Le divinità coccodrillo dell’antico Egitto

Fin dal periodo più antico della storia la religione egizia si distingue dal resto del mondo mediterraneo per la sua composita pluralità e per il suo carattere mutevole, che ne rende altrettanto complesse interpretazioni e teorie definitive. 

Come spesso evidenziato dalle ricerche effettuate dagli studiosi moderni, peculiarità del mondo egizio è un elevato sentimento di partecipazione individuale alla sfera del sacro, che non si isola in una categoria ontologica irraggiungibile ma che al contrario fa parte in modo indissolubile della vita quotidiana, radicandosi nel contesto sociale e stratificandosi nella storia. La religione egizia si pone di conseguenza come un contesto in costante divenire, nel quale immagine ed essenza si alternano, in un completo dinamismo ciclico che trasforma sembianze in sostanze, realtà in apparenza, descrivendo all’interno di una sequenza terrestre un’esperienza tutta celeste. 

Senza prescindere dalle coordinate storiche e dai riferimenti antropologici, si dimostra necessario addentrarsi con cautela in un tentativo di illustrazione di ciò che in modo assolutamente reale doveva rappresentare il divino, con quale criterio si sceglieva di dare forma a quest’ultimo e attraverso quali simbologie, giungendo infine alle sue rappresentazioni.

Uno dei temi fondamentali che caratterizza la religione egizia del mondo antico risiede nell’importanza della parola e nel ruolo che essa ricopre nell’ambito della creazione e della manifestazione del divino: la parola assume in questo caso la funzione di vero e proprio veicolo attraverso cui l’individuo intraprende una comunicazione profonda con il mondo ultraterreno e riesce a intrattenere una relazione con la divinità. Si può affermare che nella visione del mondo egizia la parola sia il mezzo migliore per oggettivare il divino nei termini di una realizzazione concreta, rendendo predicabile l’essenza stessa della sfera celeste.

Il legame che sottende al principio di identità tra il nome e la sostanza è di carattere strettamente corrisposto e si nutre della corrispondenza che intercorre tra i due insiemi; inoltre, la conoscenza fa parte di questa interdipendenza, rendendosi propria di entrambi gli ambienti: come infatti l’essenza si mostra attraverso la parola, così la parola si compone della sostanza stessa, alternando un continuo scambio di autorità e potere. 

Coerentemente con ciò appena scritto, il termine “divinità” o “dio” si descrive con un profilo dai contorni sfumati. Le parole del divino spaziano nella varietà e nell’interpretazione e risulta quasi impossibile darne una traduzione univoca e sicura: a partire dalla definizione più neutra, indicando “ciò che è venerato”, i significati alternano un carattere statico, il principio divino stesso, e un carattere creativo, come la manifestazione del potere o l’emanazione del soprannaturale straordinario. 

Cercando di mantenere una linea di ricerca che consenta una discreta chiarezza si può considerare la terminologia egizia del divino come un mezzo intimamente condiviso dalla collettività degli individui per rappresentare il reale e descrivervi la propria esperienza umana, come la possibilità di intraprendere un dialogo crescente con l’invisibile e come una trasposizione del sovrumano nel sistema della parola, entro i confini del temporale e dell’aspettuale. 

Se uno dei modi più antichi per chiamare il dio era Sekhem, che sembra rimandare a un significato proprio della sfera dell’autorità e del potere elevati oltre il livello fisico, manifestati nello spazio spirituale attraverso il suo possessore, altrettanto fondamentali sono i termini più generici, come la parola Netjer, i concetti relativi all’appartenenza al divino, come l’Akh e il Ba o ancora i concetti astrattati divinizzati.

Mentre la parola Netjer, fa riferimento al geroglifico del feticcio in epoca predinastica e muta gradatamente la sua rappresentazione in una forma antropomorfica solo dopo la prima metà dell’Antico Regno, venendo tradizionalmente identificato come la forma base di determinativo per la divinità, si dimostrano forse di maggiore complessità altri elementi del divino che si trovano in una posizione di sottile demarcazione tra naturale e soprannaturale. In quest’ultima accezione, infatti, si possono inscrivere l’Akh e il Ba, due concetti il cui rapporto con l’umano acquisisce valore e costituisce uno dei più importanti tasselli della cosmologia egizia antica, oltre che definirne potenzialmente l’intero orientamento spirituale. Il legame diretto ed esplicito che si esprime tra mondo divino e individuo si riflette nelle parole Akh, letteralmente riconducibile all’energia e alla luce, e Ba, tradotto dai moderni come “capacità” o “manifestazione”, oltre che nei loro derivati, aprendo così un orizzonte che comprende tutti i livelli del cosmo [1]. In tal modo ogni individuo ed entità divina è animato da queste forze e ne dispone in maniera molteplice, attingendo da fonti simili che altro non sono che sfumature diverse dello stesso principio. 

Nella religione egizia si può quindi assumere questa alternanza semantica come un motivo simbolico di una rigenerazione ciclica, nella cui disposizione gli elementi sopra citati devono essere intesi come energie non esclusive, che scorrono nelle profondità dell’universo attraverso le creazioni terrene, coinvolgendo ogni fase dell’esistenza umana, dalla nascita alla morte. 

Alcuni di questi particolari tratti distintivi della visione egizia del mondo terreno e ultraterreno, che qui abbiamo solo accennato, sono in grado di offrire un’idea, seppur indefinita, piuttosto esplicita di ciò che il divino rappresentasse per la collettività: non si tratta quindi solo del dio ma della sua stessa e contemporanea rappresentazione, unitamente alla commistione di caratteri astratti e concreti, reali e immaginari. Si deve prescindere da un’interpretazione lineare delle vicende mitiche e degli sviluppi concettuali religiosi poiché nella visione egizia, tutto è fase di un ciclo e come in una sorta di percorso metonimico senza fine, ogni singola parte riassume in sé l’intera ciclicità. Infine, come in gran parte della storia delle religioni antiche, si rende necessario rinunciare alla pretesa di una completa comprensione e di un’interpretazione finita, in quanto molto di ciò di cui ci accingiamo a trattare o che abbiamo fin ora citato è il risultato, eccezionale e meritevole, di secoli di ricerche storiche, tuttavia lontane nel tempo e nello spazio dalla cultura egizia di quei secoli. 

Nel contesto di un sistema religioso che vive l’esperienza dell’essere non come riproduzione del reale, ma come una ricerca di elementi in comunione con la sacralità, si leggono significati nuovi che ricoprono in duplice alternanza il positivo e il negativo, il mondo divino e il mondo terreno, l’umano e l’animale.

Divinità zoomorfe

Come abbiamo accennato nel paragrafo precedente la religione egizia ha sempre mantenuto come costante di specificità una componente di dinamismo e multiformità. In questo senso, procediamo con una breve descrizione delle rappresentazioni della divinità e quali le caratteristiche fisiche e simboliche che l’hanno caratterizzata dal periodo più antico a quello di dominazione romana. 

Nell’Antico Egitto le prime rappresentazioni della divinità non sono propriamente simili a quelle immaginate dai moderni: l’iconografia religiosa si compone nelle sue prime fasi di quel fenomeno chiamato zoolatria e di cui sarà necessario spendere alcune considerazioni. Nel mondo egizio il culto degli animali sacri fu praticato fin dal periodo Protodinastico (ca. 3000-2686 a.C.) e progressivamente si intensificò in modo decisamente più puntuale e determinato fino a raggiungere anche il Nuovo Regno (ca. 1550-1069 a.C.) e le sue formulazioni successive ancora più elaborate [2].

La pratica religiosa della zoolatria è quindi da ricercare nell’antichità, più precisamente dal IV millennio a.C., periodo in cui si moltiplicano in modo considerevole le inumazioni di animali considerati sacri, specialmente selvatici, e che si presenta come una fase storica di estremo sviluppo culturale per le società del Vicino Oriente. Si rende necessario specificare l’entità dell’attività di sepoltura abituale, che avveniva per qualsiasi animale che avesse un qualche tipo di interazione con l’ambiente sacro, ma si distingueva in due forme all’apparenza simili ma di significato assai differente: se infatti si trovavano sepolture di animali in onore della divinità, con la funzione di offerta sacrificale, e quindi definibili come necropoli votive, ben diverse erano invece le inumazioni di animali sacri, ovvero singoli esemplari scelti tra la vastità della specie presente sul territorio. 

Per quanto riguarda l’iconografia, a cominciare dagli strumenti di uso cosmetico spesso recanti la forma di pesce, forse con funzione di amuleto, proseguendo con gli oggetti sacri decorati da figure di animali in rilievo, si giunge infine alle palette votive, che rendono evidente l’importanza dell’elemento animale nell’ambiente del divino e della sua rappresentazione. Su quest’ultime sono infatti visibili diversi episodi, solitamente combattimenti e battaglie dai toni tipicamente umani, i cui protagonisti sono coinvolti in trasformazioni simboliche e diventano emblema di disposizioni e qualità soprannaturali. Solo gli sconfitti di tali scontri mantengono la forma umana, messa in risalto dalla nudità assegnata loro dalle illustrazioni, i vincitori assumono invece le sembianze di animali forti e vigorosi, come leoni e tori, a immagine di quella simmetrica analogia propria del rapporto tra potere e mondo ultraterreno. 

Questo tipo di figure provenienti dall’arte egizia ci consentono di immaginare più chiaramente quale fosse il reale rapporto che gli Egizi vivevano con l’ambiente naturale e fisico che li circondava, per cui elementi propri dall’ambiente vegetale e animale del territorio diventano un veicolo di comunicazione sociale e collettivo oltre che un’occasione unica di contatto con il divino. Una manifestazione nel reale di concetti appartenenti alla sfera del cosmo, che si intrecciano in modo indissolubile al quotidiano, esprimendosi così anche a un livello proprio della quotidianità e che mette in luce l’assenza di confine tra animale e umano. Nelle espressioni della religione egizia, tale concezione sarà ciò che consentirà la presenza consistente di divinità dai tratti fluidi, che si manifestano con testa umana e corpo animale e viceversa, o che ancora presentano caratteristiche tipiche di più animali contemporaneamente, rendendone difficile l’individuazione nel regno fisico. 

Le figure ibride, che con una buona dose di stupore e dichiarata difficoltà ci sono state prima di tutti riportate dagli storici greci e romani del periodo antico, sono una prova tangibile del fatto che, almeno inizialmente, il mondo animale era considerato certamente più forte dell’uomo secondo il pensiero comune egizio. Di conseguenza, secondo questa interpretazione, l’animale era necessariamente legato al mondo divino in modo più solido e inoltre conservava dentro di sé una potenza che difficilmente l’uomo sarebbe riuscito a eguagliare.

Tavoletta votiva di Narmer

Nel contesto della storiografia un reperto di impressionante bellezza, la cui interpretazione ci permette di effettuare un’analisi dell’evoluzione del pensiero egizio in relazione alla divinità, al rapporto con il potere e con il mondo animale, è rappresentato dalla tavoletta votiva di Narmer, risalente probabilmente alla fine del periodo Predinastico e le cui raffigurazioni mostrano un mutamento di prospettiva. 

Sulla famosa paletta è possibile osservare alcuni animali tipici della simbologia egizia legati al potere, alla protezione e alla forza, come le teste di vacca dai connotati umani nella parte più alta, il toro nella parte inferiore intento ad abbattere le mura di una città e a calpestare un avversario e infine il falco che, tenendo tra gli artigli un laccio, stringe il collo di un nemico. Si ritiene ormai certa l’interpretazione che individua nel toro e nel falco la simbologia del faraone, nell’Antico Egitto considerato alla stregua di una divinità e in qualche modo tramite indiscusso e privilegiato tra mondo ultraterreno e mondo umano. 

Tuttavia, ciò che rende ancora più interessante lo studio della tavoletta di Narmer è la presenza di una raffigurazione del faraone anche in forma antropomorfa e dal cui gonnellino pende una coda di toro, ultima traccia di una zoolatria superata e di una visione eterogenea e nuova del divino, nella quale antropomorfismo e zoomorfismo si completano. Gli elementi e le forme propri del contesto animale diventano così strumenti tradizionalmente riconosciuti per affermare l’autorità del ruolo faraonico, oltre che la sua appartenenza al mondo divino. 

Non dovrebbe stupire che tutte le caratteristiche appena descritte siano riscontrabili nell’iconografia religiosa egizia, dove è possibile trovare divinità dai tratti ibridi presenti contemporaneamente, oppure rappresentati a volte in forma umana, altre volte in forma animale. Allo stesso modo la statua, che nel mondo egizio altro non è che un vero e proprio Ba del dio, ovvero una sua reale manifestazione, presenta i medesimi tratti e lo svolgimento del rituale avveniva, come sostenuto da diversi studiosi, indossando maschere di animale da parte dei sacerdoti che impersonavano il dio della mitologia.

Il ruolo degli animali era assolutamente primario nell’Antico Egitto, occupandone uno spazio inviolabile e degno di un’incondizionata considerazione: si può dire che il rapporto dell’uomo con il regno animale sia stata una delle occasioni più frequenti di indagine dei confini del sacro, nei limiti di una relazione complessa e articolata. 

Nel caso di alcuni animali, l’attestazione del culto insieme alle sepolture, si rilevano a partire dalle dinastie più antiche, ma è fondamentale ricordare che nell’Antico Egitto la venerazione degli animali era qualcosa di più di una semplice similitudine visiva o un mero sacrificio alla divinità celeste: la forma animale era un vero e proprio tramite tra umano e divino e rappresentava la divinità in terra. Il dio si incarnava in un animale che non era sua proprietà ma incarnazione della sua forza attiva e della sua grandiosità: per questo motivo, gli animali venerati in Egitto non erano mai comprendenti l’intera specie, ma erano solo alcuni e selezionati esemplari che presentavano caratteristiche specifiche, in concordanza con l’immagine della divinità e l’evidente manifestazione del suo potere.

Attraverso questo scambio continuo e ciclico di comunicazione e rappresentazione, partendo dalla venerazione e giungendo fino all’iconografia sacra, il giardino zoologico e ultraterreno serviva da intermediario e dispiegava attraverso i suoi funzionari, primo tra tutti il faraone seguito dai sacerdoti specialisti del sacro, i poteri interminabili, le forze rigenerate, la fertilità travolgente e tutto ciò che, come detto in precedenza, oscillava come un pendolo tra la sfera dell’uomo e la sfera del dio. 

Cippo di Horus

Il coccodrillo è uno dei più frequenti animali il cui culto si riscontra già nel periodo antico dell’iconografia religiosa egizia. Descritto come un rettile temibile e un pericoloso predatore, considerato spesso un simbolo di forza e fertilità, nell’immaginario divino egizio il coccodrillo ispira sentimenti di profonda magia e si intreccia alla mitologia, ricoprendo ruoli mostruosi e dal potere indiscusso: il suo muoversi tra l’ambiente acquatico e quello terrestre con destrezza, lo inserisce in una dimensione mutevole e di duplice interpretazione, rappresentando una creatura potenzialmente letale ma al tempo stesso connessa al mondo della fecondità e dell’abbondanza. 

Nell’antico Egitto era fondamentale propiziarsi le forze manifestate dalle incarnazioni divine, attraverso i rituali religiosi e afferenti alla sfera magica, principalmente sfruttando correttamente riti e funzioni, in modo da trasformare la pericolosità dell’animale in una protezione potente: proprio per questo infatti, il coccodrillo era invocato nel tentativo di salvaguardare il popolo egizio, in particolare dai pericoli del Nilo. 

Un eccellente esempio della funzione simbolica assunta dal coccodrillo, anche nella sua semplice forma animale, è visibile nel famoso Cippo di Horus sui coccodrilli, una piccola stele di basalto utilizzata per scopi magico-medici, probabilmente risalente al periodo di dominio dell’ultima dinastia egizia (Epoca Tarda ca. 664-332 a.C.), ricoperta di formule e iscrizioni su tutti i suoi lati.

In ragione del funzionamento della stele e del manifestarsi della divinità, la presenza di parole insieme alle immagini era fondamentale: l’acqua che scorreva su di essa assorbiva il potere delle iscrizioni ed è probabile che chi la bevesse potesse percepire la forza del dio nel proprio corpo. La scena che riguarda Horo sui coccodrilli si trova nel punto centrale della stele: si tratta di Horo, dio falco connesso al potere faraonico, raffigurato completamente nudo con un corpo di fanciullo, in piedi su un coccodrillo, che stringe tra le mani due scorpioni e due serpenti, la coda di un leone e le corna di un’antilope. L’invincibile forza della divinità è qui resa concreta dall’iconografia, attraverso la scelta di creature pericolosi e forti, come scorpioni, leoni, antilopi e naturalmente, coccodrilli: quest’ultimi a differenza degli altri animali, non si trovano tuttavia in una posizione costrittiva, ma in qualche modo al servizio della divinità, a dimostrazione che il rapporto con tali animali doveva essere costruito e potenzialmente sfruttato come strumento di protezione.

Sobek (figura centrale)

Andando oltre la simbologia animale, un vero e proprio dio coccodrillo è adorato nell’Antico Egitto con il nome di Sobek: nei testi sacri il dio è descritto con toni di magnificenza e splendore, e il suo ruolo è ambiguo e a tratti provocatorio. Uno dei testi più famosi riportato dalle fonti e cronache del periodo romano è il cosiddetto “Libro del Fayyum”, uno scritto antico nel quale si narrano vicende mitiche e celebrative del dio Sobek in parte riportate sulle pareti del tempio di Kom Ombo.

Nelle iscrizioni relative, il dio Sobek è spesso associato alla divinità solare, comunemente indicata con il nome di Ra, e ne assume anche il ruolo di potente dio originario connesso alla creazione; alcune di queste rappresentazioni sembrano intendere Sobek come una vera e propria manifestazione del dio Ra, che compie il suo viaggio lungo il Nilo a bordo della barca solare per tuffarsi nella Duat (o nel lago Moeris) al termine del percorso giornaliero di morte e rinascita. Inoltre come accennato in precedenza, l’assimilazione di Sobek al dio primordiale e il suo legame con l’ambiente acquatico, oltre che l’elevata prolificazione del coccodrillo, ne trasferisce l’influsso anche alla sfera della sessualità e della riproduzione:

Egli ha creato il Nun nel suo tempo, dio grande dai cui occhi sono usciti i due astri (il sole e la luna, occhi del cielo), il suo occhio destro che brilla durante il giorno, e il suo occhio sinistro durante la notte […] Il Nilo scorre come suo sudore vivente e feconda i campi. Egli agisce col suo fallo per inondare le Due Terre di ciò che ha creato. […] Come è dolce pregarlo, lui che ascolta e che viene a chi lo chiama, perfetto di vista, ricco di orecchie, che è presente alle parole di chi ha bisogno di lui, forte, vincitore, al quale nessuno somiglia. È il più prestigioso degli dèi nella sua forza, Sobek-Ra signore di Kom Ombo, che ama la clemenza dopo la collera.

[3]

Il suo corpo è descritto come grande e possente, ricoperto di verdi piume e dalle sfumature metalliche e i cui occhi sono sempre vigili [4]. Nonostante Sobek mantenga quasi del tutto inalterata la sua forma animale, il dio manifesta una potente divinità, spesso descritta alternando una carica sessuale dirompente a un atteggiamento di potere che sconfina nella violenza: nello stesso modo attraverso cui può impossessarsi del trono e iniziare il ciclo solare e faraonico di nascita, morte e rinascita, egli può accoppiarsi con le donne che desidera, senza preoccuparsi dei loro compagni. 

Soprattutto in relazione alla connessione di Sobek con la sfera sessuale, il rapporto tra l’universo femminile e il coccodrillo sarà interpretato nell’immaginario egizio come problematico e potenzialmente pericoloso, infatti come riportato in alcuni papiri, le donne che sognavano di unirsi sessualmente a un coccodrillo erano prossime alla morte. Il dio Sobek rappresenta una delle divinità più mutevoli e versatili del mondo egizio in quanto il suo ruolo, da sempre legato all’acqua, si trasforma nelle sue rappresentazioni in un dio partecipe della sfera celeste e personificazione del dio solare, oltre che possibile incarnazione o vicario di Osiride, assumendone la funzione funeraria. 

Le rappresentazioni iconografiche di Sobek sono quindi di diverso tipo: spesso raffigurato in forma di semplice coccodrillo o di coccodrillo mummificato, questi aveva anche una forma ibrida, composta di corpo umano e testa di coccodrillo. Secondo alcuni testi, la madre di Sobek era Neith [5], divinità creatrice e guerriera, associata alle acque primordiali del Nun, spesso definita in modo neutro dagli epiteti di “Madre delle madri”, “Padre dei padri”: una delle divinità più antiche della religione egizia, l’iconografia dei periodi meno arcaici raffigura Neith in forma antropomorfa e portatrice della corona rossa del Basso Egitto.

Il territorio maggiormente coinvolto nel culto del coccodrillo era certamente l’area corrispondente al Fayyum, una zona originariamente palustre, successivamente bonificata e trasformata in una pianura coltivata, e nella cui capitale Shedet, o Krokodilopolis (letteralmente “Città del Coccodrillo”, secondo gli autori greci che la descrivono), era edificato il suo più grande santuario. L’area del Fayyum, e in particolare la sua capitale, si trovano nella zona centrale della regione e di conseguenza il culto del coccodrillo rappresenta un elemento fondamentale che assume un ruolo oltre che geograficamente strategico anche ideologico e religioso.

Lo storico del I secolo a.C. Diodoro Siculo ci narra di come il culto di Sobek risalga al periodo in cui regnava il sovrano Menes, forse una versione leggendaria del faraone Narmer, che inseguito da un branco di cani, venne salvato da un coccodrillo che lo fece salire sulla schiena: una volta sceso sulla riva, il sovrano fece edificare un santuario e insieme la città, e ordinò ai suoi abitanti di venerare il coccodrillo. Naturalmente si trovavano molti altri luoghi sacri a Sobek in tutte le città dislocate sul territorio egizio, come quelli individuati nelle città di Euhemeria, Karanis e Kom Ombo, all’interno dei quali doveva essere presente un’incarnazione del dio. 

La descrizione di ciò che avveniva all’interno dei templi dedicati alla divinità coccodrillo può essere un’occasione eccellente per comprendere la dimensione pratica che il culto egizio assumeva nelle sue forme quotidiane e di quanto fosse fondamentalmente unitaria l’esperienza spirituale e materiale:

I coccodrilli sono sacri per alcuni Egiziani […] Quanti abitano intorno alla città di Tebe e al lago di Meride li ritengono assolutamente sacri: in entrambe queste regioni provvedono al mantenimento di un coccodrillo scelto fra tutti, ammaestrato e addomesticato: gli ornano le orecchie con ciondoli di smalto e d’oro, e con anelli le zampe anteriori, lo nutrono con cibi scelti e vittime di sacrifici, trattandolo insomma nel modo migliore finché è in vita. Quando muore lo imbalsamano e lo seppelliscono in loculi sacri.

[6]

Nei santuari di Sobek si trovavano delle vere e proprie vasche dedicate all’allevamento dei coccodrilli sacri che, secondo le cronache degli autori greci e romani, erano nutriti con prelibatezze di ogni genere, offerte inimmaginabili e adornati di gioielli e pietre preziosissime. Come da citazione dello storico greco Erodoto, i coccodrilli sacri erano ovviamente anche mummificati e sepolti in apposite aree destinate, delle quali abbiamo diversi riscontri archeologici in alcuni siti dell’Egitto, come Tell Maharaqa, Tuna el Gebel e Kom Ombo. 

Un caso unico che merita particolare attenzione è quello legato al sito di Medinet Madi, nel quale durante il periodo del Medio Regno (ca. 2025-1773 a.C.) fu edificato un tempio dedicato alla dea Renenut associata al serpente, e affiancato da un altro tempio dedicato al culto di Sobek in epoca tolemaica (ca. 332-30 a.C.). In questo luogo è stata individuata, durante gli scavi avvenuti negli ultimi decenni del 1900 e condotti da una squadra di archeologi guidati dall’Università di Pisa, la presenza di un doppio sacrario, si ipotizza destinato alla venerazione di due esemplari sacri di coccodrillo, forse una coppia. Infine, sempre a questo sito è legato il ritrovamento di vasche dedicate con molta probabilità all’allevamento dei piccoli coccodrilli e all’interno delle quali sono state rinvenute alcune uova di coccodrillo ancora intatte [7].

Pesatura del cuore

Sebbene Sobek resti il dio coccodrillo principale e dall’iconografia più chiara, è per desiderio di esaustività e completezza che citiamo altre divinità che assumono caratteri fisici propri di questo animale nell’immaginario egizio. Una delle più famose è certamente Ammet, figura mitologica a metà tra dea e mostro, conosciuta anche con gli epiteti di “Divoratrice dei morti” e “Mangiatrice di cuori” e, secondo alcuni, rappresentante divina del lago di fuoco che si trovava nell’aldilà: nel capitolo 125 del Libro dei Morti è rappresentata nell’attesa di divorare il cuore del defunto dopo il rituale della pesatura del cuore. Ammet è raffigurata solitamente come una divinità ibrida, con la parte del corpo anteriore simile a quella di un leone, la posteriore come quella di un ippopotamo e la testa di coccodrillo.

Il suo ruolo è emblematico e come già descritto in precedenza, fortemente caratterizzato dalla simbologia animale legata alla forza e al potere distruttivo di creature feroci ed estremamente pericolose: leone, ippopotamo e coccodrillo sono tutti animali che nell’Egitto antico rappresentavano senz’altro uno dei più grandi e temibili pericoli del territorio. 

La feroce dea Ammet era protagonista del momento del giudizio al termine della vita: chiamato anche “Capitolo del cuore”, era spesso riportato su amuleti dalla forma di scarabeo, simbolo solare e faraonico, posti in prossimità del cuore del defunto al momento della sepoltura, come auspicio e protezione nel viaggio dell’aldilà. Una volta giunto alla sua seconda dichiarazione di innocenza, durante il viaggio nella Duat, il mondo ultraterreno, il defunto era sottoposto a giudizio da una schiera di divinità, tra cui Thot, dio della sapienza e garante di giustizia, che assicurava il corretto svolgimento del processo, e la dea Maat, personificazione dell’ordine cosmico e dell’equilibrio, la cui piuma del capo posta sulla bilancia doveva risultare più leggera del cuore del defunto.

Se giudicato innocente, una volta terminato il rituale, il defunto poteva proseguire il suo percorso nell’aldilà funerario per raggiungere il corpo di Osiride, al quale si sarebbe unito compiendo così il ciclo giornaliero solare e partecipando al viaggio di Ra sulla barca solare. Se il cuore del defunto fosse risultato invece troppo pesante, conseguentemente a cattive azioni compiute dal condannato in vita, sarebbe stato inghiottito dalla dea mostruosa Ammet e la sua anima sarebbe stata così destinata a una condizione di eterna irrequietezza e oblio. Si può dire che la dea Ammet sia l’incarnazione del castigo, inflitto indistintamente all’individuo che non abbia agito in conformità con i principi della Maat, divinità femminile alata e personificazione di concetti astratti che, come accennato, riguardavano armonia, giustizia, equilibrio, oltre al rifiuto di eccesso e disordine. 

Taweret

Un’altra divinità femminile dal corpo ibrido è la dea Taweret, del cui culto abbiamo evidenza fin dall’Antico Regno e il cui ruolo è stato spesso reinterpretato. Raffigurata con un corpo di ippopotamo, cresta di coccodrillo, zampe di leone e braccia umane, la dea Taweret è una dea mite, associata alla sfera della fertilità e della maternità: le sue grandi mammelle sono evidenti e il ventre rotondo, a dimostrazione del suo ruolo di protettrice delle partorienti oltre che delle madri, inoltre il suo nome si trova in numerose formule magico-mediche per assicurare la salute del neonato.

La dea Taweret era spesso invocata durante il parto affinché quest’ultimo potesse avvenire con facilità, evitando complicazioni e difficoltà, unendo inoltre simbolicamente il momento della nascita all’ambiente divino: come divinità materna, Taweret era sempre presente al sorgere del dio solare Ra a Oriente, momento considerato come una vera e propria rinascita dall’oceano primordiale del Nun. Il suo simbolo era l’amuleto denominato Sa, il cui significato era quello di “protezione”, e che veniva rappresentato graficamente come un insieme di canne di papiro tenute alle estremità da un laccio. Non si è ancora certi di quale fosse il reale utilizzo di tale strumento, ma sicuramente gli era stata associata la funzione di strumento efficace contro il male e i pericoli: spesso la dea Taweret, come nella statua poco sopra poggia le zampe sull’amuleto come immagine rafforzativa del suo potere. 

Alcune figure dall’aspetto simile a Taweret e spesso unificate sotto la stessa iconografia o lo stesso nome sono la dea ippopotamo Ipet, conosciuta con altri nomi come Ipy, anche lei associata alla sfera femminile e rappresentata mentre allatta il faraone dal suo seno e la già citata Neith, madre di Sobek, connessa alla creazione e conseguentemente alla maternità.

Taweret

Alcune stelle e altre divinità hanno legami con l’immagine del coccodrillo, sempre in relazione alla sfera del potere e della forza: la costellazione che oggi conosciamo con il nome di Orsa Maggiore, citata diverse volte nei testi sacri egizi, era considerata imperitura e perpetua, infatti il loro nome egizio letteralmente significa “quelle che non tramontano”. Le stelle dell’Orsa Maggiore erano rappresentate in forma divinizzata con l’intera colonna vertebrale composta da un coccodrillo, probabilmente un ibrido tra il dio Sobek e Ra, e assicuravano la rinascita del faraone attraverso il viaggio percorso tra terra e cielo. 

Anche se raramente, il dio violento e sanguinario Khonsu, protettore del faraone, è rappresentato talvolta con corpo umano e testa di coccodrillo. Il dio Khonsu era adorato principalmente nella città di Tebe ed era descritto come un dio lunare, di antica venerazione e che subisce tuttavia numerose trasformazioni nel corso della storia religiosa egizia: tale divinità infatti, si trasforma da dio mangiatore di uomini, garante della forza del faraone, a un dio del tempo, con testa di falco e corpo umano, e ancora nel Medio Regno diventa un dio bambino legato alla triade tebana con Amon e Mut. 

Shed, dio connesso all’ambiente del Nilo e all’attività di cacciatore, venerato a partire dal Nuovo Regno come fanciullo, è rappresentato in piedi sui coccodrilli; viene assimilato a Horus soprattutto in virtù delle sue raffigurazioni mentre stringe tra le mani animali selvatici e pericolosi come antilopi o serpenti. Spesso il dio Shed porta con sé anche un arco e delle frecce, a dimostrazione del suo ruolo di signore della caccia e padrone del regno animale selvatico. 

Shed

[1] R. Buongarzone, Gli dèi egizi, Carocci Editore, 2007. 

[2] Per informazioni sulla storia dell’Antico Egitto si rimanda a N. Grimal, Storia dell’Antico Egitto, Laterza, 1998.

[3] E. Bresciani, Testi religiosi dell’Antico Egitto, Mondadori, 2001, p. 238.

[4] Per le formule complete si rimanda a Testi delle Piramidi, formula 317.

[5] E. Bresciani, Sobek, Lord of the Land of the Lake. In Divine Creatures: Animal Mummies in Ancient Egypt, cur. Salima Ikram, Cairo: The American University in Cairo Press, 2005, pp. 199-206.

[6] Erodoto, Storie, Libro II, Bur Rizzoli, p. 241.

[7] E. Bresciani, Sobek, Lord of the Land of the Lake. In Divine Creatures: Animal Mummies in Ancient Egypt, 2005.


C. Riggs, Ancient Egyptian magic, Thames&Hudson, 2020. 

D.B. Redford, The Ancient gods speak: A Guide to Egyptian Religion, Oxford University Press, 2002.

E. Bresciani, Grande enciclopedia illustrata dell’Antico Egitto, Ed. De Agostini, 1998.

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G. Filoramo, Che cos’è la religione Temi, metodi, problemi, Einaudi, 2004.

G. Filoramo, M. Massenzio, M. Raveri, P. Scarpi, Manuale di storia delle religioni, Editori Laterza, 1998.

J. Assmann, La Morte come Tema Culturale – Immagini e Riti mortuari nell’Antico Egitto, 2000.

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M. Zecchi, Geografia Religiosa del Fayyum, Editrice La Mandragora, 2001.

M. Zecchi, Sobek of Shedet: The Crocodile God in the Fayyum in the Dynastic Period, Umbria: Tau Editrice, 2010.

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R. Buongarzone, Gli dèi egizi, Carocci Editore, 2007. 

S. Quirke, Exploring Religion in Ancient Egypt, Wiley Blackwell, 2014.

3 commenti su “Le divinità coccodrillo dell’antico Egitto

  1. Il vocabolo Sekhem che identifica il dio egizio rimanda al potere autoritario del Sachem presso le popolazioni indiane d ‘America .Temi molto interessanti da approfondire in una lettura meditata

  2. colgo l’occasione di questo articolo per condividere una piccola suggestione che mi assilla da tempo: invito, dunque, ad una riflessione autonoma sull’architrave all’ingresso della Collegiata di San Quirico D’Orcia

  3. As usual, the “esoteric” or “occult” websites while interesting for a while, leave me with the feeling of time wasted with myths generated by dualistic mind imaginings entirely within the mirage known as maya, the mundane samsara.

    If “civilization” is ever to escape the dark age in this time cycle, instigated by the self-chosen tribe, one must venture beyond the wall, out of the sleep-walking West to the Ancient superior knowledge (vidya is knowledge, not of things or ideas but direct knowledge) .. of the East. Thereby re-gaining slowly the former powers of man, held before the Fall (the instigation of Abrahamic Religions – Religare: to hold back, block from progress.

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