Origine e significato del Mâgên Dâwîd — Hildegard Lewy (parte III)

I risultati raggiunti nel precedente capitolo sollevano la questione di come il simbolo del dio planetario Saturno venne infine a caratterizzare la religione di Yahweh. In altre parole, dobbiamo provare ad analizzare le idee che hanno reso possibile per gli Ebrei assimilare l’antica religione astrale di Gerusalemme alla loro propria dottrina a tal punto da far dimenticare ogni distinzione tra le due. La risposta a questa domanda è suggerita da un inno a Ninurta [1], il quale chiarisce che la religione di quel dio apparteneva a quegli antichi culti orientali che erano capaci di assorbire la fede in ogni fenomeno della natura e del cielo senza violare il principio dello stretto monoteismo. In quest’inno leggiamo i seguenti versi:

10 O Signore, la Tua faccia è il cielo; l’ornamento della Tua testa è il dio […].
11 I Tuoi due occhi, o Signore, sono gli dei Enlil e [Ninlil].
12 Le palpebre [2] dei Tuoi occhi sono Gula (e) Bêlit-il[i].
13 Il bianco [3] dei Tuoi occhi, o Signore, sono gli (de)i gemelli [4] Sîn [e Nergal].
14 Le ciglia dei Tuoi occhi sono i raggi del Dio Sole, i ra[ggi di…].
15 Il Tuo mento, o Signore, è l’astro di Ištar (i.e., il pianeta Venere).
16 Gli dei Anum e Antum sono le Tue due labbra; il Tuo comando [essi pronunciano].
17 La Tua lingua è il dio Pabilsag che, al di sopra [e al di sotto…].
18 Le Tue gengive, o Signore, sono la circonferenza del cielo (e della) terra, la dimora del dio […].
19 I Tuoi denti sono i Sette Dei [le Pleiadi; ndt], coloro che rovesciano i mal[vagi].
20 Le Tue tempie, o Signore, solo la levata delle stelle, il tramonto [5] [delle stelle].
21 Le Tue orecchie sono gli dei Ea (e) Damkina, la principessa [6] delle profondità.
22 La Tua testa è Adad, che […] cielo e terra come… 
23 La Tua fronte è Šala, l’amata mo[glie], che guarisce […].
24 Il Tuo collo è Marduk, il giudice del cielo [e della terra], il diluvio […].
25 La Tua gola è Ṣarpanîtum… 

[7]

Si noterà che qui i grandi dei del pantheon assiro-babilonese — divinità astrali come Sîn, Šamaš e Ištar, non meno degli dei dell’atmosfera e della fertilità come Adad e Dagon [8] — sono rappresentati come parti del corpo di Ninurta. Apprendiamo così che i fedeli del pianeta Saturno concepivano il loro dio come incarnazione dell’intero universo, immaginando i vari astri deificati e i fenomeni naturali come membra di questo corpo divino e, perciò, come esecutori di un’unica volontà divina [9].

Quindi, gli Ebrei che, dopo la conquista di Gerusalemme da parte di Davide, si stabilirono nella città santa di Saturno, non ebbero difficoltà ad incorporare il loro dio nazionale nel culto praticato nella loro nuova capitale: come l’autore del nostro inno VAT 9739 vide (in accordo al verso 24) in Marduk, il dio nazionale babilonese, il collo di Ninurta [10], essi poterono interpretare Yahweh come una certa parte del corpo di Šulmânu, la controparte gerosolimitana di Ninurta. 

 Ninurta con le sue folgori in pugno. Rilievo assiro proveniente dal tempio di Ninurta a Kalhu

L’idea che le divinità minori fossero parti del corpo del dio supremo, e quindi esecutori della sua volontà, reca con sé la credenza in un supremo dio universale. Infatti, se nel nostro inno a Ninurta VAT 9739, Marduk, il divino signore di Babilonia, Enlil e Ninlil, i patroni di Nippur, Sîn, il dio tutelare di Ur, Ḥarrân in Mesopotamia, e Têmâ in Arabia, Šamaš, il protettore di Sippar e Larsa nella Babilonia, e di Eliopoli-Ba’ala-bakka e di altre città della Siria, si credeva fossero gli esecutori delle decisioni di Ninurta, è chiaro che questi fosse il supremo reggente di tutte queste località, e di conseguenza l’universale dio supremo. Che questa fosse effettivamente l’idea corrente nell’antica Gerusalemme deriva da Deut. XXXII, 8 ss., dove leggiamo: “Quando l’Altissimo (êl ‘eliôn) [11] assegnò le nazioni (lett. ‘fece sì che le nazioni fossero date in eredità’), quando Egli separò i figli degli uomini, stabilendo i regni delle genti secondo il numero delle divinità (in accordo alla Septuaginta che, leggendo בני אל anziché כני ישראל , traduce κατά ἀριϑμόν ἀγγέλων ϑεοῦ ‘secondo il numero degli angeli’), allora il suo popolo divenne la parte di Yahweh…”. Qui viene dato per scontato che il dio supremo, êl ‘eliôn, assegnò le varie nazioni agli “angeli”, o divinità inferiori, uno dei quali era Yahweh, il dio nazionale degli Ebrei. Mentre alcuni moderni commentatori datano questa subordinazione di Yahweh a êl ‘eliôn all’inizio del periodo post-esilico [12], Nyberg sostiene che ciò riflette il modo di ragionare degli Ebrei al tempo della loro immigrazione in Palestina [13]. Tuttavia, l’idea espressa nel passo citato deve essere stata corrente fra gli Israeliti fino a che, sotto Saul, Davide e Salomone, lo stato giudaico non divenne, per la prima volta, una potente unità politica; infatti, la piccola e politicamente insignificante nazione della quale Saul divenne il primo re non poteva evitare di riconoscere che le divinità nazionali dei suoi più potenti vicini fossero più grandi del loro dio nazionale. Questa conclusione era tanto più ovvia, perché, in tutto il Vicino Oriente antico, si riteneva che quando un popolo stendeva l’influenza sul mondo civilizzato, il suo dio nazionale assumeva il dominio su tutti gli altri dei [14]

Allo stesso modo sembra che, dopo che Israele divenne una delle nazioni leader della parte occidentale della Mezzaluna Fertile, l’orgoglio nazionale degli Ebrei fosse diventato insofferente alla subordinazione di Yahweh a un’altra divinità. Che ciò fosse realmente così è dimostrato dai versetti di I Cronache, XXI, 16 ss. (cfr. II Samuele, XXIV, 16 ss.) dove si riporta come Davide vide, sulla cima della montagna che sarebbe diventata il sito del Tempio di Salomone, un angelo o messaggero di Yahweh, che stava ritto tra il cielo e la terra, minacciando con la sua spada Gerusalemme. Non possono esservi dubbi che il dio che, in veste qui di esecutore della volontà di Yahweh, si rivelò sulla cima del Monte Morîịâ, fosse Šalim, il divino signore e abitatore della montagna. Infatti, passi biblici e cuneiformi rendono chiaro che, nella credenza degli antichi, una teofania poteva aver luogo soltanto entro un temenos consacrato e abitato dal dio che decideva di manifestarsi a un mortale. Come esempio pertinente citiamo la ben nota leggenda del sogno di Giacobbe a Bêṯ-êl, dove si dice che il patriarca si fosse risvegliato dicendo (Gen. XXVIII, 16): “Certamente il Signore è in questo luogo ed io non lo sapevo!”. Un ancor più stretto parallelo con la nostra storia viene fornito da Giosuè, V, 13 – 15, dove un angelo, descritto come “il capo delle milizie del Signore”, si dice fosse apparso a Giosuè nelle vicinanze di Gerico. La sacralità del luogo nel quale avvenne questa apparizione è sottolineata dal comando impartito a Giosuè: “Togliti i sandali che hai ai piedi, perché la terra che calpesti è sacra!”. Benché la scena si interrompa bruscamente, possiamo supporre che l’angelo guerriero incontrato da Giosuè presso Gerico fosse il dio patrono di tale località, il quale accordò agli Israeliti in avvicinamento il dominio sulla sua città sacra [15]. Dal punto di vista del nostro discorso è di particolare interesse notare che il redattore di questo episodio — che chiaramente ne espunse il momento culminante — trasformò il dio locale di Gerico in un “capo delle milizie del Signore”, il che vuol dire in un esecutore delle volontà di Yahweh, allo stesso modo di come i compilatori di II Sam. XXIV, 16 ss. e I Cr., XXI, 16 ss., qualificavano il divo signore del Monte Morîịâ come un messaggero di Yahweh. Comprendiamo, quindi, che nella visione di questi antichi teologi Yahweh aveva assunto il ruolo che prima era stato di Šalim-êl ‘eliôn: Yahweh era ora concepito come il dio supremo, mentre gli altri dei erano semplici annunciatori delle sue decisioni. 

Il capo delle milizie del Signore appare a Giosuè. Mosaico di Santa Maria Maggiore, Roma

Una fase ancora successiva dello sviluppo delle idee intorno a Šalim e Yahweh è rivelata dal versetto II Cr., III, 1 secondo il quale Salomone costruì il Tempio di Yahweh “a Gerusalemme, sul Monte Morîịâ, dove Yahweh era apparso a Davide, suo padre”. In questo caso, infatti, l’essere divino incontrato da Davide nella sua visione sul Monte Morîịâ non è definito né come messaggero di Šalim, né di Yahweh, ma direttamente come Yahweh. In altre parole, al tempo in cui questo passo fu scritto Šalim si identificava con Yahweh. Tuttavia, per quanto strana possa sembrare a prima vista, questa identificazione non privava il divino signore di Gerusalemme di nessuno dei tratti caratteristici di questa divinità planetaria. Prova di questo fatto è contenuta, in primo luogo, nella Bibbia stessa. Dopo una breve eclissi durante la quale fu rimpiazzato dal nome “Città dei Gebusei”, il riconoscibile nome Gerusalemme, il cui significato doveva essere compreso da chiunque avesse familiarità con il nome divino Šalim, rimase d’uso corrente nei secoli. A giudicare dalla sua ricorrenza in Gen. XXII, 2, nel succitato passo del Libro delle Cronache, e nelle fonti ebraiche post-bibliche, lo stesso è vero per il nome Morîịâ che, come abbiamo visto, allo stesso modo trae origine dalle tradizioni locali intorno a Šalim. Prove extra-bibliche puntano nella stessa direzione. Lo Eben Šeṯîịâ col suo ciclo di leggende non avrebbe potuto avere un ruolo così importante nella tradizione ebraica medievale se non avesse figurato nel rituale del Tempio di Gerusalemme per tutta la durata della sua esistenza. Non sorprende perciò che, a dispetto della loro avversione nei confronti della rappresentazione della divinità, i fedeli di Yahweh si servissero della stella a sei punte, il simbolo del Pianeta Nero, come emblema della loro fede [16]. Infatti, nel Medioevo, gli Ebrei erano conosciuti come il “popolo di Saturno” da tutti coloro che credevano nell’influenza dei pianeti sulla vita terrestre [17]. In quale misura l’attribuzione degli Ebrei al pianeta Saturno fosse riconosciuta in tutto il Vicino Oriente risulta meglio dalla storia dell’Islam primitivo. 


È un ben noto fatto che, nella Sura CVI, 3, Muhammad esorti i suoi familiari, i Quraiš, ad adorare ﺭﺐ ﻫﺰ ﺍ ﺍﻠﺒﻴﺖ “il Signore di questa casa”, che significa il dio della Ka’ba. Che, contrariamente all’assunto di Wellhausen [18], questa esortazione non fosse una vuota frase destinata a rendere la “nuova” religione accettabile per il popolo di Mecca deriva non solo dalla già discussa circostanza per cui le caratteristiche essenziali del rituale meccano, compreso il culto della Pietra Nera, vennero assorbite dall’Islam, ma anche dall’assai dibattuto versetto, Sura XXIV, 35, dove Allah è descritto come una stella e, con un consueto epiteto del Ninurta assiro-babilonese, come “la luce dei cieli [19] e della terra”. Come poi, secondo gli interrogativi degli storici moderni [20], Muhammad poté identificare allo stesso tempo il suo dio con il dio degli Ebrei, il dio di Abramo e di Salomone che, come è stato sottolineato spesso, sono rappresentati dai seguaci di Muhammad come perfetti musulmani, la nostra precedente analisi delle prime religioni di Gerusalemme e Mecca si occupa di rispondere a questa domanda. 

È stato osservato sopra che, fino al tempo in cui la Pietra Nera venne recuperata dal nonno di Muhammad, ‘Abd al-Muṭṭalib, una statua del pianeta Saturno prese il posto di essa come simbolo visibile del dio planetario al quale la Ka’ba era dedicata. Il ritrovamento della Pietra mise a confronto la comunità con il problema della restaurazione del rituale della Ka’ba così come praticato nei tempi antichi, prima della scomparsa della Pietra Nera e del rimpiazzo di essa con la statua. Ora, un rituale viziato o incompleto non poteva, nella credenza degli antichi Semiti, fornire alla congregazione la guida morale di cui aveva bisogno per vivere secondo le esigenze della sua religione; l’errata esecuzione del rituale era quindi destinata a suscitare la collera della divinità che, a sua volta, significava punizione e catastrofe per i fedeli. Quindi non sorprende che la questione circa l’autentico rituale della Ka’ba preoccupasse profondamente una famiglia tanto religiosa e devota al dio di Mecca com’era quella di ‘Abd al-Muṭṭalib [21]. La letteratura cuneiforme offre un esempio che illustra vividamente la situazione del pio seguace di una divinità planetaria che desiderava ricostruire un santuario il cui rituale era andato perduto da secoli. Nella sua iscrizione YBC.2182 [22], Nabû-na’id, il re di Babilonia, descrive come, dietro comando del dio-Luna, avesse pianificato di restaurare la carica di una sacerdotessa-entu a Ur insieme al santuario nel quale il rituale connesso con questa carica soleva essere celebrato nei tempi antichi. Tuttavia, da secoli questo rituale era stato dimenticato; perciò il re ordinò di ricercare i documenti antichi contenenti almeno un’indicazione di quello che doveva essere fornito alla sacerdotessa e alla sua sacra residenza. Dopo una ricerca durata almeno otto anni [23], la necessaria informazione venne trovata in documenti emergenti da scavi effettuati a Ur. Nel frattempo, tuttavia, il re aveva trovato un altro modo per recuperare i dettagli del perduto rituale del culto del dio-Luna; egli si era infatti rivolto a Ḥarrân e a Têmâ, cioè ai due altri centri del culto della Luna, dove egli poté sperare di ottenere dal clero locale pertinenti tradizioni e materiali non disponibili a Babilonia [24]

Nabû-na’id non fu l’unico adoratore degli astri che tentò di recuperare il perduto rituale di una città santa consultando il clero degli altri centri dove il medesimo culto era praticato. Ciò emerge da un colofone del testo cuneiforme AO.6451 [25]. Dopo aver caratterizzato il testo come un sommario dei riti sacri che dovevano essere eseguiti nel Tempio Maggiore di Uruk e delle prerogative delle diverse classi di sacerdoti di alta e bassa carica, il colofone riporta che le tavolette originali contenenti queste istruzioni furono “portate via da Uruk come bottino” da Nabû-aplu-uṣur, il re del Paese del Mare. Il testo poi continua: “Kidin-Ani, un uomo di Uruk, il sacerdote-mašmaš di Anu e Antu [i.e. delle due principali divinità venerate a Uruk], discendente di Ekur-zakir, il sacerdote-urigallu del Tempio Maggiore, ha studiato queste tavolette nel paese di Elam, le ha ricopiate sotto il regno dei re Seleuco e Antioco, e le ha portate a Uruk”. Apprendiamo così che il rituale del santuario principale di Uruk era andato perduto quando Nabû-aplu-uṣur, il primo re della dinastia neo-babilonese, saccheggiò la biblioteca del tempio [26]. Poiché era ben noto che Susa, la capitale dell’Elam, era la residenza di una dea Ištar di natura molto simile alla divina signora di Uruk [27], un sacerdote si recò da questa città fino a Susa e lì ricopiò le tavolette registrando il rituale comune ai due santuari. 

Mentre nel caso di Muhammad e dei suoi contemporanei meccani una ricerca degli antichi registri e documenti sepolti nelle fondamenta del tempio era probabilmente non così promettente come lo era in un edificio di culto babilonese [28], il metodo di recupero del perduto rituale consultando il clero di una città che riveriva un dio di carattere identico a quello del divino signore della Ka’ba era invece loro possibile così come lo era stato, secoli addietro, per la gente di Ur e Uruk. Questa città era, certo, Gerusalemme, e le autorità ebraiche della tradizione erano le persone adatte da consultare circa il rituale della loro città santa. Che la stretta relazione esistente tra i culti di Mecca e Gerusalemme fosse ben nota ai primi Musulmani, deriva da molte indicazioni contenute nelle nostre fonti. Menzioniamo in primo luogo la credenza secondo cui, nel Giorno del Giudizio, la Pietra Nera di Mecca verrà a congiungersi, in corteo nuziale, al Ṣaḫra, la pietra di Gerusalemme, sulla quale l’Altissimo sarà seduto [29]. Nonostante, come ben noto, i Musulmani confondano l’enorme Ṣaḫra con lo Eben Šeṯîịâ [30], la tradizione rende chiaro come essi fossero perfettamente consapevoli dell’identità delle funzioni della sacre pietre di Mecca e Gerusalemme. Allo stesso modo è pertinente ricordare che, prima di designare, nel secondo anno dopo l’Egira, la Ka’ba come qibla per tutti i Musulmani, Muhammad aveva ordinato ai suoi seguaci di pregare con la faccia rivolta in direzione della sacra roccia di Gerusalemme [31]. Il significato di questa prescrizione diventa evidente se si tiene a mente che la qibla deriva dalla credenza degli adoratori degli astri secondo cui l’uomo può rivolgere le sue preghiere solo a qualcosa che sia visibile ai suoi occhi; questa credenza rende infatti ovvio che, nel pregare una divinità astrale, il fedele doveva volgere gli occhi all’astro, o, in sua assenza, alla pietra o alla statua che lo rappresentava sulla terra [32]. Se, tuttavia, egli non fosse stato presente nel centro dove una pietra sacra, assunta a parte del corpo della divinità astrale, fosse stata visibile alla congregazione, egli avrebbe rivolto gli occhi in direzione di questo santuario, nella supposizione che, avendo incontrato e osservato il corpo del dio in occasione del pellegrinaggio annuale, egli avrebbe potuto visualizzarlo, e così rivolgervi la sua preghiera anche da un punto o una località distanti. Giungiamo perciò alla conclusione che Muhammad spinse i suoi seguaci a volgersi in preghiera verso la sacra roccia di Gerusalemme perché sapeva benissimo che questa roccia rappresentava il suo dio. È nello stesso senso che dobbiamo interpretare l’atto di ‘Abd al-Malik, il nono successore di Muhammad (A.D. 685 – 705; A.H. 65 – 86), che ordinò ai suoi sudditi di sostituire il pellegrinaggio a Mecca con un pellegrinaggio a Gerusalemme [33]. Infatti, solo la conoscenza per cui la sacra pietra di Gerusalemme rappresentava lo stesso dio della Pietra Nera di Mecca poteva ispirarlo a dire, con riguardo al Ṣaḫra: “E questa roccia… sarà per te in luogo della Ka’ba” [34]. Abbiamo così compreso il modo in cui Muhammad intese restaurare il culto di Mecca nella sua forma originaria: egli attinse dalla tradizione giudaica, sia biblica che extra-biblica, tutto ciò che, nella sua visione, apparteneva alla vecchia, genuina religione di Gerusalemme che egli sapeva essere identica a quella di Mecca. Realizziamo inoltre perché i Musulmani attribuiscano tanta particolare importanza a personaggi biblici come Abramo, Davide e Salomone, i quali, come accennato, essi amano rappresentare come perfetti Musulmani. Poiché nella loro concezione un Musulmano è una persona che professa la sua completa sottomissione al dio di Mecca e di Gerusalemme – non importa se tale dio sia chiamato Šalim, êl ‘eliôn,o Allah – essi erano pienamente giustificati nel considerare come propri correligionari quei famosi personaggi che le fonti ebraiche collegano più intimamente con la religione di Gerusalemme. 

Il Ṣaḫra, all’interno della Cupola della Roccia 

[1] Vedi il testo VAT 9739 pubblicato da Ebeling, Keilschrifttexte aus Assur religiösen Inhalts, vol. I, Leipzig 1919, n. 102; per una traslitterazione e traduzione dello stesso autore vedi Mitteilungen der Vorderasiatischen Gesellschaft 23, 1, Leipzig 1918, pp. 47 – 49. Ebeling ha ripubblicato questa traduzione con minime modificazioni in Gressmann, Altorientalische Texte zum Alten Testament, Berlin e Leipzig 1926, pp. 250 ss.

[2] Che dlamassâtàt debba qui denotare una specifica parte degli occhi di Ninurta e non, come ritiene Ebeling, “le dee protettrici”, deriva dal fatto che a ogni parte del corpo del dio è dato il nome di una ben nota divinità del pantheon assiro-babilonese. È più probabile che il nostro termine denoti le palpebre poiché esse sono le essenziali protettrici degli occhi. La nostra interpretazione è ben in linea con l’etimologia di lamassu, “protezione”, proposta da Poebel, Studies in Akkadian Grammar, Chicago 1939, p. 25, nota 1. 

[3] Araq-ênê-ka non denota “l’iride dei tuoi occhi”, come tradotto da Ebeling in entrambe le sue versioni. Arqu significa “giallo”, “di colore pallido” (vedi Deimel, Šumerisches Lexikon II. 3, Rome 1932′, n. 351, sub 5), per cui il nostro idioma manifestamente si riferisce alla zona di colore pallido dell’occhio, i.e., a ciò che noi diciamo il bianco. Se il nostro poeta avesse pensato all’iride, che, nel caso di una persona orientale, è nera o castana, egli non l’avrebbe certamente paragonata alla luce argentea della Luna e al brillio scarlatto del pianeta Marte; cfr. la nota appresso. 

[4] È difficile capire perché Ebeling traduca il ben noto termine mašše, “gemelli”, con “splendore”. Sugli dei gemelli Sîn e Nergal vedi, per esempio, il commentario astronomico 81,7-1,4 (pubblicato in The Cun. Inscr. of Western Asia, vol. V, London 1880, pl. 46, no. 1; per una traslitterazione vedi Weidner, Handbuch der babylonischen Astronomie, vol. I, Leipzig 1915, pp. 51 ss.), dove, alla l. 4 ss., la costellazione dei Gemelli (Maš-tab-ba-gal-gal-la) è identificata con Sîn e Nergal. 

[5] Šalâm; per GI = šalâmu vedi Deimel, op, cit., n. 85, sub 73. 

[6] Benché NUN.ME generalmente significhi apkallu, “persona saggia”, preferiamo qui leggere rubême, perché apkal nîmeqi, mentre è un possibile epiteto di Ea, non può essere usato con riferimento alla divinità sua consorte, Damkina. 

[7] 10 Be-lum pa-nu-ka šamûu su-uk-nat-kad[…]
11 ênâmeš-ka be-lumdEn-lil u d[Nin-lil]
12 dlamassâtat ênâmeš-ka dGu-la dBe-lit-i-[li]
13 araq ênâmeš-ka be-lum mas-se-edSîn [ù dNergal]
14 a-gap-pi ênâmeš-ka ša-ru-urdŠam-ši sa-[ru-ur d… ]
15 ši-kin pî-kabe-lumdJš-tarkakkabêmes
16 dA-nu-um u An-tum šaptê-ka qi-bit-ka… 
17 mul-ta-bil-ta-kadPa-bil-sag šà e-la-an [ù ša-ap-la-an …]
18 šamêepî-ka be-lum kip-pat šamêeirṣititi šu-bat d[ …]
19 šinnêmeš-ka dVlIbi mu-šam-qi-tu lim-nu-[ti]
20 ti-iḫ, lêtêmeš-ka be-lum ṣi-it kakkabêmeš šalâm [kakkabêmeš]
21 uznâmeš-kadÉ-adDam-ki-na rubêmeni-me-qi
22 qaqqadudu-kadAdad šà šamê ù irṣitimtim kîma kiš-kàt-te-[e …]
23 pût-kadŠa-la [ḫi]-ir-tu na-ra-am-tù mu-tib-[bat …]
24 kišâdu-ka dMarduk daiiân šamêe [irṣitimtim] a-bu-ub [ …]
25 nap-šat-kadar-pa-ni-tum…

[8] Questa divinità è citata nella frammentaria linea 32.

[9] Riconosciamo in questa dottrina un’arcaica, antropomorfica versione di un’idea che, com’è stato brevemente accennato sopra, nota 82, è ben nota in epoche più recenti: gli adoratori degli dei planetari Sîn e Marduk consideravano ogni fenomeno divinizzato del cielo e della natura come manifestazione di un’unica suprema divinità. Invocando Marduk, i Babilonesi potevano usare i nomi di Sîn, di Šamaš, e delle altre stelle (vedi p. 62 con nota 140 dell’articolo citato sopra, nota 8), essendo ognuna di queste divinità considerata una manifestazione del loro dio nazionale. Gli adoratori della Luna, da parte loro, potevano entrare nei santuari di Marduk, Nabû o altri grandi dei e rendervi omaggio a Sîn, poiché nella loro visione le divinità minori erano semplicemente gli esecutori delle decisioni di Sîn e quindi parte dell’unica e sola volontà divina che essi ritenevano dirigesse gli affari del cielo e della terra (per i dettagli vedi p. 62 del sopracitato articolo). Le corrispondenze e le differenze tra le nozioni più recenti sull’unico dio supremo e le idee più arcaiche espresse nell’Inno a Ninurta VAT 9739 (a dire il vero, nella sua forma attuale quest’inno è medio-assiro; ma l’uso frequente della mimazione [e.g. be-lum alle ll. 11, 13,15 e 18; dA-nu-um alla l. 16] rende chiaro che esso si basa su una versione più antica) diventano particolarmente chiare da un confronto di quest’ultima composizione con un incantesimo dedicato a Marduk conservato in obv., col. II, ll. 3 ss. della tavoletta VAT 9823 (pubblicata come n. 25 nell’edizione di Ebeling citata sopra, nota 108; per una traslitterazione e traduzione dello stesso autore vedi Mitteilungen der Vorderasiatischen Gesellschaft 23, 1, Leipzig 1918, pp. 11 ss.). Ivi leggiamo le seguenti linee:

3 Il dio Sîn è la Tua divinità; il dio Anu è la Tua qualità principesca;
4 Il dio Dagon è la Tua signorilità; il dio Bêl è la Tua regalità;
5 Il dio Adad è la Tua maestà; il saggio dio Ea è la Tua intelligenza.
6 Il dio Nabû che impugna lo stilo, è la Tua saggezza.
7 La Tua supremazia è Ninurta; la Tua forza è Nergal…

4 dDa-gan bêl-ut-ka dBêl sàr-ut-ka
5 dAdad giš-ru-ut-ka dÉ-a ir-šu ḫa-si-sa-ka
6 ṣa-bit qân tup-pi dNabû li-‘i-ut-ka
7 ašaridu-ut-ka dNin-urta dan-nu-[ut]-ka dNergal…

Come nell’Inno a Ninurta VAT 9739, l’idea-base di questa invocazione è la credenza nell’esistenza di un unico grande dio. Tuttavia, mentre nella precedente composizione le divinità minori erano concepite come parti del corpo di un supremo dio antropomorfo, l’autore dell’incantesimo a Marduk vede in essi gli attributi astratti di un essere divino parimenti astratto. 

[10] Che nelle antiche canzoni, leggende e tradizioni della Palestina conservate nella Bibbia il dio supremo fosse concepito come un essere antropomorfo risulta dalla menzione della sua faccia (e.g., Gen. XXII, 31; Es. XXXIII, 14; Nu. VI, 26), dei suoi occhi e ciglia (e.g., Salmi, XI, 4; XXXIII, 18), della sua bocca (e.g. Ger. IX, 19); della sua mano (e.g., Is., VIII, 11; Giob. XXIII, 2), e dei suoi genitali (Ex. IV, 25). 

[11] Che êl ‘eliôn fosse una designazione di Šalim, il dio di Gerusalemme, fu dimostrato da J. Lewy, Revue de l’Histoire des Religions CX, 1934, p. 62; cfr. Nyberg, Archiv für Religionswissenschaft XXXV, 1938, pp. 360 ss.

[12] Vedi e.g., Eissfeldt, Einleitung in das Alte Testament, Tübingen 1934, p. 260.

[13] Loc. cit., pp. 365 ss. 

[14] Vedi, attualmente, Jacobsen, Journal of Near Eastern Studies II, 1943, pp. 170 ss. 

[15] Vedi inoltre Es. III, 1 – 5, e confronta le osservazioni di Eissfeldt, op. cit., pp. 45 ss., dove, tuttavia, la designazione della cima del Monte Morîịâ come un “luogo profano che funge da aia” è erronea. Il massimo che si potrebbe ammettere è che il luogo fosse stato profanato dai Gebusei, i quali furono con probabilità i distruttori del famoso tempio gerosolimitano di Šalim menzionato nella sopracitata lettera di Tell el-Amarna.

[16] Insieme ad altri simboli, la stella a sei punte compare su un arcaico sigillo giudaico (risalente forse al VII secolo a.C.) appartenente a Giosuè, figlio di Asaiah; vedi S. A. Cook, The Religion of Ancient Palestine in the Light of Archaeology, London 1930, pp. 46 e 214. Secondo l’Enciclopedia Ebraica (vol. VIII, 1904, pp. 251 ss.) essa compare successivamente a Taranto, Italia, su una pietra tombale giudaica del III secolo della nostra era. 

[17] Vedi, e.g., al-Bîrûnî, Kitâb at-Tafhîm (edito da R. Ramsay Wright, London 1934), p. 253, sub 433-434. Non è impossibile che perfino Tacito conoscesse la designazione degli Ebrei come “il popolo di Saturno”. Egli sembra infatti sottintendere che essi furono condotti via dalle loro originarie case per giungere in Palestina quando Saturno, sostituito da Giove, depose il governo del mondo; cfr. Isidore Lévy, in Latomus V, 1946, p. 331. 

[18] Op. cit., p. 69, nota 1. 

[19] Nûr šamêe irṣiti; per riferimenti vedi Tallqvist, Akkadische Götterepitheta, Studia Orientalia VII, Helsingforsiae 1938, p. 134.

[20] Vedi, e. g., A. A. Bevan in The Cambridge Medieval History, II, New York 1926, pp. 307 ss., e cfr. Wellhausen, loc. cit.

[21] Le tradizioni musulmane conoscono molte storie che sottolineano la devozione di ‘Abd al-Muṭṭalib al dio della Ka’ba; oltre a quelle citate nelle precedenti pagine (viz., la sua promessa di sacrificare al dio della Ka’ba uno dei suoi dieci figli e la rivelazione onirica nella quale egli vide la dimenticata ubicazione del pozzo di Zemzem), citiamo in particolare la leggenda del suo incontro con Abraha, il re degli Etiopi (vedi Mas’ûdî, Les prairies d’or III, p. 260), e quella del suo dono alla Ka’ba di una porta d’oro (ibidem, p. 259). 

[22] Il testo fu pubblicato da Clay, Yale Oriental Series, Babylonian Texts, vol. I, New Haven 1915, pp. 66 – 75 e tavole XXXIII-XXXV, no. 45; per la più recente traslitterazione e traduzione vedi Böhl in Symbolae ad iura orientis antiqui pertinentes, Paulo Koschaker dedicatae, Leiden 1939, pp. 162 ss. Un cilindro a botte che riporta lo stesso evento di YBC.2182, ma diverso in alcuni dettagli, fu esaminato da Scheil nella collezione di un mercante di Bagdad; vedi Comptes Rendus de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres 1912, pp. 680 ss., sessione del 20 Dicembre1912.

[23] Come abbiamo mostrato a p. 50, nota 105, dell’articolo citato sopra, nota 8, il comando divino venne ricevuto da Nabû-na’id al 13 di Ulûlu (26 settembre) del suo secondo anno di regno (554 a.C.). Nel testo B.M. 104738 (pubblicato da King, Cuneiform Texts from Babylonian Tablets in the British Museum, parte XXXIV, London 1914, tavole 26-37; traslitterato e tradotto da Langdon, American Journal of Semitic Languages XXXII, 1915/16, pp. 103 ss.) che ripercorre la sua attività edificatoria fino al suo decimo anno di regno, il restauro degli edifici di Ur non è ancora menzionato. 

[24] Che il lungo soggiorno di Nabû-na’id a Têmâ in Arabia dipendesse da motivi religiosi fu evidenziato per la prima volta da J. Lewy, Hebrew Union College Annual, vol. XIX, 1946, pp. 434 ss.; cfr. pp. 37 ss. del nostro sopracitato studio. 

[25] Questo colofone venne traslitterato e tradotto da Thuraeu-Dangin, Rev. D’Ass. XI, 1914, pp. 141 ss. 

[26] Sulle possibili circostanze di questo atto vedi p. 76 del nostro sopracitato studio.

[27] A giudicare dalla col. III, ll. 34-42 della Stele di Hillah di Nabû-na’id, la Ištar di Uruk somigliava a tal punto alla Ištar dell’Elam che infine (forse sotto il regno di Aššûr-bân-apli) le statue dei due templi furono scambiate, con la Ištar elamita collocata a Uruk e la divina signora dell’Eanna a Susa. 

[28] Alcuni documenti e resti di pitture vennero alla luce nella Ka’ba quando la vecchia struttura fu demolita; vedi Mas’ûdî, Les prairies d’or, IV, p. 126, e cfr. Dozy, Die Israeliten zu Mekka, Leipzig e Haarlem 1864, pp. 155 ss. È ancora una questione aperta se questi antichi reperti potessero essere propriamente letti e interpretati in modo tale da fornire una qualche informazione circa l’originario rituale della Ka’ba. 

[29] Vedi il passo di Ibn ‘Abdrabbihi tradotto da Le Strange, Palestine Under the Moslems, London 1890, pp. 164 ss. e cfr. I. Benzinger in Baedeker’s Palastina und Syrien5, Leipzig 1900, p. 46. 

[30] M. de Vogüé, Le Temple de Jérusalem, Paris 1864, p. III, fu il primo che confutò definitivamente l’identificazione del Ṣaḫra con lo Eben Šeṯîịâ. L’errore per cui i Musulmani credono che il Ṣaḫra sia la sacra pietra di Gerusalemme è probabilmente dovuto agli Ebrei convertiti che accompagnarono il califfo Omar nella sua prima visita all’area del tempio.  Come ben noto, a quel tempo l’intero sito era coperto di detriti, così che nessun dettaglio architettonico e men che meno la piccola lastra di pietra che era stata lo Eben Šeṯîịâ era più riconoscibile; perciò questi Ebrei convertiti, incapaci di identificare la sacra pietra, ma ansiosi di soddisfare la curiosità del loro capo, potrebbero avergli indicato l’enorme pietra grigia nota oggi come Ṣaḫra (sull’affidabilità di Ka’b al-Aḥbâr, uno degli Ebrei di Omar esperti nelle tradizioni, vedi i riferimenti di Le Strange, op. cit., p. 142, nota +). In effetti, gli Ebrei devono aver saputo perfettamente che questa pietra non era lo Eben Šeṯîịâ, perché il sopracitato passo mishnico descrive questo come una lastra di pietra che raggiungeva un’altezza di tre dita (i. e., circa 5 centimetri) sopra il livello del pavimento del Sancta Sanctorum; la sua superficie deve essere stata più piccola della base dell’Arca dell’Alleanza (che misurava 2 cubiti e mezzo per 1 cubito e mezzo, i. e., 1,25 x 0,75 m), dal momento che, sempre secondo le indicazioni della Mishna sopracitata, nota 71, la lastra divenne visibile solo dopo che l’Arca venne rimossa. 

Sorge naturalmente la questione se il vero Eben Šeṯîịâ fosse ancora in situ quando Omar decise di ri-dedicare l’area del Tempio di Salomone al culto di Dio. Secondo noi, la risposta può essere affermativa, dal momento che i Musulmani conoscono, nelle immediate vicinanze del Ṣaḫra, una sacra lastra di pietra, che essi denominano “rivale in gloria del Ṣaḫra”. È quindi ragionevole supporre che, alla fine, dopo la rimozione dei detriti dal sito, gli Ebrei avessero rinvenuto ed indicato ai Musulmani il vero Eben Šeṯîịâ. La pietra in questione è citata da Ibn ‘Abdrabbihi , un autore che scrisse verso il 913 (citiamo dalla traduzione di Le Strange, op. cit., p. 164): “Ora, quando tu entri nel Ṣaḫra (o Cupola della Roccia) fa’ la tua preghiera in uno dei suoi tre angoli, e prega anche sulla lastra che rivaleggia in gloria con la Roccia stessa, poiché giace sulla porta di una delle Porte del Paradiso”. La pietra così individuata si trova 12 metri a nord dell’estremità settentrionale del Ṣaḫra ed è nota ai Musulmani come Balâṭat ağ-ğinne, “Lastra del Paradiso” (vedi I. Benzinger, op. cit., p. 46, e cfr. il motivo del pavimento della Cupola della Roccia ibidem, p. 43). Secondo C. Schick, op. cit., p. 248, si tratta di “una pietra di diaspro verde” che misura 0,5 x 0,5 metri; in tal modo essa sarebbe stata completamente coperta dall’Arca dell’Alleanza, come suggerito dal sopracitato passo della Mishna. Ciò risponde anche alla descrizione dello Eben Šeṯîịâ fornita dal Pellegrino di Bordeaux nel suo Itinerarium Hyerosolimit., che si esprimeva così: “Est non longe de statuis [Adriani] lapis pertusus, ad quem veniunt Judaei singulis annis et unguent eum et lamentant se cum gemitu” (cfr. Kittel, Studien zur hebräischen Archäologie, Leipzig 1908, p. 34, nota 3). Infatti i Musulmani dicono che la lastra di pietra qui discussa sia stata fornita da Muhammad di diciannove chiodi d’oro, destinati a cadere uno alla volta, finché, caduto l’ultimo, giungerebbe la fine del mondo. Di questi 19 chiodi oggi ne rimarrebbero tre e mezzo, mentre gli altri fori sarebbero vuoti (vedi Benzinger, op. cit., p. 46). Presentando in tal modo 19 fori, la lastra può ben essere apparsa al Pellegrino di Bordeaux come un lapis pertusus. Le tradizioni musulmane secondo cui la pietra copre o un’entrata per il Paradiso o la tomba di Salomone (vedi Benzinger, loc. cit.) rende ulteriormente chiaro che, come nel caso dello Eben Šeṯîịâ, il Balâṭat ağ-ğinne copre ora una caverna (Gustaf Dalman, Neue Petra-Forschungen und der Heilige Felsen von Jerusalem, Leipzig 1912, pp. 120 ss., che definisce la nostra lastra come una “tavola nera”, ricorda che Johann di Würzburg vide in essa il sito della sorgente del tempio descritta da Ezechiele).

Se la nostra identificazione del Balâṭat ağ-ğinne con lo Eben Šeṯîịâ è corretta, sembrerebbe che questa lastra sia stata recuperata in un tempo in cui l’originaria erronea identificazione dello Eben Šeṯîịâ con il Ṣaḫra era già a tal punto compiuta da essere ormai impossibile correggere l’errore. Quindi il vero Eben Šeṯîịâ venne incluso nel sacro inventario dell’area Ḥarâm come un’altra pietra sacra il cui significato era spiegato o dalla leggenda del Paradiso o dall’ipotesi che il pio Suleiman fosse sepolto sotto di essa. 

[31] Vedi Le Strange, op. cit., p. 114.

[32] Fino al quarto secolo dopo l’Egira, i Musulmani erano ben informati su queste credenze e pratiche dei loro antenati. Al-Mas’ûdî (Les prairies d’or, I, p. 298), quando parla dei primi Quraiš che, “prima dell’Islam, riverivano gli idoli e vi rivolgevano preghiere”, fa la seguente osservazione: “Ma in mezzo a loro c’erano alcuni che riservavano le loro preghiere per il Creatore (stesso), grande e potente; ed essi allestivano le statue e le immagini solo per puntare la qibla”.

[33] Vedi Le Strange, op. cit., pp. 115 ss.

[34] Vedi il passo di Ya’qûbÎ tradotto da Le Strange, op. cit., p. 116.

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