Extrema Ratio: cenni sul suicidio “sacro”

Una esaustiva trattazione sul modo in cui, attraverso i secoli e le tradizioni culturali, è stato considerato e vissuto l’atto del suicidio rituale.  


di Roberto Eusebio
immagine: Jacques-Louis David, “La morte di Socrate”, 1787

 

Il 25 novembre 1970 lo scrittore, tre volte proposto al premio Nobel per la letteratura, Kimitake Hiraoka, meglio conosciuto come Yukio Mishima, si suicida a soli 45 anni. Quel giorno, Mishima dopo essersi introdotto e aver occupato, assieme ai quattro più fidati membri del Tate no Kai [1], l’ufficio del generale Mashita nel quartier generale del Comando orientale dell’esercito di autodifesa giapponese, arringa dal balcone dell’ufficio un migliaio di uomini del reggimento di fanteria alla presenza di giornalisti e televisioni. L’idea di Mishima era di dare inizio a un colpo di stato ma il suo intento non riuscì, ottenendo solo di irritare la folla che lo schernì e lo derise. In seguito compie l’ultimo atto della sua vita suicidandosi con il rito Seppuku [2], secondo le regole del Bushido [3] codice d’onore dei Samurai.

Ciò che Mishima mise in pratica pubblicamente non fu il disperato e ultimo gesto di un disadattato ma l’estremo apparire di un rituale che si trova ancor oggi nella memoria di un’epica d’onore profondamente insita nel costume e nell’anima del popolo giapponese. Atto che, inconcepibile per la mente occidentale, crebbe nel ventre profondo e ferito dello spirito di Mishima, alimentato da un nazionalismo rasentante la sacralità per il profondo attaccamento alle radici tradizionali del Giappone e al suo rappresentante: l’imperatore. Quell’atto fu l’evoluzione drammatica di un fuoco interiore tra onori e rituali, tra stereotipi e miti, tra disprezzo e obbedienza, tra passione e tragedia, tra teatro e realtà. Le sue parole gridate alla folla raccolta sotto il palazzo, in quel 25 novembre del ’70, sono esempio di quel sentire e testamento spirituale [4].

« Dobbiamo morire per restituire al Giappone il suo vero volto! È bene avere così cara la vita da lasciare morire lo spirito? Che esercito è mai questo che non ha valori più nobili della vita? Ora testimonieremo l’esistenza di un valore superiore all’attaccamento alla vita. Questo valore non è la libertà! Non è la democrazia! È il Giappone! È il Giappone, il Paese della storia e delle tradizioni che amiamo. »

Fu il gesto di un uomo eccezionale, sensibile, legato profondamente alla tradizione del suo paese; l’ultimo dei Samurai. Fu un atto di protesta e di dimostrazione che erroneamente venne etichettato come di uno squilibrato idealista; non si può comprendere la mentalità di Mishima se non si conosce tutto il suo percorso intellettivo e vitale, i suoi scritti, il concetto che aveva di uomo integrale, la sua formazione tradizionale, metafisica.

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Yukio Mishima (1925 – 1970).

A questo punto e prima di entrare nel merito dell’articolo ci pare giusto dare alcune spiegazioni a chi ci legge. L’argomento, in effetti, si prestava a vari tagli interpretativi e approfondimenti: alcuni di questi avrebbero potuto urtare la sensibilità di alcuni lettori e per questo siamo stati combattuti nel pubblicarlo. Tale perplessità l’abbiamo risolta con la scelta dell’indirizzo che abbiamo pensato di dargli, indirizzo che esula dall’aspetto sentimentale e da ogni implicazione psicologica, etica o morale. Non ce ne vogliate se comunque l’argomento potrà in qualche maniera turbare l’animo di qualcuno. In un saggio che affronti l’atto del suicidio come extrema ratio, anche se di quello sacro e rituale, non deve apparire offensiva la fredda trattazione di un aspetto così definitivo e nemmeno gli stretti confini che abbiamo dovuto imporci nell’economia di tale scritto. Detto ciò siamo consapevoli di quanto l’attuale situazione economica mondiale porti, drammaticamente e in numero sempre maggiore, taluni uomini ad una scelta senza ritorno la quale, questa si, cresce ed evolve sul terreno della disperazione e dell’impotenza ovvero della mancanza di ogni possibilità di far valere i propri diritti di onore e dignità [5].

Al contrario non siamo d’accordo che il suicidio, com’è stato catalogato, sia sempre un gesto di autolesionismo che evolve su un terreno di grave disagio o malessere psichico. Ci spieghiamo meglio. Siamo fermamente convinti che alcuni di tali eventi non abbiano, nella maniera più assoluta, questo substrato anche se siamo coscienti che tale affermazione potrà far storcere il naso a molti. Nella società occidentale il suicidio rituale non è più concepito come atto sacro e onorevole [6]. L’idea della vita, particolarmente espressa dall’interpretazione religiosa, ha assunto nell’etica cristiana valore d’intangibilità poiché essa è stata intesa come l’espressione di un atto divino e come tale dovrebbe rimanere anche l’evento della morte [7]. La Chiesa a questo proposito ritiene che tale estrema scelta sia una profanazione del corpo inteso come tempio dello spirito. La vita è l’essenza di Dio, per cui il suicidio rappresenterebbe un atto di abbandono e perdita della speranza trascendente di salvezza [8] e, come tale, da aborrire e da sanzionare come grave peccato mortale.

Il Vecchio Testamento fa corrispondere la morte alla perdita della dimora paradisiaca per colpa della disobbedienza a Dio da parte di Adamo ed Eva (Gen. 2-3). Secondo tale esegesi la morte perseguita sarebbe la conferma e la reiterazione del peccato di orgoglio attraverso la disobbedienza in opposizione alla volontà divina e come tale infernale e luciferina [9]. Tale interpretazione applicata al sacrificio attraverso il suicidio rituale ci appare un’incongruenza alla luce dell’immolazione di tutti i martiri cristiani che hanno patito volontariamente per il loro credo. Noi pensiamo invece che il sacrificio degli uni e degli altri sia sovrapponibile poiché l’idea è stata generata in entrambi i casi da un principio di superiore coerenza spirituale e non da un’idea di autolesionismo; il suicidio, al di là dello stato di disperazione, nonostante tutta la sua insita drammaticità, è invece da considerarsi l’ultimo atto di virile onore di un uomo e come tale, assolutamente da rispettare e da comprendere. Ed è evidente che vi sia un profondo solco tra il caso di Mishima (così come ogni altro caso di suicidio rituale) e quelli che meno spettacolarmente sono avvenuti e continuano ad avvenire. Questi ultimi non li dimentichiamo né ci permettiamo di criticarli poiché pensiamo di comprendere profondamente i disagi che li hanno provocati.

Tuttavia non è di questi che vogliamo parlare. In questo saggio cercheremo di prendere in considerazione non il puro atto in sé, ma ciò che ha significato tradizionalmente il sacrificio deliberato, l’immolazione volontaria e cosciente della propria vita sull’altare del libero arbitrio attraverso il riconoscimento sacro e solenne del diritto alla morte. Da un punto di vista storico i primi esempi si perdono nella notte dei tempi legandosi indissolubilmente a leggende e saghe. Dal che si deve dedurre che tale atto, rientrando nel simbolismo del mito, sia in qualche modo contraddistinto da una caratteristica olimpica e nobile e ciò rimase anche quando gli uomini sostituirono la mitica stirpe degli eroi. Tale inferenza trova le sue radici e la sua ragione sufficiente nel concetto che la vita, provenendo dagli dei, doveva essere vissuta onorevolmente e a gloria degli stessi. Idea condivisa nelle vie misterico-iniziatiche e nelle speculazioni di alcune scuole filosofiche. Quando la vita non permetteva più di essere vissuta a gloria e onore degli dei ma era solo pena e dolore o semplicemente vita anonima, la morte, ricercata in battaglia o attraverso inverosimile impresa, rivestiva il senso superiore e nobile dello sprezzo del pericolo e del superamento della paura per la morte, forzando virilmente il proprio essere verso la liberazione dai legami umani, lasciando in tal modo il proprio nome alla posterità e divenendo simile agli dei.

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Jacques-Louis David, “Il suicidio di Seneca”.

Seneca, filosofo della corrente stoica, nelle sue Epistolae ad Lucilium riflettendo sul suicidio auspicava come il filosofo, ma non solo lui, doveva prepararsi a morire in qualsiasi momento predisponendosi a lasciare questa vita senza rimpianti. Per Seneca la morte era l’ineluttabile punto di arrivo di ogni vita ma anche il risultato, aggiungeremo noi, della responsabilità di ciò che ci si porta dietro e di ciò che abbiamo saputo cogliere, non solo da un punto di vista materiale ma più specificamente del nostro divenire spirituale poiché rappresenta il traguardo ultimo e la sintesi di tutte le piccole morti della nostra individualità, volute o accidentali che subiamo nel corso della nostra vita.

L’eroe antico [10], l’eroe per antonomasia era colui che, cosciente del suo sacrificio, che sapeva essere estremo, compiva un generoso atto di coraggio per il bene di tutti, accettando la morte come l’azione più nobile e più bella. Per questo andava incontro alla kalòs thánatos, cioè alla «bella morte» poiché l’ultimo atto della propria vita doveva essere epico e per sempre ricordato come eroico modello leggendario. La caratteristica, il segno, l’impresa dell’eroe nel mito è data dall’obiettivo e dalla volontà della propria immolazione e tale volontà era l’arma reale del sacrificio che portava l’eroe a confrontarsi con la propria morte nel superamento dei propri limiti umani, accettandola secondo principi di universale spiritualità al di sopra e al di là di se stesso.

Nella tradizione Indù, i Veda riportano chiaramente come la vittima sacrificale rivestisse una doppia valenza in cui la vittima e il sacerdote coincidono e si fondono allo stesso tempo con l’altare, il fumo, l’invocazione, l’intero mondo che la circonda. La stessa creazione primordiale del mondo, presso tutte le tradizioni, ha inizio con un atto sacrificale [11]

« di conseguenza lo scopo finale del sacrificio non è solo di continuare l’operazione creatrice iniziata “una volta” dalla decapitazione ma anche di capovolgerla con la ricostituzione totale della divinità divisa, e con ciò del sacrificante stesso, identificato con la divinità e con il sacrificio. »

Con tali presupposti è lecito pensare che l’inizio di quel giorno vedrà l’alba di «un buon giorno per morire». Non ve ne saranno altri, quello sarà l’ultimo e merita quindi viverlo in piena coscienza. L’ha deciso il Dio che lo sovrasta e che lo spinge a ritrovare, attraverso se stesso, l’equilibrio e a far ritorno, come l’esule, alla sua spirituale patria natia. Il sacrificio cosciente e volontario, simbolicamente rappresentato nelle vie iniziatiche, ha un suo significato ontologico dove il risultato di tale atto sarà la liberazione dai limiti umani che lancerà l’iniziato verso gli stati superiori, cosa che nell’era classica veniva espressa dicendo che sarebbe diventato simile a un Dio. Esempio ne sia il mito di Ercole con il racconto delle sue imprese a espiazione della sua follia omicida. Il racconto, che va letto in un’ottica simbolica, rappresenta il percorso dell’eroe che lo porterà sulla pira che innalzerà sul monte Eta e che lo trasformerà in immortale [12].

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Kâla-mukha Indù.

Il suicidio eroico è la scelta, sicuramente discutibile, di un estremo confronto con se stessi, con le proprie paure e il loro superamento attraverso il valico della simbolica porta della vita e al di là dei misterici guardiani di soglia. È l’atto che porta con sé la cosciente ricerca dell’annullamento della propria illusorietà e, conseguentemente, del mondo e dei suoi veli (maya) in cui l’essere si dibatte. In fin dei conti a ben vedere è il significato superiore di tutte le vie iniziatiche. In tal senso, e con i dovuti distinguo, possiamo leggere uno dei simbolismi più interessanti del Mondo Orientale ed Estremo-Orientale che è rappresentato dalle innumerevoli maschere demoniache e fantastiche che ornano i portali dei templi. Ci riferiamo al kâla-mukha Indù e al T’ao-t’ie Cinese. Particolarmente orripilanti e poliformi, tali maschere sono identificate come il Distruttore, l’Ingoiatore ma al tempo stesso oltre al terrore, rappresentano lo iato, la porta che, coraggiosamente oltrepassata, dona la vita eterna intesa come rinascita spirituale [13].

È dunque attraverso tale idea che le maschere, manifestazione orrifica della morte, ci indicano come il percorso spirituale, a un più alto profilo, è rappresentato dalla morte simbolica al mondo e alla sua possibile estrema applicazione: il suicidio, dove al di là della cesura la maschera terrifica si trasforma nell’immagine gloriosa del Dio (essendo due aspetti di una stessa ipostasi). Nella dottrina Zen giapponese, alla quale il Samurai aderiva, la morte e la vita erano considerate sullo stesso piano poiché la morte e la nascita non sarebbero che le due facce di una stessa porta.

La continua ricerca del guerriero di un equilibrio interiore consentiva il completo distacco dalle emozioni fin tanto che in combattimento riusciva a manteneva una fredda determinazione. Il maestro di scherma Miyamoto Musashi nel XV secolo scriveva:

« Sotto la spada alta levata, c’è l’inferno che ti fa tremare; ma va innanzi, e trovi la terra della beatitudine. »

Se dunque questo era la costante della via, anche l’estremo atto come il suicidio non poteva essere motivo di tentennamento e di paura. La dottrina buddhista enuncia quali sono i punti salienti della «realtà percettiva» che provengono dall’insegnamento del Buddha stesso. Essi sono:

  1. La dottrina della sofferenza, Dukkha, ossia il concetto che tutti gli aggregati (fisici o mentali) sono causa di sofferenza qualora li si voglia trattenere; essi cessano quando si voglia separarsene.
  2. La dottrina dell’impermanenza, Anitya, ossia il concetto che tutto quanto, compreso il corpo fisico, è composto di aggregati (fisici o mentali) quindi soggetto a decadenza ed estinzione con la decadenza ed estinzione degli aggregati che lo sostengono;
  3. La dottrina dell’assenza, Anattā, di una individualità eterna e immutabile ovvero l’io, la cosiddetta dottrina dell’Anātman, come conseguenza di una riflessione sui due punti precedenti il cui risultato sarà la ricerca  della via dell’estinzione [14].

Il suicidio rituale dunque era contemplato nella dottrina religiosa del buddismo Zen attraverso l’accettazione dell’estinzione ed era perseguito come atto sacro e fatto in nome del e per il Principio; come tale, seppur con alcune variazioni, è stato patrimonio di diverse culture. Per la verità nella considerazione dei suoi confini tra lecito e illecito nel mondo antico non vi sarà storicamente una posizione netta tanto che nell’antica Grecia vi saranno due scuole di pensiero, una contraria all’altra, che tuttavia convivevano. Dal che possiamo pensare che la distinzione tra le diverse concezioni del suicidio che allora si facevano era la stessa che abbiamo cercato qui di rendere evidente tra l’eroe e la gens, tra l’epos e lo scoramento, emendando tale atto dai tratti infami e criminali. D’altra parte tra le varie civiltà spiccano, con significato simbolico leggendario, quelle tradizioni i cui gradini dei relativi olimpi furono lambiti dal suicidio.

Nella tradizione nordica è il dio Wotan stesso che accoglieva nel Walhalla coloro che si erano sacrificati in battaglia e i suicidi. Per i prossimi al dio, ottenere la vittoria, morire gloriosamente in battaglia o sacrificarsi erano cose ugualmente desiderabili. In effetti, Odino li accoglieva come figli adottivi prediletti, erano i prescelti e gli invitati all’eterno banchetto da lui presieduto. Per altro Odino era chiamato il dio degli impiccati in ricordo del racconto mitico che vide il suo sacrificio per effetto della corda al fine di ottenere, oltrepassata la prova sacrificale, la scienza delle rune, ovverossia la possibilità della predizione e della conoscenza.

Nella cultura e per la legge dell’antica Roma come pure di quella greca [15] il suicidio rivestiva la massima espressione della libertà personale del cittadino e pertanto non era vietato né era considerato disonorevole quando questo era concesso dal senato e veniva assistito da un tribunale particolare. Per il civis romano era una scelta che coinvolgeva solo e soltanto la sua persona. Lo stato e le sue leggi non potevano violare l’ambito privato quando questo non ledeva la società in generale né più particolarmente gli interessi altrui, anzi esso veniva celebrato in alcuni casi come atto di coraggio e di eroica virtus latina.

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Ciro Ferri, “Suicidio di Cleopatra”.

In terra d’Egitto, dove Anubi e Osiride erano, nel periodo faraonico, i custodi dell’oltre tomba, il suicidio rappresentava l’espediente per evitare una morte disonorevole. I sacerdoti concedevano al colpevole di nobile rango la possibilità di evitare una fine ignominiosa, esempio ne sia la morte della Regina Cleopatra che si sottrasse all’umiliante prigionia da parte di Ottaviano compiendo il suicidio: facendosi mordere dall’aspide simbolo dell’ureo sacro che veniva portato sul copricapo dei faraoni e consacrato alla dea Uadjet, divinizzando la sua persona che in tal modo ascese al Pantheon egizio. La celebrazione della morte e la sua ierofania nel pensiero tradizionale dell’antico Egitto erano motivo ricorrente e quotidiano, come testimoniano le numerose sepolture per l’entourage del Faraone alla cui morte veniva praticato il suicidio volontario di massa [16] alla fine di seguire e servire il proprio re anche nell’oltretomba [17]. Le spoglie di questi erano inumate, come massimo onore e rispetto, assieme al faraone stesso o in tombe limitrofe.

L’esaltazione del suicidio nell’antico Egitto, come per altre forme tradizionali, per alcuni studiosi sembra velarsi di una sorta di visione romantica e sentimentale come atto di estrema fedeltà, implicante una sorta di sinistra bellezza e voluttà. Questa interpretazione, che pensiamo sia una rielaborazione più psicologico – sentimentale che reale non la condividiamo. Ci pare invece che occorra prendere verosimilmente in considerazione i riti legati ai misteri di Osiride e alla sua rigenerazione post-mortem come rinascita spirituale. Si tratta qui di un concetto simbolico che nel mondo iniziatico si rifà al superamento del mondo delle forme. Tale idea è presente, come abbiamo visto, in tutte le tradizioni a partire dalla preistoria attraverso quelle che verranno chiamate le caverne iniziatiche legate alla Dea Madre e a tutte quelle vie che iniziaticamente si rifacevano alla rigenerazione dell’essere.

Nella stessa Massoneria il recipiendario che è rinchiuso nel gabinetto di riflessione si sottopone simbolicamente a una rigenerazione psichica e a una purificazione attraverso una prefigurata morte volontaria in cui dovrebbe lasciare le spoglie mortali. Il luogo, che rappresenta una sorta di tomba, è la virtuale esperienza della putrefazione alchemica della materia dove tra le spoglie cadaveriche calcinate dal fuoco sacrificale dovrà ritrovare, tra le ceneri dell’individualità, l’occultum lapidem, la fulgida gemma che rischiarerà il buio della notte profana la quale innescherà il processo di rigenerazione e la porterà a far risplendere nell’iniziato la luce del sole di mezzanotte [18]. La stessa compilazione del testamento ricorda al recipiendario l’ultimo atto della sua vita profana e la promessa di una nuova vita. È d’altra parte una leggenda della massoneria, fortemente impregnata di elementi simbolici, il racconto del suicidio dell’architetto costruttore di cattedrali che, al compimento del suo capolavoro, si suiciderebbe gettandosi  dall’occhio della cupola [19].

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La dea Maya Ixtab.

Presso la civiltà Maya, Ixtab (La Signora della corda), era la dea protettrice di coloro che si toglievano la vita; la dea li accompagnava in un paradiso in quanto considerati sacri poiché avevano scelto ciò che stava oltre la vita. La sua immagine era rappresentata appesa a un capestro e in stato di parziale putrefazione; d’altra parte i Maya elevavano a particolare importanza il suicidio per impiccagione che era considerato un mezzo per accedere all’alterità celeste in quello che consideravano il loro paradiso.

Nel ricercare e approfondire gli aspetti tradizionali, presso le antiche civiltà, della fine della vita si riscontra sempre non solo una sorta di virile accettazione ma l’assenza della paura della perdita della propria individualità con la certezza che la propria vita (con tutti i distinguo di ordine metafisico a riguardo delle diverse teorie dell’evoluzione post-mortem) proseguisse in uno dei diversi piani di manifestazione [20]. Nulla di più lontano da ciò che si è imposto da vari secoli in Occidente in cui la morte è concepita come un fenomeno pietosamente doloroso nonostante la religione assicuri la salvezza e la sopravvivenza dell’anima (tale passaggio è chiamato, nella liturgia bizantina, negli inni di San Giovanni Damasceno, un «mistero terribile»). È chiaro che essendo la morte vista come un passaggio doloroso e amaro, comporta che ogni aspetto di questa sia represso e reputato come negativo. Tuttavia, per quanto possa sembrare una contraddizione, il suicidarsi non è un arrendersi quanto il non volersi piegare all’ineluttabile fato e agli eventi contrari eludendo, attraverso una morte onorevole, l’oscura ombra non solo del disonore e della vigliaccheria ma in particolare dell’effimera esistenza contingente.

Il suicida non concederà nulla al silenzio della viltà e alla codardia e sarà con la propria oblazione che riuscirà a emendarsi e, in tale maniera, a uscire dal ciclo delle forme sacrificandosi sull’altare dell’onore gridando metaforicamente il proprio coraggio senza arretrare sul terreno della vita. Come il guerriero in combattimento vincerà il suo peggior avversario, la propria individualità. Non si tratta qui solo di un concetto astratto: esso va considerato (in una prospettiva di maturazione spirituale) come aspetto di simbolica battaglia come in effetti è, anche se a ben vedere tale duello è molto più reale di quello che si crede e realmente combattuto su un terreno interiore contro la propria paura della morte.

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Sono ancora i testi orientali, quelli che si riferiscono all’arte giapponese del combattere, per ritornare sul tema d’apertura, che ci soccorrono in tale filosofia. Nell’arte della spada dei samurai i maestri insegnavano che, per sopravvivere, bisogna morire; per vivere bene bisognava tracciare la linea che termina con la morte. Per il Samurai, secondo il codice del Bushido (e nei confronti di una realizzazione spirituale) bisognava che questi vivesse senza aggrapparsi alla vita sopprimendo il desiderio di vivere. Paradossalmente l’attaccamento alla vita fa morire, e l’abbandono della vita fa vivere [21].

Da un punto di vista metafisico l’oblazione sacrificale è l’atto che determina necessariamente la trasformazione e il passar oltre. È paragonabile al simbolismo del serpente che muta pelle per una nuova stagione di vita, mentre le antiche civiltà agricole riconoscevano nella simbologia legata alla spremitura e alla trasformazione dell’uva il sacrificio del frutto necessario a rinnovarsi nella bevanda d’immortalità o nella molatura del grano attraverso la panificazione che nella tradizione cristiana si transustanziano nel sangue e nel corpo del Salvatore.

Per ciò che  riguarda il sacrificio come oblazione di se stessi, non possiamo dimenticare per l’Occidente l’usanza, presso l’esercito nell’antica Roma, secondo la quale il comandante s’immolava volontariamente agli dei Mani: in caso di pericolo di disfatta, per la salvezza e la vittoria dei suoi uomini sacrificava la propria vita [22]. Altro esempio è dato dalla rigida regola dei Templari, nella quale San Bernardo scriveva che il Templare «uccide tranquillamente e più tranquillamente muore». Essi erano tenuti a combattere sino al sacrificio estremo e non potevano ripiegare in alcun modo di fronte ai nemici, né tantomeno erano autorizzati a riscattarsi o a chiedere misericordia al nemico qualora fossero stati catturati. Essi rivendicavano in battaglia, sempre e con orgoglio, il privilegio della prima linea; morte promessa e accettata senza rimpianti in difesa e a gloria di Dio.

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La pratica indiana della Satī o Sahagamana.

Diversa considerazione deve avere la pratica che era attuata presso gli indù e che non ci sentiamo di condividere neppure in maniera astratta; tuttavia in questo articolo ha sicuramente un significato non solo di ordine storico etnologico. Si tratta dell’usanza chiamata Satī o Sahagamana (la dipartita congiunta, oggi proibita e perseguita penalmente anche se tale pratica avviene ancora in forma sporadica). Tale usanza anticamente riguardava le donne sposate rimaste in stato di vedovanza le quali si immolavano sulla pira del marito il più delle volte con la complicità dei parenti. Pratica che prese piede in India in epoca medievale tra le caste più elevate: quelle dei sacerdoti e dei militari.

Per la verità l’usanza della Sahagamana deriva dal racconto tradizionale, presente nei Purana, della dea Satī, sposa e Shakti di Shiva. Il mito racconta come il padre Dakśa considerò il loro matrimonio un disonore famigliare, questo atteggiamento fece arrabbiare Satī che, invocando i poteri yogici, si immolò bruciando. Tale mito fu tradizionalmente interpretato come la massima devozione verso il proprio marito considerato determinante come un maestro nel cammino sociale e spirituale delle donne. Per la verità non abbiamo trovato nei testi traccia di tale barbarica prescrizione che sembra avere qualche similitudine con il sacrificio di tutti i beni del faraone defunto comprese le proprie spose. Il riferimento è quello del suicidio di massa dell’entourage del Faraone ma, se in questo caso il suicidio era volontario, nella società tribale indù il Sahagamana, il più delle volte, era imposto.

Vero è che tale pratica una volta volontaria è stata col tempo fortemente travisata fra le caste meno abbienti trovando appoggio sull’idea della supposta inferiorità della donna e della sua incapacità, in stato di vedovanza, a mantenersi nella società, motivo e scusa per evitare il sostentamento delle vedove da parte della famiglia dello sposo. Tuttavia il medioevo indiano ci riporta come molti sacrifici, in periodo di guerra, sono stati frequenti tra le donne di rango nobile che in tal maniera si sottrassero a una condizione, là dove fosse capitato, di prigioniere o di schiave, sacrificandosi con i loro figli secondo lo Jauhar, salvaguardando così l’onore dei mariti e dei loro fratelli. Ancor oggi si trovano sulle mura, in alcune fortezze del Rajasthan, dei bassorilievi in cui sono scolpite molte piccole mani. Ogni mano rappresenta una donna che si lanciò tra le fiamme della pira sacrificale, ed è tutto ciò che resta a memoria di quelle orgogliose e ignote donne. Sta di fatto che quelle donne le quali, volontariamente, si sono sottoposte al rituale del Satī sono oggi ricordate e onorate con templi sorti nel luogo del loro suicidio e ad esse vengono rivolte preghiere e cerimonie.

A questo punto non vorremmo apparire degli epigoni del suicidio. È ovvio che non ci sottraiamo dal comprendere umanamente e sentimentalmente le conseguenze famigliari di chi pratica il suicidio: lo stigma, la disperazione violenta e traumatica dei parenti, il doloroso e inaspettato abbandono della vita. Tuttavia all’inizio di questo scritto abbiamo chiaramente dichiarato di imporci, per quanto fosse possibile, a rimanere nei confini del razionale e degli aspetti sacri del suicidio senza concedere nulla al sentimentale ed è ciò che cercheremo di continuare a fare.

D’altra parte il suicidio rituale non ha mai affondato le proprie radici nelle regioni del sentimento, non si è mai alimentato di depressione esistenziale e nulla ha concesso all’autolesionismo, anzi tale atto doveva avere una forte determinazione e una lucida e cosciente razionalità. La propria libertà dunque, concepita come divenire metafisico e come massima aspirazione dell’essere, non può e non deve essere né condizionata né limitata dal sentimento individuale tantomeno da coloro che ci circondano. D’altra parte se le dottrine orientali, ma non solo loro, considerano da un punto di vista metafisico l’individualità, un’illusione, non comprendiamo come chi aspira all’infinito si dovrebbe forzosamente  preoccupare del finito.

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David Hume (1711 – 1776).

Ciò tuttavia può essere invece del tutto comprensibile per coloro che, non avendo sviluppato la percezione dell’infinito e del proprio divenire, alimentano una sorta di disperazione del finito e quindi del termine della propria vita con la conseguenza di avere orrore per il suicidio. Su quest’aspetto è interessante il pensiero del filosofo e storico scozzese David Hume (Edimburgo, 26 aprile 1711 – Edimburgo, 25 agosto 1776). Nato e cresciuto sotto l’illuminismo del XVIII secolo, pur nel suo radicale concetto di meccanicismo della natura umana e del suo divenire, rimane il più grande teorico del liberismo. Le sue idee sulla liceità del suicidio, pur essendo limitate dal punto di vista metafisico, concedono all’uomo il libero arbitrio di una decisione che è e deve rimanere comunque nella possibilità  dell’uomo.

Il pensiero del filosofo mette in discussione la provvidenza e l’onnipotenza divina. Sintetizzando il suo pensiero egli arriva a dire che, se effettivamente la nostra vita è sacra e consacrata a Dio, il suicidio sarebbe impedito per azione della divina provvidenza. Poiché se la provvidenza guida tutte queste cause, e nulla accade nell’universo senza il suo consenso neppure la morte dell’individuo, per quanto volontaria, avviene senza esso. Quindi (Opere, Laterza, Bari 1971, vol. II, p. 989, p. 990)

« Quando la ripugnanza dal dolore prevale sull’amore per la vita, quando un atto volontario anticipa gli effetti di cause cieche, ciò è soltanto una conseguenza dei poteri e dei principi che l’onnipotente ha posto nelle sue creature. »

e, più oltre,

« Quando le pene e i dolori sopraffanno la mia pazienza al punto di rendermi stanco della vita, posso concludere che sono richiamato dal luogo in cui sono stato posto» 

Da ciò deriva che in ambito morale e sociale deve essere fortemente affermata la possibilità di poter restituire agli uomini il potere sulla loro vita e la libertà di sottrarsi, extrema ratio, non solo alla sofferenza e al decadimento fisico ma più propriamente al malessere metafisico.

Per le dottrine orientali con una visione naturalmente metafisica (ma soprattutto non impregnate di moralismo sentimentale) non può esistere punizione divina per il proprio sacrificio ma anzi il supremo atto rappresenterebbe la massima aspirazione e volontà di ricongiungersi col proprio Dio [23]. Come l’esule anela il suo ritorno in patria così l’essere che ha superato l’attaccamento alla vita non può che aspirare al ricongiungimento col Principio da cui è iniziato il suo viaggio. E non è detto che quel ricongiungimento, raggiunto attraverso un atto lesivo, sia sufficiente non voler far più parte di questo mondo.

Arrivati in chiusura, siamo consci di aver appena scalfito l’argomento, ma quanto qui detto, pur nella sua sinteticità, potrà essere d’aiuto a dare una visione più razionale e meno deplorevole del suicidio. Qualcuno ci potrà far notare l’assenza di trattazione di due aspetti concernenti i Kamikaze della seconda guerra mondiale e gli Shaid della Jihad islamica. È stata una scelta voluta poiché non consideriamo tali azioni come scelte volontarie ma indotte da un plagio psicologico o sotto effetto di stupefacenti, atto a riversare intenzionalmente la loro mortale azione terroristica su persone inermi.

Nei libri dell’Hagakure [24] sono riportate le parole (raccolte dall’allievo Tashiro Tsuramoto) del monaco ex Samurai Yamamoto Tsunetomo, che per noi occidentali potranno sembrare inquietanti, ma da cui si evidenzia tutta l‘abissale cesura metafisica tra il sentimento occidentale e la razionalità orientale la cui sintesi sta tutta nella frase seguente:

« Io ho scoperto che la Via del samurai è morire. Davanti all’alternativa della vita e della morte, è preferibile scegliere la morte. »

L’essere umano non è che l’involucro dello spirito e, come per qualsiasi cosa, non è importante il contenitore quanto il contenuto.

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Note:

[1] La Tate No Kai (Associazione degli scudi) di stampo paramilitare fu fondata dallo stesso Mishima che raccolse attorno a se una cinquantina di giovani conservatori tradizionalisti. I biografi asserirono che tale formazione fu fondata per cercare di nascondere al padre i suoi interessi letterari considerati da questo, «un’attività da femminucce». Tale teoria, influenzata anche dalla sua militanza politica di destra, a nostro giudizio servì solo a sminuire la figura di Mishima. Pur essendo una personalità controversa che ebbe rapporti conflittuali con le stesse persone che lo circondavano, tale atteggiamento, s’ispirava alla filosofia del codice Bushido dei Samurai la cui vita non era solo dedicata all’arte delle armi ma alla ricerca della propria spiritualità attraverso il Buddismo Zen e il Taoismo nonché all’approfondimento culturale attraverso la composizione di raffinate poesie, pittura, letteratura e mecenatismo.

[2] Il Seppuku è tradotto con «taglio dello stomaco». In Occidente è conosciuto volgarmente come Harakiri ma la terminologia non è esatta ed è fondamentalmente un malinteso. In effetti, vi sono alcune diversità: Seppuku è il rito del taglio dello stomaco, mentre Harakiri è il taglio del ventre ma ciò che più rende diverse le due tecniche di suicidio è il taglio della testa (eseguito da un amico, il kaishakunin, personaggio particolarmente dotato nel maneggiare la spada) presente nel Seppuku che nel Harakiri è completamente assente.

[3] Il Bushido significa letteralmente «Via del guerriero» e ha rappresentato per i Samurai la regola di comportamento basato sull’onore sia in battaglia sia nella vita sociale. Più propriamente per il Samurai il Bushido rappresentava la legge che regolava la sua via spirituale secondo la dottrina Zen. Sin da piccolo il futuro Samurai, era cresciuto in maniera da controllare le proprie emozioni attraverso ore e ore di esercizi zen di concentrazione per aumentare l’autocontrollo in maniera da non tradire emozioni o paura di sorta, piegando in tal modo la propria sentimentalità a un calcolato raziocinio. Ancor oggi nella società giapponese il Bushido, rappresenta per alcuni uomini un nucleo di principi etici e di comportamenti essenziali rigidamente seguito.

[4] Per la verità è da considerare come testamento spirituale il libro La via del samurai, opera pubblicata da Mishima nel 1967 a commento degli undici libri raccolti sotto il titolo di Hagakure kikigaki (Annotazioni su cose udite all’ombra delle foglie) del Samurai, divenuto monaco buddista, Yamamoto Tsunetomo (11 giugno 1659, 30 novembre 1719) l’opera composta in forma di aforismi tratta dello spirito e del codice di condotta dei Samurai.

[5] Si calcola che nel mondo ogni anno si tolgano la vita circa un milione di persone e le statistiche sono in continuo aggiornamento.

[6] Nel 565 d.C. per il codice Corpus iuris civilis dell’imperatore bizantino Giustiniano il suicidio non era considerato un atto riprovevole. Il codice ammetteva che fosse «giustificabile», se provocato dal taedium vitae.

[7] Per altri versi nel presente vi è una sorta di ripugnanza a parlare della morte così come della malattia con una imbarazzante vergogna. In una società efficientista, ginnica e vitalistica, la morte o la malattia sono viste come un evento antisociale o come una sconfitta.

[8] È tuttora valida, da parte della chiesa, l’antica usanza di sepoltura dei suicidi senza funerale, senza benedizione e fatta in terra sconsacrata (un tempo era prescritto «fuori porta») prescrizione che oggi non sembra essere seguita se non in casi del tutto particolari.

[9] Saremmo tentati di chiedere riscontro, in base alla concezione dell’intangibilità della vita, di tutte le morti e le infami torture inflitte a uomini e donne perpetrate dalla chiesa nel periodo dell’inquisizione senza dimenticare la persecuzione e la messa al rogo dei templari.

[10] L’idea dell’eroe classico è definita dai termini greci kalòs kai agathòs (καλς κα γαθός = «bello e buono») tale frase rispecchiava i valori intrinseci delle doti del bello, del buono, del nobile in cui si riconoscevano sia i semidei sia gli esponenti della kalokagathìa ovvero della perfezione umana. Tale ideale che coniugava la bellezza fisica all’agathìa, ovvero alla conoscenza dei principi e dei valori, aveva un significato che trascendeva il solo valore estetico ed etico essendo questi espressione di perfezione spirituale e di conoscenza.

[11] Ananda K. Coomaraswamy, La dottrina del sacrificio. Cap III Sir Gauvain e il Cavaliere Verde; Indra e Namuci. Luni editrice.

[12] Che sia un racconto simbolico ci sembra non vi siano dubbi. Le dodici fatiche, numero ciclico che ci ricorda il ciclo annuale ma anche della prova iniziatica, è l’età nel ragazzo del passaggio dal periodo puberale, dodici sono i principali dei dell’Olimpo. Dodici i segni zodiacali.

[13] Non dimentichiamo la figura del rettile e per estensione quella del drago che popolano favole e leggende le cui immagini simboliche, passando dai greci e dalle saghe norrene, si allunga su tutto l’Estremo Oriente. È particolarmente in questa tradizione che il drago è spesso identificato all’anima sensibile e a tutte le brame e le passioni che sono in noi con le quali ogni individuo deve lottare per essere in senso teologico, il Vincitore. Il racconto nei vangeli della tentazione di Gesù nel deserto da parte di Satana rappresenta la battaglia che deve essere combattuta dall’iniziato contro i vizi e le passioni. Lo stesso sterile deserto rappresenta la morte ed è il simbolo del passaggio oltre. Sul simbolismo del kâla-mukha Indù e del T’ao-t’ie Cinese, cfr. M. Maculotti, Tempo ciclico e tempo lineare: Kronos/Shiva, il «Tempo che tutto divora», su AXIS mundi.

[14] A questo proposito le innumerevoli immolazioni dei monaci Tibetani pur avendo un substrato politico, sono comunque in linea con la dottrina dell’estinzione buddista. Il loro non è un atto individuale ma ha carattere dottrinale e altruistico rappresentando la suprema offerta di se stessi. Nel Vyaghri-Jataka, testo canonico buddista, è detto (dal Buddha futuro) in merito all’autoimmolazione: «Questa mia decisione non nasce dall’ambizione, né dal desiderio di gloria, ma solo dalla volontà di sconfiggere il male del mondo. Diraderò le tenebre dalla sofferenza così come il sole dirada le tenebre della terra con la sua luce, e tutti impareranno la compassione dal mio esempio».

[15] Buona parte delle leggi romane derivavano dal corpo giuridico greco e tale norma pur nella sua straordinarietà ricalca quanto prescritto dai codici greci.

[16] Le mummie nelle tombe collaterali o nelle camere vicino a quella reale indicano come i corpi non presentassero alcun trauma ma probabilmente la loro morte era avvenuta volontariamente tramite un veleno.

[17] Questo particolare forma di fedeltà trova un parallelismo con il codice Bushido e il Seppuku dei Samurai. Una delle regole per praticare il suicido rituale era la morte del proprio Daimyô al fine di seguirlo e continuare a servirlo oltre la morte.

[18] «I nostri padri trovarono il tesoro del cielo nascosto nella caverna segreta […] questo tesoro nella roccia infinita» Rig-Veda (I.130.3). Per altri versi negli aforismi vedici si dice che Dio è sepolto in noi (la scintilla divina o Sophia degli gnostici che risiede in noi). La ricerca e la scoperta del tesoro nascosto di molte fiabe sono la metafora del raggiungimento dello stato divino.

[19] Si racconta, a proposito del municipio di Bruxelles (Town hall) costruito in gotico brabantino da Jean Bornoy, che Jacob van Tienen e Jan van Ruysbroeck abbiano visto il suicidio dell’architetto alla fine della sua costruzione. Per altro sono numerose le cosiddette leggende sui suicidi degli architetti; tra queste quelle che circolano sul museo “civico” di Glasgow, il Kelvingrove Art Gallery and Museum in Scozia o il costruttore del quartiere Coppedè, Gino Coppedè, a Roma. Ecc.

[20] Per ciò che riguarda la tradizione celtica Tito Livio, Cesare e Valerio Massimo riportano nei loro commentari non senza ammirazione con quanta tranquilla calma i barbari della Gallia o della Germania affrontavano e si davano la morte. Marco Anneo Lucano (Cordova, 3 novembre 39 – Roma, 30 aprile 65) nel suo poema Pharsalia (noto anche con il titolo Bellum Civile), racconta come i Celti considerassero la morte come un momento di interruzione sul percorso della loro esistenza, come un ponte tra una manifestazione e l’altra. D’altra parte tale concetto non riguardava solo gli uomini, ma era proiettato anche verso gli animali che erano cacciati secondo particolari rituali e onorati dal cacciatore. La Caccia Divina non rappresentava la fine ma il sacrificio che donava all’animale l’immortalità attraverso l’atto dello spargimento di sangue; tale atto era paragonabile all’atto sacrificale vero e proprio in cui sacrificato e sacrificante erano una cosa sola. 

[21] Dobbiamo considerare che la via guerriera, come quella dei Samurai, era una via iniziatica applicata all’uso delle armi (nella tradizione indù era rappresentata dalla casta dei guerrieri ovvero gli Kshatrya) il cui scopo finale era la liberazione.

[22] Tale sacrificio era assistito dal Pontifex ed il sacrificante pronunciava l’invocazione «Oh Giano, Giove, Marte padre, Quirino, Bellona, Lari, Divi Novensili, Dèi Indigeti, Dèi che avete potestà su noi e i nemici, Dèi Mani, vi prego, vi supplico, vi chiedo e mi riprometto la grazia che voi accordiate propizi al popolo romano dei Quiriti potenza e vittoria, e rechiate terrore, spavento e morte ai nemici del popolo romano dei Quiriti. Così come ho espressamente dichiarato io immolo insieme con me agli Dèi Mani e alla Terra, per la Repubblica del popolo romano dei Quiriti, per l’esercito per le legioni, per le milizie ausiliarie del popolo romano dei Quiriti, le legioni e le milizie ausiliarie dei nemici» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, VIII, 9).

[23] Questo concetto è in contrasto con quanto è interpretato dalla Chiesa che l’ha sempre ritenuto un atto di orgoglio. Citando A. Coomaraswamy secondo i testi liturgici del Rig-Veda, la via del sacrificio è la via che conduce dalla mancanza alla pienezza, dalle tenebre alla luce e dalla morte all’immortalità.

[24] La Hagakure fu compilato in undici volumi nei primi anni del 1700 e verrà pubblicato solo nel 1906.  Il suo autore Yamamoto Tsunetomo, ritiratosi in monastero, sarà aiutato nella raccolta e trascrizione dall’allievo Tashiro Tsuramoto. L’Hagakure rappresenta il codice di condotta del Samurai.


Un commento su “Extrema Ratio: cenni sul suicidio “sacro”

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