Bestiario dannunziano: il Liocorno e la Chimera

Nella prima raccolta di “faville”, Il venturiero senza ventura, la favilla Dell’attenzione accoglie un’altra demoniaca figura caprina associata ad una figura stellata. È raffigurata su una medaglia [1] dalle virtù terapeutiche che il poeta avrebbe ricevuto in dono mentre era costretto a letto malato:

Dal freddo metallo ebbi refrigerio prima che dalla bellezza. Poi, guardando il Liocorno ammansato presso la Vergine, dimenticai ogni patimento; e sempre tenni presso di me il dono sinché non fui guarito. […] Ora credo che si perpetui una qualche virtù medica in questo divino piombo, come in un pentacolo o in una candarìa. Non vogliono per oggi i miei pensieri ormai abitare altro paese che quello di monti ove il mostro barbato dal piede fesso, più capro che cavallo, si accovaccia e si assopisce accanto alla donzella seminuda.

[2]

Il “pentacolo” è la raffigurazione della stella a cinque punte di cui abbiamo già parlato; ad oggetti che recano tale raffigurazione varie correnti occultistiche attribuiscono un valore magico di carattere purificatorio da connettersi essenzialmente alla stella pentagrammatica della Spiritualità, quella con la quinta punta rivolta verso l’alto, da cui la “virtù medica” che scaturirebbe da amuleti [3] a forma di stella a cinque punte detti appunto “pentacoli”. Ma il pentacolo che avrebbe guarito d’Annunzio reca inciso un Liocorno che è un «mostro barbato dal piede fesso, più capro che cavallo». Un Liocorno, insomma, che è molto simile alla più stereotipica delle sembianze zoomorfe di Satana, il capro:

Il capro è, se così si può dire, l’emblema consacrato al re degli Inferi. Tutta la demonografia ci dipinge costantemente Satana sotto l’apparenza di un capro, e se si deve credere ai demonologi, è sotto questa forma che il diavolo presiedeva alle turpitudini dei shabbat o riceveva gli omaggi immondi in scene prive di eleganza.

[4]

Quindi quel “pentacolo” non può non avvicinarsi pericolosamente alla stella dell’Animalità, quella che spesso reca inscritta la testa del capro/Satana. Oltretutto è nota la simbologia fallica del Liocorno e d’Annunzio, descrivendo il Liocorno inciso sul suo “pentacolo” come un «mostro barbato dal piede fesso, più capro che cavallo» che «si accovaccia e si assopisce accanto alla donzella seminuda» sembra proprio voler sottolineare la pregnanza erotica di questo mostro mitologico cogliendolo in una sorta di torpore postcoitale accanto ad una ben poco verginale “donzella seminuda”. Quel Liocorno sembra proprio un capro/Satana lussurioso perfettamente a proprio agio all’interno della stella nera dell’Animalità, stretto parente della capra d’inferno dall’occhio di stella de Il primo segno dell’alta sorte

Altro stretto parente dell’iniziatica capra dimònia e del Liocorno/capro satanico sembra essere il capro la cui pelle diverrà l’otre del poemetto alcyonio intitolato appunto L’otre:

[…] ben barbato e torvo 
e di téttole dure ornato il gozzo 
e d’aspre corna il fronte invitto al cozzo, 
negli occhi sùlfure, atro come corvo! 

Sagliente egli era, e mogli in abondanza 
ebbe, e feroce fu nelle sue pugne; 
ma al suon d’un sufoletto, erto su l’ugne 
fésse, imitava il satiro che danza.

[5]

Anche questo capro è un “mostro barbato dal piede fesso” come il Liocorno ed è nero (“atro”) e dagli occhi sulfurei come la nera capra d’inferno dall’occhio fosforescente, ma al contrario degli altri due in lui sono espliciti il tratto lussurioso («sagliente egli era, e mogli in abondanza / ebbe») e l’ascendenza paganeggiante («imitava il satiro che danza»). Il capro alcyonio danza come un satiro al suono d’uno zufolo, lo strumento del dio Pan:

Divinità dei pastori e delle greggi, quasi una sorta di antropomorfizzazione della natura, Pan subì molte personificazioni nelle diverse generazioni divine del mondo classico. […] Simbolo degli appetiti sessuali irrefrenabili, Pan era spesso raffigurato con attributi caprini e con tipico zufolo (la siringa) che ne ha accompagnato l’effigie fino ai giorni nostri. Il ricordo forse più vivo di Pan si ritrova in una figura tipica della religione cristiana, il diavolo. I piedi caprini, le corna, la folta peluria e la coda sono attributi ricorrenti della divina creatura silvestre dell’Arcadia che […] è stato trasformato in Signore degli Inferi ed eterno tentatore del genere umano. 

[6]

La diabolicità del capro alcyonio torvo atro e dagli occhi sulfurei, feroce e lussurioso discende dunque dall’archetipo classico del diavolo cristiano, il dio Pan con il suo corteggio di satiri. 

Arnold Böcklin, Spring Evening, 1879

Dopo aver preso in esame questi tre capridi dannunziani, possiamo concludere che tutti e tre possiedono una forte rilevanza simbolica che tradisce l’importanza che capre e capri rivestono nell’immaginario dello scrittore. Nell’opera di d’Annunzio sono innanzitutto simboli della lussuria, quella Lussuria Onnipossente madre a tutti i misteri e a tutti i sogni [7] che tanto alimenta la vena artistica del Pescarese. Violantilla e la druda, favilla de Il secondo amante di Lucrezia Buti, ci offre il destro per esibire un semplice esempio di capra dannunziana esplicito simbolo di lussuria:

Per me si chiama Violantilla quella giovine lasciva come una capretta non villosa, che si lascia mettere la mano nella fenditura della gonnella, un poco più insù delle ginocchia, e si lascia strizzare e sbacciucchiare dall’amoroso drudo.

[8]

Violantilla è una giovane donna «lasciva come una capretta»: la capra in questo caso ha l’inequivocabile ed univoco significato di simbolo archetipale della lussuria femminile. Tuttavia capre e capri dannunziani spesso non sono soltanto e semplicemente simboli della lussuria sic et simpliciter come nel caso appena citato, ma simboli della prodigiosa sintesi di spiritualità ed animalità, di bestialità e divinità che la lussuria è in grado di operare. La Lussuria Onnipossente che occupa una posizione di assoluta preminenza nel pantheon dannunziano è infatti divina e bestiale al contempo:

Era una e diversa. Eran palesi 
nel suo corpo le origini divine  
e bestiali
.

[9]

Si può dire che d’Annunzio, partendo dal coacervo simbolico depositato dalla tradizione nella capra e nel capro, trasformi spesso e volentieri queste bestie nell’emblema della duplice natura della Lussuria, del suo essere sia divina che bestiale. La capra d’inferno de Il primo segno dell’alta sorte, il Liocorno/capro satanico di Dell’attenzione ed il capro/satiro lascivo de L’otre possono sicuramente essere interpretati quali simboli della lussuria con la “l” minuscola.

Ulisse Aldrovandi, Liocorno/Bicorno, Monstrorum Historia, 1642

Ma non può non saltare all’occhio come tutte e tre queste figure caprine presentino una spiccata fisionomia sovrannaturale e siano, in un certo senso, “divine”. Le prime due partecipano chiaramente della natura del diavolo, il dio del male del cristianesimo; l’ultima partecipa della natura di Pan, il dio che nella mitologia classica personifica il potere procreativo universale e che funse da archetipo del diavolo cristiano. Sono quindi tre figure “divine”, la cui divinità si presta perfettamente a simboleggiare la natura divina della Lussuria con la “L” maiuscola, la dea patrocinatrice dell’ispirazione artistica dannunziana. Ma la peculiarità della fisionomia divina del diavolo cristiano e del dio Pan pagano che le tre figure caprine si portano addosso si presta perfettamente a simboleggiare anche la natura bestiale della Lussuria, dal momento che Satana e Pan sono due dèi-bestia. Due dèi-bestia del sesso, che è l’espressione dell’animalità maggiormente passibile di sublimazione artistica, vero e proprio “lievito” mentale per il nostro scrittore.

Non è probabilmente un caso dunque che un d’Annunzio diciannovenne inserisca nella novella d’apertura del volume che segna il suo esordio come prosatore, Terra vergine, una capra diabolicamente nera e con le iridi giallo zolfo. Questa capra satanica guarda l’amplesso agreste dei due protagonisti adolescenti della novella, Tulespre e Fiora:

Fiora si accostò avida e bevve. […] Tulespre la involse tutta d’uno sguardo di libidine.

Baciami! – e il desiderio gli strozzava la voce in gola.

No.

Baciami…

Le prese la testa fra le palme, l’attirò a sé, e con gli occhi socchiusi stette a sentirsi correre per tutte le vene la voluttà di quella bocca umida premuta all’arida bocca sua.

No – ripeté Fiora sguizzando indietro, passandosi le mani sulle labbra come per toglierne il bacio. Ma tremava più d’una vetrice, ma nella carne turgida pel calore della corsa aveva le prurigini, ma la lascivia c’era nell’aria, c’era nel sole, c’era negli odori.

Una testa nera di capra sbucò tra il fogliame guardando con le miti iridi gialle quel groppo vivo di membra umane. 

[10]

La presunta mitezza delle iridi non tragga in inganno: dietro la parvenza “domestica” è ben riconoscibile la nera capra diabolica dagli occhi fosforescenti che ne Il primo segno dell’alta sorte guardava il futuro poeta penetrare con un coltello/fallo una conchiglia/vagina espletando un rituale iniziatico di carattere sessuale e che qui guarda l’iniziazione al sesso di Fiora. È la capra divina e bestiale emblema della Lussuria divina e bestiale ed il “posto d’onore” che le viene riservato, in chiusa della prima novella del primo volume di prose, è particolarmente suggestivo: sembra quasi svelare la volontà più o meno consapevole dello scrittore in erba di porre l’emblema della Lussuria quale insegna araldica alla testa della propria ventura produzione letteraria.

Louis Welden Hawkins, The Sphinx and the Chimera, 1906

La capra dimònia de Il primo segno dell’alta sorte è riconoscibile a un occhio attento anche in un’altra favilla de Il secondo amante di Lucrezia Buti, La chimera e l’altra bocca. Qui il futuro poeta ha quattordici anni e visitando il Museo Archeologico di Firenze in compagnia della coetanea Clemàtide si imbatte in un diabolico mostro mitologico:

Nel mezzo, apparì un viluppo di forme discordi e feroci, una sorta di spasimo metallico lustrante in una pelle indicibilmente verdebruna: la Chimera!

Mi lacerò la mia memoria scolastica e mi riaprì non so che cicatrice nel costato. Pronto il «fior del ginnasio» pensò e forse compitò: Prima leo, postrema draco, media ipsa chimaera.

[11]

Chìmaira in greco significa “capra”, la Chimera è infatti tradizionalmente rappresentata con testa e corpo di leone, una testa di capra sul dorso e coda di serpente. Proprio da quella testa di capra, considerata evidentemente il tratto saliente, il mostro mitologico prende il nome di Chimera che altro non significa che capra, appunto. E in quanto capra simbolo di Lussuria non può non insufflare nell’adolescente d’Annunzio una violenta bramosia erotica:

Mi accostai alla belva triplice con una specie di risolutezza ostentata, con una specie di braverìa puerile, come se fosse veramente armata di fiamme, flammas ore vomens. E le misi una mano nella bocca con tanta furia che le unghie e le nocche mi dolsero […] «Le brucia la bocca?» chiedeva la Clemàtide […] Non la riconoscevo più. Mi pareva fosse diventata nuda, tutta nuda e bruciante, a un tratto. Se la Chimera spirava la fiamma dalla fauce, ella spirava coeci Cupidinis ignes dalla narice tumida e acre. […] Fu quello, in quella stanza di museo deserta, il mio primo turbamento profondo di amante puerile, il primo tumulto lirico delle forze oscure sollevate dalla pubertà. Il maschio precoce mi si rivelò a un tratto come in un delirio sfrontato.

«Fammi sentire se la tua ti brucia.» […] l’afferrai senza ritegno con una violenza che pareva comunicarsi a me dal bronzo mordace, quasi snodarsi nei miei muscoli dalla contrattura di metallo. E seppi che si poteva mordere una bocca di donna come non so qual cosa ghiotta.

[12]

La favilla successiva, Novo encomio della mia arte, parla dell’«ora della Chimera» come di un «grande e appassionato evento»:

Grande e appassionato evento rimane per me l’ora della Chimera, quando appunto la mia vita cominciava ad essere la mia arte e la mia arte cominciava ad essere la mia vita. In tutti i miei sensi la realtà già s’imprimeva con gagliarde impronte; ma da tutto ciò che il mio occhio potea vedere, da tutto ciò che la mia mano potea toccare, il mio spirito già traeva simboli ardenti.

[13]
Franz von Stuck, The Kiss of the Sphinx, 1895

La favilla che segue, Volontà Voluttà, chiosa in questi termini l’episodio della Chimera:

Nella stanza del Museo etrusco, col mito della belva spasimante da me interpretato, è anche il mito interpretato della mia vita senza freno, della mia vita di passioni e di piaceri considerata come una perigliosa disciplina perigliosamente intesa ad accrescere le potenze dello spirito. Il sùbito émpito di forze, belluine e divine a un tempo, sollevato in me da quella prima conoscenza, da quel primo assalto a un mistero carnale che già troppo aveva acceso la mia immaginazione fanciullesca, mi rivelò una legge profonda a cui la mia volontà e il mio istinto obbedirono e obbediscono per aggrandire il mondo ideale dall’uno e dall’altra creato ogni giorno. Sùbito mi sentii capace di sopportare con eguale prodezza la più gran somma di piacere e la più gran somma di conoscenza. Sùbito in me sentii, di là dal verso di Terenzio smisuratamente di sopra al vieto verso di Terenzio, il coraggio di divenire uomo intero, di essere e di persistere contro tutto e contro tutti uomo compiuto abbattendo per me i due termini corrosi e spianando il bivio di Eracle […] e riducendo i due freschi termini alla primiera origine comune e riappiccandoli pel capo, come in un’erma bifronte: VOLONTÀ VOLUTTÀ. 

[14]

L’ora della Chimera/capra è un evento iniziatico per il giovanissimo d’Annunzio, il futuro scrittore che passerà alla storia come colui che fece (o che tentò di fare!) la sua vita come un’opera d’arte: la sua vita comincia ad essere la sua arte e la sua arte comincia ad essere la sua vita quando il «primo turbamento profondo di amante puerile» coincide con il «primo tumulto lirico delle forze oscure sollevate dalla pubertà». La Lussuria bestiale e divina che spira dalla Chimera/capra insuffla in lui un «sùbito empito di forze, belluine e divine a un tempo» e gli rivela «una legge profonda»: il piacere come «perigliosa disciplina perigliosamente intesa ad accrescere le potenze dello spirito», la «più gran somma di piacere» potendo convertirsi nella «più gran somma di conoscenza».

Interpretando «l’ora della Chimera» quale «grande ed appassionato evento» che dona al futuro poeta la consapevolezza di come la Lussuria bestiale e divina sia per lui il più efficace veicolo di conoscenza, di arricchimento spirituale e, soprattutto, la sommovitrice di quel tumulto lirico da cui scaturirà la sua arte, si può provare a sciogliere l’enigma del sibillino riferimento cristologico che accompagna l’apparizione della Chimera. L’epifania della bronzea statua del mostro mitologico avrebbe riaperto una cicatrice nel costato dell’adolescente d’Annunzio:

Nel mezzo, apparì un viluppo di forme discordi e feroci, una sorta di spasimo metallico lustrante in una pelle indicibilmente verdebruna: la Chimera!

Mi lacerò la mia memoria scolastica e mi riaprì non so che cicatrice nel costato. 

[15]
Chimera di Arezzo, bronzo etrusco

Nel Vangelo secondo l’Avversario, lunga e molto interessante favilla de Il venturiero senza ventura, un soldato romano «sordido e irsuto come capro» sfonda il costato di Cristo col ferro dell’asta. Il giovine dalla sindone atterra il bruto, gli strappa l’asta dal pugno e riconosce nel ferro di quell’asta «la prima foglia del suo lauro avvenire»:

E i soldati di Roma […] guatano il Mediatore [Cristo] crocifisso […] Un d’essi, sordido e irsuto come capro, gli sfonda il costato col ferro dell’asta.

Sento su me il getto del sangue e del siero. Una forza subitanea mi sale dal macigno del Golgota ove poggio le calcagna tristi, disperato di non avere ali. Atterro il bruto, lo calpesto, gli strappo l’asta dal pugno. Tra il buio e gli sbattimenti delle fiaccole mi perdo.

Il ferro di quell’asta è la prima foglia del mio lauro avvenire.

[16]

Il giovine dalla sindone [17] è una sorta di speculum (specchio deformante, ma pur sempre specchio!) Christi, un inquietante alter ego di Gesù:

La sua [di Gesù] ombra passa sotto i miei piedi combaciandosi con la mia dietro di me e la mia dietro di me prolunga la sua […] E solo io sono il suo seguace avvinto alla sua ombra, solo il suo discepolo temerario senza nome e senza voce, il giovine dalla sindone, vestito di lino sopra la carne ignuda. […] Nell’orto mi celo. Sono il più doloroso degli olivi abbarbicati al suolo avaro, là dove i discepoli pasciuti di pasqua ronfano. Patisco col solitario. Le gocciole della sua fronte colano su la mia gota; i grumoli del suo disperato sudore mi si struggono in bocca.

[18]

Ma è anche un’incarnazione precedente di d’Annunzio stesso, come si evince chiaramente dalla lettura dell’intera favilla. Quindi il giovine dalla sindone, essendo un doppio di Cristo, patisce anch’esso la ferita nel costato che Cristo subisce ad opera del soldato «sordido ed irsuto come capro». E d’Annunzio, essendo una reincarnazione del giovine dalla sindone, reca sul proprio costato la cicatrice di quella ferita. La Chimera/capra riapre questa cicatrice inoculando nell’adolescente il germe della consapevolezza di come la Lussuria belluina e divina sia per lui «il più attivo levame lirico».

Il giovine dalla sindone/futuro d’Annunzio riconosce nel ferro dell’asta [19] del soldato/capro «la prima foglia del suo lauro avvenire»: il primo germe della sua futura gloria poetica. Attribuendo al soldato/capro il connotato di emblema della Lussuria, possiamo concludere che quel ferro/foglia dell’asta che è la prima foglia del lauro avvenire di d’Annunzio origina, germina, germoglia dalla Lussuria, passione bestiale e divina che come nessun’altra alimenta la vena poetica dannunziana.


[1] Questa medaglia è riprodotta in Carl Gustav Jung, Psicologia e Alchimia, Figura 262: “L’Unicorno lunare – rovescio di una medaglia di Antonio Pisano (1499)”. L’immagine è tratta da un’opera di Paracelso edita a Basilea: dettaglio interessante se si tiene conto che la favilla dannunziana Dell’attenzione è ambientata a Zurigo.

[2] Gabriele d’Annunzio, Prose di ricerca, I, cit., p. 1113.

[3] Cfr. Attilio Mazza, D’Annunzio orbo veggente, Pescara, Ianieri, 2008 e Attilio Mazza, Antonio Bortolotti, Gli amuleti di D’Annunzio, Pescara, Ianieri, 2011.

[4] Louis Charbonneau – Lassay, Il bestiario del Cristo, cit., p. 281.

[5] Gabriele d’Annunzio, Alcyone, L’otre, vv. 5 – 14 in Gabriele d’Annunzio, Alcyone, Milano, Garzanti, 1995, p. 334.

[6] Massimo Centini, Le bestie del diavolo, cit., pp. 70 – 71.

[7] Gabriele d’Annunzio, Intermezzo, Preludio, vv. 98 – 99 in Gabriele d’Annunzio, Tutte le poesie, I, Roma, Newton Compton, 1995, p. 398.

[8] Gabriele d’Annunzio, Prose di ricerca, I, cit., p. 1269.

[9] Gabriele d’Annunzio, Intermezzo, Preludio, vv. 70 – 72 in Gabriele d’Annunzio, Tutte le poesie, I, cit., p. 397.

[10] Gabriele d’Annunzio, Tutte le novelle, Milano, Mondadori, 1992, p. 9.

[11] Gabriele d’Annunzio, Prose di ricerca I, cit., p. 1276.

[12] Ivi, pp. 1276 – 1277.

[13] Ivi, p. 1279.

[14] Ivi, p. 1280.

[15] Gabriele d’Annunzio, Prose di ricerca, I, cit., p. 1276.

[16] Ivi, p. 1155.

[17] Misterioso personaggio evangelico che d’Annunzio trasforma nel protagonista ed io narrante del Vangelo secondo l’Avversario, compare anche in Contemplazione della morte.

[18] Gabriele d’Annunzio, Prose di ricerca, I, cit., pp. 1140, 1144, 1154.

[19] Il ferro di un’asta si definisce tecnicamente “foglia”.

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