Poiché, come sarà mostrato altrove, queste idee sono rimaste sostanzialmente immutate dal periodo attestato dalle fonti cuneiformi fino al Medioevo, ricapitoliamo, per comodità, le informazioni provenienti da aš-Šahrastânî (Haarbrücker, op. cit., II, pp. 66 ss.) e ad-Dimišqî (op. cit., p. 47): Si riteneva che gli dèi planetari fossero di carattere spirituale (رﻮﺤﺍﻧﻭﻥ) [ruhanun n.d.r.] ma che avessero le proprie particolari dimore (هيكل) [haiâkil n.d.r.] o i propri particolari corpi (ﺑﻌﻦ) [abdân n.d.r.]. Questi haiâkil o abdân delle divinità planetarie sono le sette stelle erranti visibili nel cielo, e il rûḥ,o spirito, di ognuno di essi sta al proprio haikal come l’anima umana sta al corpo dell’uomo. Poiché il termine arabo haikal, “tempio”, “santuario”, reca con sé la stessa idea dell’ebraico bêṯ êl o dell’akkadico bît ili, comprendiamo che i meteoriti venerati dagli antichi Semiti erano concepiti come esseri divini della stessa natura dei pianeti: anch’essi consistevano in una dimora visibile, un bît o haikal, ispirata e abitata da un rûḥ, o anima. 

Queste deduzioni sono di particolare interesse per l’oggetto di questa discussione perché la più famosa tra le sacre pietre degli Arabi, la Ḥağar al-aswad della Ka’ba di Mecca, è effettivamente un meteorite [30]. Poiché, d’altro canto, questa Pietra Nera era adorata in un santuario dedicato al culto del “Pianeta Nero” Saturno [31], possiamo ritenere che un meteorite nero o una pietra nera somigliante a un meteorite fossero ritenuti un frammento del “Pianeta Nero”, cioè una parte del corpo di un grande dio che, pertanto, era meritevole di essere venerata al pari del pianeta stesso [32]. Così è evidente che il pozzo che connetteva il tempio con le acque infere poteva essere sigillato o con la statua del dio o con il meteorite nero; in ogni caso era il corpo del dio che si credeva si opponesse all’inondazione della terra da parte delle acque del sottosuolo. Ancora, potrebbe essere posta la domanda del perché assolvessero a questa funzione in alcuni casi una pietra nera e in altri un’immagine del dio. La risposta a questa domanda si può ricavare dai succitati trattati medievali che esponevano le opinioni degli adoratori degli astri riguardo alle loro divinità: nel loro credo, l’uomo può rivolgere preghiere e suppliche solo a un essere che sia visibile ai suoi occhi.

Dal momento che ogni pianeta ha periodi più o meno lunghi di occultazione, i fedeli avevano ritenuto necessario creare immagini e statue dei loro dèi ai quali poter rivolgere le loro preghiere in qualsiasi momento [33]. Tuttavia, se in sembianza di un meteorite nero un pezzo del corpo della divinità astrale era per i fedeli visibile tutto il tempo, la collocazione in un tempio di un idolo antropomorfo era ovviamente non necessaria. Sembrerebbe, quindi, che quando l’immagine di Hubal venne posta sopra il pozzo all’interno della Ka’ba, la “Pietra Nera” fosse temporaneamente nascosta agli occhi dei fedeli. La tradizione, effettivamente, conferma tale deduzione. È risaputo che negli anni della giovinezza di Muhammad la Ka’ba subì un restauro [34]. A giudicare dalle modalità seguite nella ricostruzione del tempio di Saturno a Kalḫu [35], ci si dovrebbe aspettare che anche questa ricostruzione fosse stata preceduta dalla ricerca del pozzo di collegamento tra il santuario e le acque abissali. Le nostre fonti, in effetti, sono a conoscenza di questa ricerca; si riporta infatti che ‘Abd al-Muṭṭalib, il nonno di Muhammad nella cui casa il futuro profeta crebbe, fece un sogno in cui gli venne rivelato il luogo a lungo dimenticato del pozzo di Zemzem [36]. La storia prosegue nel raccontare che ‘Abd al-Muṭṭalib, scavando nel posto che aveva visto in sogno, alla fine trovò il pozzo e dentro di esso la sacra Pietra Nera [37], che fu poi collocata da Muhammad nella sua sede attuale.

La somiglianza di questa storia con la leggenda talmudica del ritrovamento da parte di Davide dello Eben Šeṯîịâ durante lo scavo del pozzo, in preparazione della costruzione del tempio, è troppo impressionante per essere una semplice coincidenza. Dal momento che, inoltre, le nostre fonti riportano che la Pietra Nera “chiuse così bene l’apertura del pozzo di Zemzen” [38], è chiaro che deve esserci stato un tempo in cui la Ḥağar al-aswad sigillava il pozzo di Zemzem allo stesso modo di come lo Eben Šeṯîịâ chiudeva il pozzo posto sotto il Sancta Sanctorum nel Tempio di Salomone. 

Infine, comunque, forse in conseguenza di una delle catastrofi naturali così frequenti a Mecca, il sito del pozzo, e con esso la pietra nera, andarono perduti [39]. Divenne allora necessario costruire una statua che prendesse il posto della pietra come simbolo visibile del dio. A sua volta, quando la pietra venne recuperata da ‘Abd al-Muṭṭalib, la statua aveva ormai servito al suo scopo e poté essere rimossa. Non ci fu perciò alcuna rottura con l’antica religione di Mecca quando Muhammad si disfò della statua dopo che lui stesso ebbe collocato la Ḥağar al-aswad in un luogo dove fosse alla portata degli occhi e delle labbra dei fedeli. 

Per tornare ora allo Eben Šeṯîịâ del Tempio di Gerusalemme, le nostre fonti non lasciano dubbi che, giusto o sbagliato che sia, esso fosse considerato di origine cosmica. Infatti, noi troviamo ripetutamente riferimenti come questo: “Dio gettò una pietra nel tehôm, e su di essa fu fondato il mondo” [40]. Non abbiamo perciò alcuna ragione di dubitare che lo Eben Šeṯîịâ avesse a Gerusalemme la stessa funzione che rivestiva la Ḥaĝar al-aswad a Mecca.

Sulla base di queste conclusioni, perciò, siamo ora in grado di fornire almeno uno schema di quella parte dell’Epopea di Ninurta che manca nella versione cuneiforme esistente, ossia quella che si occupa del modo in cui Ninurta rivolse a suo favore la battaglia contro il diluvio [41]: egli dovrebbe aver conquistato la vittoria gettando un pezzo del proprio corpo nelle acque furiose, che furono così costrette a ritirarsi. 

Come detto sopra (p. 336), la vittoria di Ninurta costrinse le acque del diluvio a ritirarsi così in profondità che l’opposto flagello della siccità minacciò l’umanità. Si noterà che questo dettaglio dell’epica di Nippur ha un parallelo esatto con la succitata leggenda talmudica (sopra, p. 344), dove si riporta che quando Davide gettò nell’alluvione che si innalzava la pietra con su inciso il Sacro Nome, le acque si abbassarono così rapidamente che la terra incorse nella siccità. È in ulteriore armonia con le tradizioni di altre città sacre a Saturno quando le fonti ebraiche post-bibliche riportano che Gerusalemme fu la prima città ad essere stata creata e che venne costruita intorno al Sancta Sanctorum, al centro del quale era collocato lo Eben Šeṯîịâ [42]. Che a Gerusalemme, come anche a Nippur, Biblo [43] e Mecca [44] il dio patrono della città fosse ritenuto anche il suo fondatore si deduce con particolare chiarezza dal nome di Gerusalemme che, come detto sopra, significa “Creazione di Šalim”. 

Poiché la nostra precedente discussione ha mostrato che le leggende che circondano il Tempio di Salomone e il suo divino fondatore sono fondamentalmente identiche a quelle narrate in altri centri del culto di Saturno, sorge la questione se si possa trovare nella tradizione gerosolimitana qualche traccia del sacrificio del figlio che, mancante nel materiale di Nippur, sembra aver fatto parte dei culti di Biblo e Mecca. Rispetto a questo richiamiamo, certamente, la ben nota storia di Gen. XXII che racconta di come Abramo fosse stato chiamato ad offrire il suo figlio prediletto, Isacco, in sacrificio a Dio. Se è possibile dimostrare che il luogo dove questo sacrificio doveva essere compiuto era il Monte Morîịâ, il sito sacro a Šalim dove lo Eben Šeṯîịâ sbarrava il passaggio alle acque del diluvio, sarebbe allora chiaro che era Šalim a cui il sacrificio era votato. Per esserne certi, gli scrittori ebrei post-biblici davano per scontato che il Tempio di Salomone fosse stato eretto nel luogo dove Isacco stava per essere ucciso [45]; tuttavia, alcuni sapienti moderni hanno obiettato che in Gen. XXII, 2 la scena del sacrificio si svolge in אֶרֶץ הַמּׄרׅיׇּה mentre il monte del tempio è chiamato הַר־הַמּׄורׅיׇּה. Nel valutare questa apparente divergenza va ricordato che nelle antiche Siria e Palestina non di rado una regione portava lo stesso nome della montagna che ne costituisce la caratteristica topografica più evidente.

Un esempio pertinente di questa nomenclatura è fornito dalla Bibbia. In I Re, XVI, 24 si riporta che ‘Omri conquistò il Monte Šomrôn e costruì una città sui suoi pendii che ugualmente chiamò Šomrôn [46]. Che questo nome si applicasse anche al territorio circostante segue da passi come II Re, XVII, 26 e XXIII, 19, che parlano de “le città (‘ârê) di Šomrôn”, così implicando che il nome Šomrôn venisse usato in riferimento non solo alla montagna e alla città che portavano questo nome [47], ma anche ai villaggi circostanti. Siccome fonti cuneiformi e autori arabi medievali attestano l’abitudine di designare una città, il territorio circostante e la montagna principale della regione con un solo e unico nome, è chiaro che, almeno per quanto riguarda la Siria e la Palestina, questa nomenclatura fosse utilizzata attraverso i secoli. È perciò ragionevole concludere che ארץ המריה fosse la designazione della città-stato la cui più evidente caratteristica geografica era הר־המריה; in altre parole, ארץ המריה sembra essere il regno al quale la succitata lettera VAT 1646 si riferisce come mâtÚ-ru-sa-lim-ki, “il paese di Gerusalemme”.

La conclusione che il “paese di Morîịâ” fosse la regione circostante al Monte Morîịâ è confermata dal nome Morîịâ stesso. Come da lungo tempo riconosciuto dagli studiosi dell’Antico Testamento [48], questo nome deriva dalla radice ירה che, come detto sopra, costituisce il primo elemento del nome di Gerusalemme. Tuttavia, l’interpretazione di Morîịâ come מוׄרׅית + יׇהּ proposta da Grill nel suo sopracitato articolo è incompatibile con la tradizione che connette continuamente Gerusalemme con Šalim e non con Yahweh. A una spiegazione più sensata del nome si giunge se si ricorda che le parole ebraiche che terminano in una vocale I lunga possono formare due tipi di femminili; il primo con l’aggiunta del suffisso –t e il secondo con l’apposizione del suffisso –at e inserendo la “Gleitlaut” tra la î lunga e la a breve, così ottenendo un suffisso îịat che, dopo la riduzione della finale –t, appare in ebraico come יׇּה. Come esempio della ricorrenza simultanea di queste due forme femminili citiamo מוׄאׇבׅית e מואֲבׅיׇּה, “la donna moabita” [49]. Pertanto si può ben concludere che esistesse non solo una parola môrîṯ [50], “fondazione”, ma anche una forma morîịâ dallo stesso significato. In altre parole, Morîịâ sarebbe, all’incirca, un sinonimo di Šeṯîịâ, e allora alluderebbe alla sopradiscussa tradizione che definisce il monte del tempio e la città di Gerusalemme come il primo luogo ad essere stato fondato dal creatore del mondo. 

Se quindi la scena della storia riferita da Gen. XXII si svolse sulla cima del Monte Morîịâ, cioè, come abbiamo visto, in un sito sacro a Šalim, il pianeta Saturno, è chiaro che ivi, non meno che in altri centri del suo culto, si credeva che il Pianeta Nero chiedesse sacrifici dei figli ai suoi fedeli [51].

Poiché la nostra precedente discussione ha evidenziato che il Tempio di Salomone venne costruito su un sito dove, nella forma dello Eben Šeṯîịâ, una parte del corpo astrale di Saturno era presente e visibile, e dove sacrifici umani erano offerti a quel dio, e che, per di più, il santuario esibiva caratteristiche esteriori tipiche dei templi di Saturno, siamo ora in grado di rispondere alla domanda posta all’inizio di questo capitolo: era in onore di Šalim, il pianeta Saturno, che Davide e Salomone costruirono il tempio sul Monte Morîịâ, ed era, inoltre, il culto di questo dio che questi due principi cercarono di diffondere tra i loro sudditi. Se è così, è vieppiù manifesto che il simbolo della stella a sei punte, che comunemente prende il nome sia da Davide che da Salomone, fosse l’emblema della loro divinità prediletta, il pianeta Saturno [52]

NOTE:

[1] Oggi la Ka’ba misura 12 x 10 x 15 metri, il che significa che non è più un cubo in senso strettamente strereometrico; cfr. Snouck Hurgronje, Mekka, Haag, 1888, p. 2.

[2] Cfr. Keane, op. cit., pp. 26 e 158. 

[3] Vedi Revue de l’Histoire des Religions CX, 1934, p. 63, nota 86, dove si trovano anche riferimenti ai pertinenti elenchi di dèi. 

[4] Sarebbe azzardato identificare Šulmânîtu con la “Regina del Cielo” menzionata in Ger. XLIV, 17 ss. come una delle divinità autoctone adorate in Palestina. Riguardo a quest’ultima si dice che sia stata riverita “nelle città di Giuda e per le strade di Gerusalemme”, donde è logico assumere che, in contraddizione con la divina sposa di Šalim, ella non fosse una dea particolare del culto di Gerusalemme. 

[5] Vedi I. Benzinger in Baedeker’s Palastina und Syrien, Leipzig 1900, pp. 56 ss.; E. Pierotti, Jerusalem Explored, London 1864, pp. 63, 74, e passim; cfr. C. Schick, Die Stiftshütte, der Tempel in Jerusalem und der Tempelplatz der Jetztzeit, Berlin 1896, pp. 326 ss.

[6] Vedi sopra, nota 54, sub (1).

[7] Sanhedrin X, 29a; per ulteriori riferimenti vedi Ginzberg, The Legends of the Jews, vol. VI, Philadelphia 1928, p. 258, nota 70; cfr. dello stesso autore la parafrasi della leggenda ibidem, vol. IV, Philadelphia 1913, p. 96. 

[8] Secondo Unger (Reallexikon der Vorgeschichte, vol. XIV, Berlin 1929, P- 533b), i mattoni usati dagli Assiri del nono secolo avevano uno spessore di circa 12 -13 cm. 

[9] Vedi col. II, l. 132 degli Annali di Aššûr-naṣir-apli (E. A. W. Budge e L. W. King, Annals of the Kings of Assyria, vol. I, London 1902, p. 345). Per passi simili in altre iscrizioni dello stesso regnante vedi ibidem, pp. 209 ss., 11. 16-17, e cfr. p. 176, ll. 8-13; p. 186, ll. 15-18; e p. 220, ll. 17-18.

[10] Vedi Wellhausen, op. cit., p. 75; cfr. il passo degli Annali di Ṭabarî citato sopra, nota 50, primo paragrafo. 

[11] Kitâb al-âṯâr al-bâqiya, p. 334.

[12] Nella visione di al-Bîrûnî, questo era vero sia al tempo del paganesimo che nel periodo islamico. Tuttavia, dal momento che, dopo la riforma islamica del calendario, il pellegrinaggio mutava da stagione a stagione durante l’anno, la sua dichiarazione in realtà sembra applicarsi solo all’epoca preislamica quando aveva luogo sempre a inizio primavera, i.e., in un periodo in cui anche a Mecca l’acqua risulta più abbondante rispetto al resto dell’anno. 

[13] Com’era, e.g., il caso dell’Esagil, il famoso tempio di Marduk a Babilonia; vedi il resoconto di Aššûr-aḥ-idinna sulla ricostruzione di questo santuario (Meissner-Rost, Die Bauinschriften Asarhaddons, Beitrage zur Assyriologie III, 1898, p. 248, ll. 21-25) dove si dice che quando costruì la terrazza intorno al tempio, il re scavò fino al livello dell’acqua del sottosuolo. 

[14] Vedi, e.g., il Targum Pseudo-Yonathan su Es. XXVIII, 30: “… lo Eben Šeṯîịâ, con cui il Signore dell’Eternità, in principio, sigillò la bocca del grande tehôm.”. 

[15] Vedi Ginzberg, op. cit., vol. I, p. 12, e vol. V, p. 14, nota 39. Se lo Eben Šeṯîịâ, che sigillava il pozzo attraverso cui si riteneva che sgorgasse il tehôm, era al centro del Sancta Sanctorum, è chiaro che le acque del tehôm si trovavano immediatamente al di sotto di questa parte centrale del Tempio. Che questo fosse l’effettivo pensiero degli Ebrei deriva da un passo del Talmud Babilonese (Yoma, capitolo VIII, fol. 77b – 78a) che parla di un corso d’acqua sgorgato dal Sancta Sanctorum

[16] Vedi il trattato della Mishna, Yoma, capitolo V, 2, e cfr. Tosifta, III, 6.

[17] Cfr. Kittel, Studien zur hebräischen Archäologie und Religionsgeschichte, Leipzig 1908, p. 34, nota 3.

[18] Vedi Wellhausen, op. cit., p. 101.

[19] Vedi capitolo V, 3 del succitato trattato della Mishna Yoma, dove è descritto come, nel Giorno dell’Espiazione, il Sommo Sacerdote cospargesse la sacra pietra con il sangue di un toro che egli stesso aveva presentato al Signore come offerta per i peccati. 

[20] Vedi il succitato passo di Tosifta III, 6.

[21] Sullo sviluppo che le istituzioni del culto preisraelitico di Gerusalemme seguirono fino ad essere gradualmente assorbite dalla religione di Yahweh vedi di seguito, pp. 354 ss. 

[22] Wellhausen, senza avventurarsi in spiegazioni circa questo culto, enfatizzava (op. cit., pp. 101 ss.) che tra gli Arabi pagani la pietra “è più di un altare, rappresenta la divinità, sia essa maschile o femminile”. 

[23] Come esposto a p. 65 ss. dell’articolo citato sopra, nota 8, la religione delle stelle nacque tra i nomadi del deserto arabico che alla fine la diffusero in tutta la Mezzaluna Fertile. 

[24] Vedi Clemen, op. cit., p. 29, sub 31. 

[25] Il testo fu pubblicato da Langdon, Rev. D’Ass. XXVI, 1929, pp. 190 ss.; per la più recente traslitterazione, traduzione e discussione vedi Weidner, Archiv für Orientforschung VIII, 1932-3, pp. 29 ss., dove sono elencate anche le prime edizioni, traslitterazioni e traduzioni. 

[26] Loc. cit., p. 193, sub 6. 

[27] Che nella traslitterazione akkadica dBa-a-ti-ilâni.meš il plurale  ilâni.meš debba, con Langdon, loc. cit., essere interpretato come un pluralis maiestatis da rapportare con l’ebraico Elohîm deriva dal fatto che in molti casi, come Bît-ili-nûri (per i riferimenti vedi Langdon, loc. cit.) o Bît-ili-adir (vedi di seguito, nota 83), il plurale ilâni è sostituito dal singolare ili. L’uso di un pluralis maiestatis con riferimento a un grande dio è rintracciabile altrove nelle fonti akkadiche. Il titolo اﻟﻪ ٳﻵﻠﻬﺔ,“dio degli dèi”, che, secondo le nostre fonti medievali (vedi, e.g., ad-Dimišqî, op. cit., p. 47) era conferito dagli adoratori degli astri al loro dio supremo, appare nel cilindro di fondazione di Nabû-na’id dalla ziqqurat di Ur nella forma ilâni.meš ša ilâni.meš(vedi col. I, l. 29 e col. II, l. 5 del testo n. 5 traslitterato e tradotto da Langdon a pp. 250 ss. del suo sopracitato Neubabylonische Königsinschriften). Ricordiamo inoltre che, come evidenziato da Weissbach (Archiv für Orientforschung VII, 1931-2, p. 38, e Zeitschr. f. Ass. XLIV, 1938, pp. 165 ss.), la versione babilonese dell’Iscrizione b di Naqš-i-Rustam di Dario, come molte altre iscrizioni dello stesso regnante, esprimono il concetto di “un grande dio” nell’espressione “un grande dio è Ahura Mazda” con ilâni.meš rabû. L’uso del plurale è infatti ben in linea con la dottrina della religione planetaria secondo cui il dio supremo era, per usare le parole degli autori medievali ﻭاﺣﻌ ﻭﻛﺸﺮ (così ad-Dimišqî, op. cit., p. 44). Cosa si intenda con questa definizione fu spiegato dalla scrivente a p. 62 dell’articolo citato sopra, nota 8; ivi era mostrato che, quando i Babilonesi si rivolgevano al loro dio supremo, Marduk (i.e., il pianeta Giove) con i nomi di Sîn, Šamaš, e di tutti i famosi astri del cielo notturno, o quando Nabû-na’id invocava il suo supremo dio, il dio-Luna Sîn, come il signore del tempio di Marduk, l’Esagil, e del tempio di Nabû, l’Ezida, essi concepivano le divinità minori come manifestazioni del dio supremo. Manifestandosi in tutti i fenomeni del cielo notturno, questi dèi planetari che erano considerati dai loro seguaci come supremi dèi universali (viz., Sîn, Marduk e, come sarà mostrato in seguito, pp. 354 ss., Ninurta) erano, nei fatti, “uno e molti”. Alla luce di questa evidenza l’interpretazione dello spelling ilânimeš proposto da Hilprecht (apud Clay, Business Documents of Murashû Sons of Nippur, The Babilonian Expedition of the Univ. Of Pennsylvania, vol. X, Philadelphia 1904, pp.IX ss.) e, più recentemente, da Eissfeldt (Archiv für Religionswissenschaft XXVIII, 1930, p. 19, nota 1) può essere superata. 

[28] Vedi i nomi elencati da Cowley, Aramaic Papyri of the Fifth Century B.C., Oxford 1923, p. 279b; cfr. il significativo nome mBît-ili-a-di-i[r],“Bêt-êl è nero”, che ricorre in un testo akkadico da Nêrab (no. 16, rev., l. 1 delle Tablettes babyloniennes de Neirab, pubblicate da Dhorme, Rev. d’Ass. XXV, 1928, pp. 53 ff.).

[29] Vedi Clemen, op. cit., p. 27, sub 23. 

[30] Questa è l’opinione dei moderni studiosi; vedi F. A. Lucas, Meteorites, Meteors and Shooting Stars2, New York 1931, p. 7.

[31] Cfr. sopra, p. 339 con nota 48. 

[32] È probabile, d’altro canto, che un meteorite rosso o rossastro possa esser stato considerato un frammento del “Pianeta Rosso” Marte, e così via. Come accennato sopra, p. 339, gli antichi adoratori degli astri assegnavano un colore a ciascuno dei sette pianeti e consideravano questi colori un tratto indicativo della natura della rispettiva divinità astrale. 

[33] Dal punto di vista storico, la spiegazione dell’uso di idoli come simboli degli dèi sempre visibili da parte dei credenti è molto più solida rispetto a quella proposta dalla maggior parte degli autori musulmani (vedi sopra, nota 37) secondo cui gli idoli erano le statue di esseri umani divinizzati dopo la morte. Perché, come accennato sopra, nota 78, il culto degli astri ebbe origine tra i nomadi del deserto arabico che, viaggiando di notte, si orientavano con l’aiuto delle stelle. Finché condussero questo stile di vita, naturalmente non ebbero bisogno di alcuna rappresentazione terrena dei loro dèi; poiché le attività dei nomadi iniziano effettivamente dopo il tramonto, alcuni almeno dei corpi celesti del cielo notturno erano visibili e approcciabili ogni volta che il fedele voleva invocarli. Tuttavia, non appena i membri delle tribù si sedentarizzarono, iniziarono a dormire di notte e a lavorare di giorno, e cioè proprio quando le loro divinità erano invisibili. Perciò potrebbero aver avvertito l’urgenza di allestire immagini come simboli dei loro dèi per poterli avvicinare ogniqualvolta avessero avuto bisogno di divino conforto e divina ispirazione. 

[34] Vedi, e.g., Mas’ûdî, Les prairies d’or, vol. IV, pp. 125 ss.; secondo lo stesso autore (ibidem, IV, 154), Muhammad aveva 36 anni quando la ricostruzione fu completata. 

[35] Vedi sopra, pp. 344 ss. 

[36] Cfr. Huart, Geschichte der Araber, vol. I, Leipzig 1914, pp. 82 ss. 

[37] Su questo particolare vedi la biografia del profeta scritta da Khwândamîr citata da d’Herbelot, op. cit., II, p. 176, s.v. Hagiar Alassovad; cfr. anche vol. I, p. 432, s.v. Caaba. 

[38] Così d’Herbelot, loc. cit.; per quanto riguarda il contesto vedi nota appresso. 

[39] Khwândamîr apud d’Herbelot, loc. cit., riferisce la tradizione come segue: “I Giorhamidi [i.e., il leggendario clan che si dice avesse abitato Mecca prima dei Quraiš] che avevano la custodia di questo Tempio, furono costretti a cederne il possesso ai Banu Beker,… che erano diventati padroni della città con la forza delle armi. Amrou Ben Hareth, capo dei Giorhamidi, temendo che il tempio venisse profanato, staccò la pietra nera da dove era posta e la gettò nel pozzo di Zemzem, la cui bocca chiuse così bene che non fu trovata da nessuno dei loro nemici.” Pur chiarendo che, quando fu recuperata da ‘Abd al-Muṭṭalib, la Pietra Nera fu trovata sull’apertura del pozzo di Zemzem, è probabile che questa leggenda sia servita come spiegazione di questa sua posizione, che manifestamente non era più compresa dai Meccani del VI secolo della nostra era. A giudicare dall’analogia con il Tempio di Salomone, bisogna invece concludere che il pozzo di Zemzem con la Pietra Nera sulla sua sommità siano stati un tempo al centro del santuario a forma di cubo. Questa conclusione è ben in linea con il fatto che il pozzo di Zemzem quando fu dissotterrato da ‘Abd al-Muṭṭalib conteneva offerte votive come le due famose gazzelle d’oro e le armi preziose menzionate dalle fonti che abbiamo a disposizione; noi sappiamo, infatti, che nel periodo storico certi doni alla divinità venivano deposti nel pozzo dentro il santuario (cfr. Wellhausen, op. cit., p. 103). Se è così, si può presumere che l’antico santuario sia stato distrutto da una delle catastrofiche inondazioni (riportate dagli Arabi come Sail) che frequentemente si abbattevano sulla valle di Mecca. Questi violenti torrenti d’acqua non solo distruggono e portano via tutto ciò che incontrano sulla loro strada, ma lasciano dietro di sé anche uno strato di fango che potrebbe aver nascosto il pozzo sacro con sopra la Pietra Nera [sulla natura di queste alluvioni vedi Snouck Hurgronje, Mekka, Haag 1888, pp. 18 ss., e cfr. la descrizione di Keane citata sopra, p. 342, nota 54, sub (3)]. Forse il ricordo di una di queste inondazioni traspare dalla tradizione islamica secondo cui la Ka’ba scomparve durante il Diluvio. Secondo alcuni autori (vedi d’Herbelot, op. cit., I, p. 432, s.v. Caaba) essa fu distrutta dal diluvio; secondo altri (vedi Cronache di Abu-Jafar  Mohammed Tabari, tradotto da Louis Dubeux, vol. I, Paris 1836, p. 180) essa ascese al Paradiso. Cfr. Mas’ûdî, Les prairies d’or, III, p. 296, che descrive il sito del tempio dopo la distruzione come una distesa di sabbia. 

[40] Per i riferimenti vedi Ginzberg, op. cit., V, p. 14, nota 39.

[41] A giudicare dalla frammentaria tavoletta AO.4135 (pubblicata in facsimile, traslitterazione e traduzione di Thureau-Dangin, Rev. D’Ass. XI, 1914, pp. 82 ss.; cfr. Geller, op. cit., pp. 314 ss.), l’unica parte dell’epopea che tratta della battaglia vera e propria, il primo scontro non sembra essere stato favorevole a Ninurta. 

[42] Per riferimenti vedi Ginzberg, op. cit., vol. V, p. 14, nota 39. 

[43] Vedi sopra, p. 338.

[44] Vedi sopra, p. 343, con nota 55. 

[45] Vedi Ginzberg, op. cit., vol I, p. 285; per i riferimenti vedi ibidem, vol. V, p. 253, nota 249.

[46] Le “città di Šomrôn” sono menzionate anche in Ezra IV, 10 (così secondo Torrey, Ezra Studies, Chicago 1910, p. 186, nota s, e Bauer e Leander, Grammatik des Biblisch-Aramäischen, Halle 1927, p. 313, sub g).

[47] Dalla letteratura cuneiforme citiamo in particolare la città-stato di Iblâ alla quale Sargon di Akkad si rivolge nel seguente ben noto passo: “Sargon si è prostrato a Tuttul innanzi a Dagon; a seguito della sua preghiera Dagon gli ha consegnato la terra superiore: Mâri, Jarmûti, Iblâ, fino alla foresta di cedri e alle montagne argentee” (il pertinente passo ricorre nell’iscrizione pubblicata da Poebel, Historical and Grammatical Texts, Philadelphia 1914, n. 34, col. 5 e 6). Come ripetutamente affermato dai moderni autori (vedi, e. g., Landsberger, Über den Wert künftiger Ausgrabungen in der Türkei, Belleten 10, 1939, p. 223, sub 25), questa città-stato di Iblâ si trovava nelle vicinanze della città di Ursu alla quale Gudea, nella sua cosiddetta Statua B (col. V, ll. 53 ss.) si riferisce come “la città di Ursu nella montagna di  lblâ” (la controversa questione dell’esatto sito di Ursu e Iblâ è stata recentemente discussa da J.-R. Kupper, Rev. d’Ass. XLIII, 1949, pp. 79 ss.). Numerosi esempi pertinenti sono forniti da ad-Dimisqî: Mâridîn, secondo lui (op. cit., p. 191), non era solo il nome della ben nota città nel distretto di Diyâr-Bekr, ma anche la denominazione del paese circostante, come anche la montagna sulle cui pendici la città era costruita. La città di Şafad, secondo lo stesso autore (op. cit., p. 210), era situata nel “paese di Garmaq”, un distretto che chiaramente prendeva il nome dal Gabal Garmaq che sovrasta Şafad (cfr. I. Benzinger, op. cit., p. 286). Parimenti, nella regione di Şafad, ad-Dimisqî menziona (op. cit., p. 211) la montagna di Baqî’at con gli omonimi città e distretto. 

[48] Vedi, e.g., Julius Grill, Zeitschr. für die alttestamentliche Wissenschaft, IV, 1884, p. 145.

[49] Bauer e Leander, Historische Grammatik der Hebräischen Sprache, Halle 1922, p. 502, citano come ulteriore esempio taḫtît e taḫtîiâ, “amante”. 

[50] Sulle forme femminili col maqtil delle tertiae י vedi Brockelmann, Grundriss I, p. 381, par. 200, sub f. 

[51] Se combinata con il principio evidenziato sopra, pp. 332-334, in base al quale colui che volesse prendere possesso di un certo paese doveva rendere omaggio al suo dio tutelare, questa evidenza spiega il significato dell’episodio riferito in Gen. XXII: Abramo, immigrato da Ḥarrân, voleva prendere possesso per sé e per i suoi discendenti di un paese il cui divino patrono e reggitore era il pianeta Saturno. Quindi egli doveva provare la sua devozione a questo dio eseguendo il rituale che gli si conveniva, consistente nel sacrificio del proprio figlio. 

[52] Queste conclusioni spiegano allo stesso tempo le popolari leggende arabe sul “sigillo di Salomone”. Come ben noto, gli Arabi credono che la stella a sei punte abbia dato a Salomone il dominio non solo su tutta la terra, ma anche su tutti gli spiriti, buoni e cattivi. C’è per esempio la storia, conservata nelle Mille e una notte, che parla di uno spirito che, ribellatosi a re Salomone, suo signore, venne imprigionato dal re in una bottiglia. Il contenitore, che infine fu ritrovato da un pescatore nella propria rete, era sigillato da un tappo di piombo recante il “sigillo del nostro signore, Salomone”. È facile notare che, come Ninurta-Šulmânu stesso confinò gli spiriti ostili del diluvio in un pozzo che fu sigillato da una pietra, così Salomone, tramite l’emblema della stella a sei punte di Ninurta, fu in grado di rinchiudere uno spirito ribelle dentro una bottiglia. L’idea dietro questo parallelismo è ovvia: affidando a Salomone l’anello con il suo emblema, si credeva che il dio avesse delegato almeno parte del suo potere al re che aveva scelto per governare in suo nome sugli abitanti della terra. Non è impossibile che fosse stato questo parallelismo tra il grande dio, Šulmânu o Šalmân, e l’omonimo re, che spinse gli Arabi a trasformare il nome biblico Šelômô(n) in quello che appare un diminutivo dal significato di “piccolo Šalmân”, essendo implicito che il “grande Šalmân” era il dio che aveva scelto re Salomone come governatore del mondo. (Per un tentativo di spiegazione della forma araba del nome Salomone su una base puramente linguistica vedi Brockelmann, Grundriss I, p. 256). 


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