“Babylon”: Dioniso sulle Hills

I cattolici hanno il Vaticano. I musulmani La Mecca. I comunisti, Mosca. Le donne, Parigi. Ma per gli uomini e le donne di tutte le nazioni, di tutte le credenze, di tutte le latitudini, una città è nata dopo un quarto di secolo, più affascinante e più universale che tutti i santuari. Si chiama Hollywood. Hollywood! Qui si fabbricano, destinati per la terra intera, sogni e sorrisi, passione, brivido e lacrime. Si costruiscono volti e sentimenti che servono da misura, ideale o droga per milioni di esseri umani. E nuovi eroi si formano ogni anno per l’illusione delle folle e dei popoli.

Joseph Kessel

Tra i film usciti negli ultimi anni, pochi hanno diviso il pubblico e gli ambienti del settore come il kolossal dello statunitense Damien Chazelle, classe 1985. Vuoi per la durata monstre che supera le tre ore, vuoi per le scene esplicite, non si può uscire indifferenti dall’esperienza della visione di questo film. Snobbato dalle associazioni di premi e risultato un flop commerciale, eppure, ne siamo convinti, destinato a emergere come uno dei film americani più coraggiosi da tanti anni a questa parte, arrivando addirittura a definirla l’opera meta-cinematografica definitiva (a differenza dello distaccato studio antropologico di François Truffaut in Effetto Notte [1975] e la favola revisionista di C’era una volta a Hollywood di Tarantino [2020]): mai la Fabbrica dei Sogni è stata raccontata con tale amore e odio così viscerali come dal giovane regista di Providence.

L’errore può derivare dal considerare Babylon un film “storico” (fa sorridere a tal proposito la critica dello sceneggiatore e regista Paul Schrader per la sua inaccuratezza storica [1]): più che la formula perfetta [2] di David Thompson, si può comprendere meglio facendo riferimento, oltre al celebre e controverso saggio di Kenneth Anger [3], palese punto di riferimento fin dal titolo, anche ai saggi mitografici di Mircea Eliade e Joseph Campbell: un film mitologico. Quindi l’opera di Chazelle appare più vicina nell’essenza alle grandi narrazioni mitiche delle antiche civiltà che una moderna narrazione storiografica: più le Baccanti di Euripide che gli Annali di Tacito. In fondo già Eliade, nel suo saggio I miti del mondo moderno, osservava con sguardo veggente: 

[4]

Le coordinate temporali della trama (Hollywood, tra il 1926 e il 1932, passando per alcuni degli eventi più significativi della sua storia, come il passaggio al sonoro e la censura del Codice Hays vengono meno, per approdare a una dimensione atemporale (l’illo tempore caro ad Eliade) e trascendente nel potente finale: in quest’ottica, tutto l’esplicito citazionismo tipicamente postmoderno che pervade la pellicola assume un valore ulteriore alla mera referenzialità (a differenza di Tarantino, con cui pur condivide due degli attori protagonisti), per ritornare alla sua primaria essenza archetipica e ideale.

Hollywood come mythos Moderno, quindi: e se è vero che i film hanno un loro proprio linguaggio, e se il linguaggio del Mito è il Simbolo, il film di Chazelle può forse essere compreso meglio attraverso l’analisi dei suoi simboli.

Nella ampia messe di personaggi intorno a cui ruota l’epopea del film possiamo distinguere due coppie fondamentali che costituiscono i principali archi narrativi della trama: Manuel Torres/Nellie Le Roy e Jack Conrad/Elinor St.John. Due vicende divergenti, ma speculari.

In Nellie (Margot Robbie) e Elinor St. John (Jean Smart), troviamo incarnate i duplici aspetti, dionisiaco e apollineo, della Donna, e la medesima funzione ‘iniziatica’ per i protagonisti maschili. Oltre all’assonanza nei nomi, è significativo notare che all’inizio entrambe appaiono con i capelli rossi.

Nellie incarna la Baccante [5], l’amoralità della Hollywood degli inizi, libera e disinibita, ma anche votata a una inesorabile autodistruzione: l’ambiziosa ragazza di umili origini che brama un futuro da star del cinema diventa subito la Regina (Le Roy/Il Re) del baccanale che apre il film (in seguito approfondiremo meglio l’importanza che l’elemento dei parties assume nell’architettura del racconto, insieme all’elemento della Musica), oggetto di desideri ferini ma allo stesso tempo perturbante. In una scena dirà di sé stessa: «Mi hanno incasinata, tutti mi hanno incasinata […] perché li scombussolo, e a me piace scombussolarli. […] E quando tutto finisce sparisco con il mio culo danzante nella notte» [6].

Elinor, il cui cognome rimanda a quel San Giovanni che profetizzava la rovina della corrotta Babilonia [sic!], invece, la giornalista che costruisce e demolisce la fama delle star, rappresenta la dimensione apollinea e oracolare: apparentemente cinica e distaccata, sarà tuttavia proprio lei a rivelare la triste verità a Jack, ormai sul viale del tramonto: «Il fatto è che ti credevi indispensabile. Beh, non lo sei».

In Jack Conrad (Brad Pitt) troviamo la figura del Vecchio Re, l’Eroe Civilizzatore («Prima che arrivassi io, a Los Angeles su ogni porta c’era scritto: “Vietato l’ingresso a cani e attori”. Con me tutto questo è cambiato»), ingenuamente convinto dell’inevitabilità del progresso, ma destinato ad essere distrutto dallo stesso mondo che aveva contribuito a creare. Ma allo stesso tempo, insieme alla sua discepolo-erede Manny, è colui che comprende davvero le potenzialità del Cinema come Arte superiore al mero interesse economico, vero Fedele d’Amore, anche se dalla vita matrimoniale disastrosa (vd. Ibn’Arabi). Tuttavia, sarà proprio l’amica-nemica Elinor a dargli l’iniziazione finale che lo consacrerà alla trascendenza nell’eternità, e alla conferma della sua Fede: «E un giorno quei film lasceranno i loro nascondigli e tutti i loro fantasmi ceneranno insieme; vivranno avventure, nella giungla o in guerra, insieme. […] Sii grato di questo. Il tuo tempo adesso è scaduto, ma vivrai per sempre, insieme agli angeli e ai fantasmi».

In quest’ottica, il suicidio finale di Jack assume un nuovo aspetto, come l’inevitabile condizione per la sua apoteosi, invece di un lento declino in produzioni sempre più mediocri, caput mortuum della star che era: il re è morto, lunga vita al re!

Manny Torres (Diego Calva, nomen omen, considerato che in spagnolo ‘torres’ significa ‘Le torri’, e quindi predestinato ad sfolgoranti ascese e rovinose cadute), la cui scalata nelle gerarchie di Hollywood inizia dopo che Jack lo prende sotto la sua ala (diventando quasi una figura paterna, un mentore), come lui vede nel Cinema «qualcosa di più grande, qualcosa d’importante, qualcosa che duri», non una semplice industria: e per questo dovrà affrontare delle prove che gli permetteranno di entrare a far parte di quel mondo da lui tanto sognato. Tuttavia, il suo amore disperato per Nellie, la sua Musa, irraggiungibile e inarrestabile, lo porterà a cedere alle lusinghe di potere degli Studios e a vendere l’anima, arrivando a rinnegare la sua stessa identità per poter conformarsi agli standard della nuova elite finanziaria e alla moralità medio borghese WASP che stanno man mano prendendo il potere: per quanto lo riguarda, la sua redenzione potrà avere luogo solo a seguito di una simbolica discesa agli Inferi e a una successiva erranza.

Un elemento rilevante nella trama è l’uso dei parties, che diventano occasione per il regista per raccontare i momenti di transizione nella storia, per mostrare i cambiamenti nella società hollywoodiana; è significativo tuttavia far notare che a ognuna di tali scene si associa la figura di uno o più animali simbolici [7], di natura sempre più degradante e oscura:

  1. Il Baccanale (1926): il debutto di Nellie e il regno di Jack; evento centrale della festa è la comparsa in sala di un ELEFANTE (è interessante far notare che per alcune tradizioni l’animale era indicato come cavalcatura proprio del dio Dioniso) in un ambiente governato dalla promiscuità orgiastica e dove le comuni divisioni sociali vengono meno [8], e che viene può corrispondere a quella che gli storici, forse più lungimiranti di quanto siano loro stessi consapevoli, definiscono l’Età d’Oro del Cinema, parallela a quella raccontata da Esiodo;
  2. Arrivo del sonoro (1927): si assiste all’ascesa di una nuova classe borghese (la nuova moglie di Jack, istruita e mondana); inizia la caduta di Jack e Nellie (entrambi si riveleranno inadeguati per le innovazioni introdotte dal sonoro nello star system); SERPENTE con Nellie si trova a lottare (il rimando all’iconografia dell’Apocalisse giovannea è fin quasi troppo esplicito); siamo nell’Età dell’Argento:
  3. 1932: la borghesia industrial-capitalista è diventata la nuova classe dirigente a Hollywood, introducendo una nuova moralità che viene a irreggimentare la creatività  degli artisti: ciò si consoliderà con l’introduzione del Codice Hays [9]; in quest’ottica, gli attori vengono sfruttati come merce, quasi dei nuovi schiavi. A questo ambiente ipocrita non può che corrispondere la reazione distruttiva del vitalismo primordiale di Nellie, anche se a farne le spese è solo una pelliccia fatta con un CONIGLIO morto. Ecco infine l’ingresso nell’età del Bronzo: dove a dominare è la materia e l’economia;
  4. il party nel Bunker: in mezzo al deserto, situato in un bunker la cui struttura discendente (e degradante) non può che ricordare i gironi dell’Inferno dantesco, dove la gente di Los Angeles può dare sfogo a tutte le perversioni represse dal nuovo moralismo imperante, sul fondo del quale si trova un COCCODRILLO (cfr. la figura della ‘divoratrice di anime’ Ammit nella mitologia egiziana [10] e Níðhöggr per la mitologia norrena) e un UOMO-BESTIA dalle molte facce che si ciba di animali vivi, che ricorda terribilmente da vicino l’immagine di Lucifero descritto da Dante nel trentatreesimo canto dell’Inferno, di cui condivide anche la natura siderale (McKay si riferisce a lui come ad una “vera star”). Il Kali-Yuga, l’Età del Ferro ha divorato anche il Sogno… [11]

In tutto questo, a farla da padrone è la Musica, ovviamente jazz [12], vero e propria caratteristica del regista (composta dal sodale di vecchia data, il premio Oscar Justin Hurwitz); significativo a tal proposito che uno degli snodi principali della trama sia legato alla arrivo nelle sale del film Il cantante di Jazz (The Jazz Singer, 1927), primo film sonoro della Storia, quasi a ribadire ulteriormente il fatto che Hollywood sia sorta nel segno del dio dell’ebbrezza estatica (ma anche creatore e nume tutelare dell’arte drammatica, non dimentichiamolo!): tutta l’arte tende alla Musica, dirà a un certo punto il personaggio di Pitt.

Contraltare all’evanescenza della musica, si stende la fisicità di una città in espansione, ancora non distinta dal deserto che la circonda: a questo proposito, il deserto diventa un luogo preposto alla Visione (i set dei numerosi film muti girati in contemporanea, in un atmosfera quasi onirica, da miraggio) e all’Incubo (il bunker di Jack McKay); una Cattedrale nel deserto, la Fabbrica che promette meraviglie, ricchezza e gloria, ma che presto si rivela una Babilonia votata ad un Moloch assetato di sangue; non è a caso che nel corso della pellicola assistiamo a dei veri propri ‘sacrifici umani’, dove si immolano le vite e la dignità dei suoi stessi servitori: tra le scene più potenti dell’intero film quella in cui il trombettista di colore Sidney Palmer (Jovan Adepo) viene costretto alla blackface [13] per poter girare una scena con una band di musicisti dalla pelle più scura, per evitare l’impressione di una ‘band multirazziale’; o tutti quelli che vengono lasciati indietro dall’inesorabile marcia del progresso, tutti che alimentano i meccanismi e l’opulenza stessi dell’Industria: the Show Must Go On…

Infine, torniamo al nostro eroe Manny: nell’ennesimo disperato tentativo di ‘salvare la damigella in difficoltà’ dalle grinfie dello spietato gangster Jack McKay (un viscido e diabolico Tobey Maguire), affronta un vera e propria catabasi nel ventre più marcio di Los Angeles. Riuscendo a fuggirne, ne esce tuttavia quasi annichilito e privato di tutto, costretto quindi alla fuga, a differenza del musicista Palmer e la dialogista Fai Zhu, che scelgono la fuga come via di salvezza.

Infine, Manny tornerà a Hollywood dopo anni di esilio (come un novello Parzifal) dopo quella vita comune e anonima da cui lui stesso fuggiva all’inizio, e per la prima volta da allora, entra riluttante in un cinema dove si dà il caso proiettino proprio quel Singin’ In The Rain di Stanley Donen [1952], capolavoro del meta-cinema per eccellenza (la canzone, va fatto notare, segnava anche il momento in cui comincia la caduta di Manny, l’inizio della sua corruzione). Dopo un’ennesima panoramica sul volto degli spettatori in adorazione estatica davanti al grande schermo, vediamo Manny colto da un’epifania nel momento in cui riconosce la sua stessa esperienza riprodotta sullo schermo, ritrova il suo passato e la sua identità. Ritorniamo così al baccanale con cui è iniziato tutto, da cui si dipana un’allucinante carrellata che ripercorre la storia del Cinema dal Muto alla Computer Grafica, oltre la sua essenza e il suo Divenire: le progressione temporale collassa in una Eterno Presente, e anche oltre, trascendendo la Forma e l’Immagine fino alle Elementi che costituiscono la Struttura stessa del Sogno: dal trinità-tricromia del Technicolor al Bianco e Nero, per infine approdare al primario non-dualismo della Luce del proiettore e al Buio della sala, Principio stesso del Cinema. 

È qui, “insieme agli angeli e ai fantasmi”, che Manny ritrova i suoi compagni di un tempo e la sua Musa. L’ultima scena ce lo mostra sorridere, finalmente redento e in pace.


[1] Di Paul Schrader rimandiamo comunque alla lettura del suo importante saggio Il trascendente nel cinema, Donzelli, 2002.

[2] Riferimento al saggio di David Thompson La formula perfetta. Una storia di Hollywood (The Whole Equation. A History of Hollywood, 2004), Milano, Adelphi, 2022

[3] Kenneth Anger, Hollywood Babilonia (Hollywood Babylon, 1975), Milano, Adelphi, 2021

[4] Mircea Eliade, I miti del mondo moderno, in Miti, Sogni e Misteri, Torino, Lindau, 2007, p. 30 (corsivo mio)

[5] In quest’ottica, Nellie può essere vista anche come la Meretrice Scarlatta dell’Apocalisse

[6] Cfr. Baccanti, vv. 45-50

[7] Per il  significato simbolico degli animali citati, vedi alle voci ‘Elefante’, ‘Serpente’, ‘Coccodrillo’, ‘Ratto’ in: The Archive for Research of the Archetypal Symbolism, Il Libro dei simboli, Taschen 2011; Juan Eduardo Cirliot, Dizionario dei simboli, Adelphi, 2021, Hans Biedermann, Enciclopedia dei simboli, Garzanti, 1991, J. C. Cooper, Dizionario degli animali mitologici e simbolici, Neri Pozza, 1997

[8] Per un approfondimento del significato religioso-politico dei bacchanalia, si veda Gabriella D’Onofrio, Baccanali: religione e politica nell’Antica Roma, Giunti, 2001 e Basilio Perri, Livio, Storia dei Baccanali, Simple, 2019

[9] Il Codice Hays o Production Code, formulato formalmente nel 1930 ma applicato a partire dal 1934, fu un serie di linee guida emanate dalla MPPDA (Motion Pictures Producers and Distributors of America, Associazione dei Produttori e Distributori Americani) che regolamentavano ciò che poteva essere “moralmente accettabile” che venisse mostrato nei film o le tematiche che potevano essere trattate, tra cui temi quali la prostituzione, la droga o l’omosessualità, ma anche censura delle scene erotiche e delle volgarità verbali. Il Codice Hays venne ufficialmente abolito nel 1968.

[10] Cfr. Boris De Rachewiltz, Il Libro dei Morti degli Antichi Egizi, Mediterranee, 1982

[11] Si confronti le scene descritte con la descrizione che Esiodo fa delle quattro età del mondo in Le Opere e i Giorni, vv. 109-201

[12] Per l’influenza del dionisiaco nella musica jazz, oltre alle intuizioni seminali di Nietzsche ne La nascita della tragedia, consigliamo l’interessante saggio di Carmine Migliore Il dionisiaco e l’apollineo nella musica jazz, Book Sprint Edizioni, 2020

[13] la pratica della blackface consisteva nel tingersi con il trucco di nero il volto degli attori bianchi per fargli interpretare personaggi di colore (il più delle volte grottescamente stereotipati), diffusa nel teatro con i Minstrel Show, e nel cinema fino agli anni Cinquanta, in quanto la gente di colore non era ammessa sulle scene.

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