Riflessioni sul vegetarianismo

Esiste una catena che va dal “nutrimento” invisibile e immobile del minerale, a quello primordialmente articolato della pianta, a quello della bestia erbivora e poi carnivora, in cui la caduta originale si manifesta per la prima volta in forma drammatica, a quello umano, in cui è massima la tensione tra colpa e redenzione


di Daniele Capuano
immagine: René Magritte, “The Natural Graces”, 1964


È quasi impossibile muovere obiezioni etiche al vegetarianismo. Del resto, l’etica è un’invenzione o una prospettiva che non appartiene all’integrità arcaica, in cui affondano quasi tutte le azioni umane, la ritualità umana come sintesi vivente, simbolica, di celebrazione e teurgia, accettazione e critica, ripetizione e rinnovamento. Nella vita antica l’alimentazione vegetariana rientra in un sentiero spirituale che è un nesso unitario di voti difficilmente separabili: di solito l’accompagna l’astinenza sessuale e nel suo insieme si configura come una rottura con le abitudini mondane, che si fondano invece su una ritualizzazione più o meno consapevole della carnalità, delle passioni, del samsara – e quindi dell’amore fisico, dell’uccisione di uomini e animali, della dieta carnea.

L’atto del sacrificio animale ricorda e conserva alcuni tratti del mondo ancor più antico, arcaico, in cui i cacciatori conoscevano predando e predavano conoscendo, in un intreccio tragico di aidos ed esaltazione, trepida sensibilità e brutale coraggio: ma come actus tragicus, come rappresentazione teatrale archetipica, come rito che fonda e plasma la comunità, l’uccisione dell’animale attraversa tutte le culture, la nomade, la contadina, la urbana sacrale e poi semiprofana e poi imperiale.

Sacrificando (letteralmente: “rendendolo sacro”, dal lat. sacer-facere) l’animale si riconosce implicitamente la sua somiglianza con noi e insieme la sua differenza: l’animale è un nostro parente, un parente divino, velato, misterioso – anche noi siamo animali, abbiamo una struttura conoscitiva affine alla sua, eppure l’animale carnivoro non sacrifica e l’erbivoro non mangia carne. L’uomo, animale rituale, non conosce – se non nello spazio di alcuni riti orgiastici – l’esaltazione del predatore che, dopo aver inseguito la preda, affonda i denti nella sua giugulare o la fa a brani ancora viva.

Il sacrificio dice: questo essere, che è mio parente, non è mia proprietà, appartiene agli dèi, è un mediatore divino; uccidendolo consegno la sua invisibile sostanza, la partie de Dieu, all’invisibile, e introduco in me qualcosa che media tra morte e vita, un corpo morto ancora fremente di vita, che preservando la mia vita e nutrendola si trasfonde in essa, si nutre di essa. Il nutrimento è assimilazione d’anima, d’animale, nel caso dell’alimentazione carnea attraverso l’animale stesso. Quel che conta è che si tratta di un rito, quindi di un nucleo vivente che le varie interpretazioni non esauriscono: se diciamo che l’animale è assunto in una sfera più alta, coinvolto in un circuito trasmutatorio attraverso la presupposizione di un suo implicito consenso (che è implicita ammissione dell’animale nella domus umana, e quindi dell’addomesticamento), diciamo la verità, ma non tutta la verità.

Sebastiano_Ricci_-_Sacrifice_to_Silenus_-_WGA19439
Sebastiano Ricci, “Sacrifice to Silenus”, 1723.

Del resto non c’è riflessione mitica che taccia il nesso tra una caduta dall’ottimo stato primordiale e l’uccisione sacerdotale degli animali da cui trarre nutrimento: ma questo non è abbastanza, perché ogni elemento della vita umana partecipa di questa caduta, anzi, ciò che chiamiamo uomo è questa caduta; anche il tentativo di una élite spirituale di riaccostarsi all’Eden astenendosi dalla carne animale e da ogni sorta di violenza.

Famosa obiezione antivegetariana: «Forse che cogliere e mangiare vegetali è un atto privo di violenza?». Non possiamo fondare un voto spirituale su congetture relative alla struttura sensoria e conoscitiva di un essere altro da noi: certo dell’animale presumiamo di capire di più, ma è impossibile separarlo troppo nettamente dal vegetale, che quasi certamente non manca di percezioni. Alla radice del vegetarianismo classico non c’è l’“antispecismo” di alcuni vegetariani contemporanei, che è contaminato dall’illimitatezza [1] propria del pensiero moderno, evidentissima ad esempio nel dogma evoluzionistico (cui a volte i vegetariani “laici” indulgono): un antispecismo conseguente offre il destro all’obiezione appena citata.

D’altro canto, nessuno nega che la nutrizione è o implica la distruzione di un’altra forma vivente, sebbene al contempo quasi tutti abbiano confusamente presente una notevole differenza tra l’uccisione di un animale e la raccolta e preparazione di un vegetale. Ma la differenza sarà solo nel fatto che l’animale grida e resiste visibilmente e udibilmente, come osserva in un magistrale pezzo di retorica Plutarco, mentre la pianta è silente e immobile, o almeno non dà segni a noi percepibili di rifiuto? Anche questo è abbastanza debole: sappiamo che le piante danno segni molto sottili della loro “volontà”, come direbbe Schopenhauer, o della loro “anima”, come la chiamerebbe Fechner. Ma una differenza c’è: ogni uomo sente che nel rapporto caritatevole con un altro essere deve entrare una considerazione, fallibile e aperta ma efficace, del modo in cui il secondo sembra percepire e sentire il mondo.

LEGGI ANCHE  Il "sangue del Sole": sul sacrificio umano nella tradizione precolombiana

E tuttavia anche questo non è risolutivo: alla base della cultura umana, e della spiritualità più antica e profonda, non c’è una compassione puramente sentimentale, ma una compassione radicata in una visione più alta, divina, degli esseri viventi. Non che la compassione arcaica prescinda completamente dalla sensibilità verso gli stati dell’essere che ne è l’oggetto, anzi: ma la radice, appunto, il fondamento, è un altro. Si punisce chi ha infranto una legge facendolo soffrire in vista di una sua trasformazione, che non è esattamente “il suo bene” nel senso moderno, ma presuppone comunque la sua adesione ad un patto sacro, ad un’alleanza, ad un voto comune. Si agisce come se il suo status sia qualcosa, non di volontario nell’accezione dell’etica, ma a cui è stato o può essere o dev’essere iniziato: si dà per certo che il fine di ogni nascita e natura sia una rinascita e una resurrezione.

The Nymph Echo, 1936 - by Max Ernst
Max Ernst, “The Nymph Echo”, 1936.

Analogamente, in modo diverso ma non contrastante, si considera l’animale, che non fa parte della comunità allo stesso titolo degli altri uomini, ma non ne è nemmeno escluso (sia l’animale libero e selvatico, scintilla divina che possiamo catturare spinti da una necessità che è anche un gioco – perché il mondo stesso è un gioco in cui l’unità divina si comunica agli esseri in un’opposizione sempre aperta, in una relazione sempre polare, antinomica, ambivalente – sia a fortiori l’animale addomesticato, su cui l’uomo esercita una signoria che a differenza di quella divina, di cui è immagine, è soggetta a vincoli assai pesanti e rischiosi, poiché anche l’uomo è un animale), come qualcuno che ha acconsentito implicitamente, silenziosamente, all’alleanza umana, alla cultura e al culto umano, di cui è l’uomo però a portare la responsabilità, la culpabilitas: e l’alimentazione è questa prova mortale, questa ordalia che non ha nulla di garantito, anche se la sua tragica sostanza induce fatalmente gli attori umani all’indurimento del cuore, alla banalità del male.

In altri termini, mangiare animali è un segno di caduta, come la divisione dei sessi e delle volontà, e quindi l’esistenza del potere e del tribunale e dell’ineguaglianza: ma la cultura umana non può che aprirsi una via nella caduta, e vivere nella tensione tra il tamas dell’eccidio dato quotidianamente per scontato e il sattva dell’élite spirituale che cerca di riparare l’immagine edenica attraverso la rinuncia e l’interiorizzazione. Il rito che media non è altro che la vita dell’uomo nella sua fragilità samsarica, la vita del “popolo” o vita ordinaria, comune, in cui la violenza della caduta è riattualizzata nelle forme che il sacrificio solleva in uno spazio di possibilità e necessità, il tragico (possibilità aperta dalla necessità): uno spazio così dinamico da confondersi ogni volta con il movimento discendente della caduta, pur essendone virtualmente la trasmutazione.

Quindi il fascino del sacrificio animale si riduce a questo, e non è poco: il sensus communis, il consensus gentium come volontà almeno implicita di “sporcarsi le mani” con il samsara, con la caduta, per indirizzarla al suo telos trasmutatorio. Per questo le religioni profetiche tendono a preservare la dieta carnea, santificandola: perché il profetico è la discesa della visione nel quotidiano, nel popolare, è la sorella povera e potente dell’alchimia resurrezionale; e invece le religioni gnostiche o sapienziali tendono a proporre direttamente un’estensione della dieta vegetariana, monastica, edenica, al maggior numero possibile di “fedeli” e praticanti. Nel profetico c’è un odore dionisiaco di sangue, un’esaltazione arcaica sotto le specie dell’ordinario, del materiale e del carnale: la visione dev’essere lievito, fermento alchemico.

LEGGI ANCHE  Il sacrificio di Isacco nell'iconografia ebraica

Ho il sospetto che la dottrina orfico-pitagorico-empedoclea della trasmigrazione delle anime, che in epoca classica avrebbe dovuto secondo questi iniziati persuadere all’astensione dalle carni, in epoca arcaica fosse alla base di una visione generale del nutrimento, compreso quello carneo. Se ci nutriamo solo di anime, secondo il detto inuit, e se le anime o monadi sono in continua trasmigrazione, in un flusso perpetuo, allora tutto è in tutto, e ogni cosa (ogni atto) sarà un crocicchio in cui si incontrano e da cui si proiettano tutte le relazioni: quindi c’è una catena che va dal “nutrimento” invisibile e immobile del minerale, a quello primordialmente articolato della pianta, a quello della bestia erbivora e poi carnivora, in cui la caduta originale si manifesta per la prima volta in forma drammatica, a quello umano, in cui è massima la tensione tra colpa e redenzione, l’arco pontificale, sacerdotale, che congiunge la terra del bisogno e della crudeltà al cielo della carità e dell’armonia; per giungere infine al cannibalismo mistico, all’eucarestia che ricostituisce l’Uomo tramite l’Uomo stesso. Il predatore imita il verso della preda, si identifica con essa: il sacrificatore proietta se stesso sull’altare, e alla fine si mangia sempre se stessi, o comunque si mangia l’Uomo, perché l’assimilazione presuppone la somiglianza e anzi l’identità mistica.

Noahs Sacrifice After The Deluge by Giovanni Benedetto Castiglione
Giovanni Benedetto Castiglione, “Noah’s Sacrifice after the Deluge”, 1650-1655.

All’uomo caduto è impossibile recuperare la natura, essere naturale, compiere atti naturali. Nel De radiis al-Kindi osserva che il sacrificio animale ha efficacia teurgica, magica, proprio perché l’animale patisce una morte contra naturam, voluta dall’uomo che così si carica del suo rischio, ponendosi sul crinale evanescente tra magia nera e bianca, stregoneria e propiziazione.

Il cibo è mangiato dagli esseri e li mangia: per questo si chiama anna. (Taittiriya-Upanishad)

Il mangiare è un circolo, un flusso. Il primo corpo o guaina è quella fatta di cibo. Il mondo continuamente mangia ed è mangiato: dev’esserci stato un mithaq preesistenziale, in cui ogni specie ha manifestato il suo assenso alla creazione così com’è – e al tempo stesso la vita animale, la vita rappresentativa, sensibile, senziente, la vita di sogno dell’animale (di sogno perché il suo desiderio determina, delimita gli oggetti, le essenze, separandolo relativamente dalla radice, dalla scaturigine unitaria – è questa la sua angoscia) resiste angosciata al riassorbimento nel circolo, oppone un’individualità a ciò che è comune e transindividuale. Tale angoscia esprime sia la caduta, la rottura dell’armonia, sia l’estasi divina nel creare, l’abisso di stupore su cui si staglia la creazione.

Ciò nonostante, la sofferenza animale è pura e la sua angoscia è (secondo Rilke) comunque volta all’Aperto, all’unità con Dio; l’autocoscienza e la ragione umane, che danno consistenza alla colpa e apprestano le condizioni per un’angoscia della morte ormai illimitata, onnipervasiva, fanno dell’uomo la crux dell’universo, il punto critico e decisivo, il punto più basso che è il punto della risalita, il criminale che si fa sacerdote (e il sacerdote decaduto a criminale). In lui il circolo del cibo raggiunge il culmine della propria tragica paradossalità: se il predatore animale, con la sua brama avventurosa, è investito da una sorta di libertà di affrettare la natura nelle sue prede, l’uomo cacciatore-allevatore, eroe-sacerdote, sente in sé una libertà illimitata che coincide con l’illimitata angoscia, il suo potenziale onnivorismo è l’espressione smagliante della sua passione di vita e di conoscenza, della sua super-animalità (e sotto-animalità), e si dà limiti solo per trasformare l’illimitato in infinito, per costruire ponti verso l’unità.

L’uomo è davvero l’animale malinconico, l’animale malato: dopo un certo livello di sofferenza e colpa si vive la morte, non si può tollerare il finito, tutto dev’essere impregnato di significato, di movimento ascendente, di luce che strazia e allevia.


Note:

[1] Illimitatezza nel senso dell’apeiron pitagorico: l’indeterminato, l’infinito potenziale, non quello attuale: la scienza “quantitativa” moderna è segnata dall’apeiron, poiché tende ad escludere o marginalizzare le qualità, il peras, il “limite” che (secondo gli antichi) è ciò che plasma l’illimitato e rende possibile la conoscenza.


Greekreligion-animalsacrifice-corinth-6C-BCE
Rappresentazione di una cerimonia religiosa che prevede l’immolazione di un agnello, Corinto, Grecia, VI secolo a.C.

Appendice:

Si potrà pensare che l’onus probandi ricada sul carnivoro, che sia lui a doversi giustificare: ma non è bene parlare di accuse e difese, è opportuno parlare semmai della vita, e della luce che può illuminarla.

LEGGI ANCHE  Sangue, Gens, Genius: riti familiari a Roma antica

La scelta di astenersi dalle carni proviene non di rado da un’attenzione trepida e intera al nutrimento, e la intensifica e prolunga: il vegetariano dal cuore limpido non cadrà nella trappola della self-righteousness, sentirà che nemmeno mangiando miglio e cavoli si è innocenti. Se lascia plasmare il proprio pneuma – l’immaginazione vivente nei soffi della fisiologia sottile – dalla propria dieta, non può non arrivare a intuire che tutto è dinamicamente interconnesso, e che dunque chi sbrana il suo arrosto di manzo non è separato, con un taglio angelicamente netto, da una mensa carica di frutti della terra. Nel tempo, grano e loglio sono mescolati in ciascuno, perché ciascuno è il campo della parabola evangelica.

Se proprio si vuol porre la domanda su chi si salva, si salva (classicamente: viene iniziato ai Piccoli Misteri) chi trasforma quanto più male può nella propria sofferenza: ovvero chi non cerca di dare ma di ricevere sofferenza, di trasferire la sofferenza dall’altare visibile all’altare interiore e invisibile. Tuttavia, così facendo, non sembra si esca dalla logica sacrificale, semmai la si esalta ed esaspera: ci si libera dal sacrificio dell’animale solo sacrificando se stessi, o l’animale in se stessi; si cessa di rubare il cibo quando ci si fa cibo, quando ci si imbandisce come pane e vino sulla mensa del tempo e dello spazio.

A volte si ha l’impressione che il vegetariano sia un sentimentale, e identifichi il male con la sofferenza. Male è indubbiamente la sofferenza stessa, subìta o inflitta, che non si apre alla luce. Quando la si infligge, ad esempio come pena, si deve supporre nel soggetto una volontà o almeno una possibilità di aprirsi alla luce: e ciò solo quando è strettamente necessario. Nel caso dell’animale, poiché non può essere reso parte a tutti gli effetti della comunità umana, è molto dubbio che tale necessità si dia. Perciò, come insegna il diritto, in dubio è meglio astenersi dal dare dolore o morte.

Un’obiezione sottile, ai confini del sofisma, che si muove al vegetariano, almeno quando la controversia si allontana dalla morale e vira alla metafisica, è la sicurezza con cui parla del nutrimento appunto vegetale (uno sviluppo dell’accusa di self-righteousness). Certo il vegetale non sperimenta la “morte” come l’animale. Quando lo mangiamo lo distruggiamo, è indubbio, ma dobbiamo espiarne la distruzione senza per questo purificarci da un’uccisione. E non è solo per necessità che il vegetariano filosofo lo mangia, separandolo dalla terra e assimilandolo a sé: il vegetale è così lontano dall’uomo, dall’animale consapevole, che questi può legittimamente credere gli si stia offrendo affinché ne tragga vita e luce; la luce è l’unico “fine” del vegetale, dentro e fuori la terra.

Se il vegetariano non coglie la pianta solo perché non gli resiste, solo perché è un agnello che non bela, la porta fuori dal suo ventre e la introduce nel suo con la consapevolezza che ne vivrà e ne morirà: ogni suo atto e pensiero cercherà di farla risorgere come la purezza e la dirittura che in lei si manifestano, radicata o sradicata che sia.

Per quanto riguarda, infine, i vegani, coloro che si astengono dai prodotti animali anche quando non comportano uccisione (il latte, le uova, il miele, tutti sommi simboli del divino, soprattutto della Dea), il vegetariano li approva se non assolutizzano il loro radicalismo contingente, la loro testimonianza. I crimini contro i quali testimoniano, o possono testimoniare, i vegani, sono l’allevamento intensivo industriale, la macellazione aggravata da orrori di sterminio totalitario, la schiavitù più opaca di quella antica, coperta dall’ipocrisia più nauseante. Ma allevare gli animali, se non li si uccide e non li si deruba del necessario, non è, per il vegetariano, un atto impuro di per sé: anzi, è questo uno dei pochi modi legittimi di accoglierli nella nostra comunità.

In un mondo retto dall’amore e dalla saggezza, non esiste, o non ha valore, una purezza astratta, meramente negativa. Il bios philosophikos, l’esistenza innamorata di Sophia, include in sé la violenza, è la gloria umile di un equilibrio vivente, di una pace trasparente che non può non tingersi del sangue della porpora regale, anche – e forse soprattutto – quando le mani si astengono dal versarne.

The Sacrifice of Iphigenia 1757 by Giovanni Battista Tiepolo
Giovanni Battista Tiepolo, “The Sacrifice of Iphigenia”, 1757.

Un commento su “Riflessioni sul vegetarianismo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *