Nella Zona del Crepuscolo

Nell’albo n°7 di «Dylan Dog», Tiziano Sclavi fa assurgere il caos magmatico a realtà emblematica dell’impasse in cui si trova l’uomo contemporaneo, riassumendo nella scialba aspettativa di non-vita che si reitera giorno dopo giorno lo smarrimento di quest’ultimo che, avvolto dalle nebbie implacabili di Storia e Tempo e intrappolato in una stagnante Zona del Crepuscolo, condivide col Valdemar di Poe il senso d’impotenza e, al tempo stesso, di desolato stupore.

di Marco Maculotti

Originariamente pubblicato su Antarès n. 16/2020, «DYLAN DOG – NOSTRO ORRORE QUOTIDIANO». Copertina: Tiziano Sclavi

L’importanza che ha rivestito Tiziano Sclavi in quanto inventore della serie fumettistica «Dylan Dog», all’interno dei cui racconti – almeno, per quanto riguarda i primi cento numeri abbondanti – ha saputo traslitterare le sue personalissime prospettive riguardo alla posizione nel mondo dell’uomo e al suo rapporto con l’ignoto, è fuor di discussione. Suo grande merito è stato aver compiuto un avvincente mix-up di suggestioni e correnti tra le più disparate per dar vita alla sua creazione editoriale: in ogni albo di DD, soprattutto nei più pregnanti ai fini della “filosofia” della serie, sono presenti numerosissime citazioni di cinema, letteratura, filosofia ed esoterismo. In questo modo, ogni racconto diventa una sorta di “caccia al tesoro”, gioco intrigante per l’appassionato alle tematiche proprie del format; tuttavia, al tempo stesso, l’impronta di Sclavi rimane indelebile: perché tutto il collage appare interconnesso alla sua visione della vita, che permea indelebilmente ogni grande albo della serie che porta la sua firma.

In questo saggio prenderemo in esame l’albo n. 7, La Zona del Crepuscolo (nonché il seguito, Ritorno al Crepuscolo, n. 57), uscito nelle edicole a inizio aprile del 1987. Innanzitutto è da registrarsi l’influenza, per quanto concerne il titolo e non solo, della serie tv statunitense ideata da Rod Serling, The Twilight Zone (trasmessa in Italia con il titolo Ai confini della realtà), andata in onda dal ’59 al ’64. È quanto di più simile esistesse, in quegli anni, al serial cult degli anni Novanta The X-Files di Chris Carter, che ha codificato in forma perfetta per il piccolo schermo le indagini sull’ignoto e sul mistero. The Twilight Zone anticipò molte delle ricerche di Mulder e Scully, alternando episodi prettamente fantascientifici ad altri più weird, permeati dal senso del perturbante e dalle ossessioni para-psicologiche di Edgar Allan Poe ed E.T.A. Hoffmann. Già la tagline della serie dice molto sui suoi intenti, illustrando a meraviglia anche alcune caratteristiche del racconto di Sclavi qui analizzato [1]:

C’è una quinta dimensione oltre a quelle che l’uomo già conosce; è senza limiti come l’infinito e senza tempo come l’eternità; è la regione intermedia tra la luce e l’oscurità, tra la scienza e la superstizione, tra l’oscuro baratro dell’ignoto e le vette luminose del sapere: è la regione dell’immaginazione, una regione che potrebbe trovarsi ai confini della realtà.

Nondimeno, potrebbe essere stata un’altra serie televisiva, in questo caso britannica, a suggerire a Sclavi l’espediente narrativo dell’immobilità del tempo. Stiamo parlando di Children of the Stones (conosciuto in Italia come Prigionieri delle pietre), trasmesso per la prima volta nel 1977 e ambientato in un piccolo villaggio dell’Inghilterra rurale, Milbury (in realtà, Avebury), sviluppato all’interno di un antico stone circle nel quale avvengono fenomeni soprannaturali e il tempo pare non scorrere affatto. È proprio quanto accade nella lacustre Inverary [2] de La Zona del Crepuscolo (toponimo probabilmente ispirato a Inverness, paese scozzese limitrofo al celeberrimo lago di Loch Ness), dove ogni giorno si ripete uguale al precedente, come se un inaudito incantesimo tenesse tutti i suoi abitanti sotto scacco.

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Tuttavia, se in Children of the Stones tale situazione paranormale è diretta conseguenza dell’ubicazione geografica del villaggio e dell’influenza cosmico-geomantica dei megaliti, ne La Zona del Crepuscolo sono le arti “magiche” del dottore “pazzo” di turno (il dottor Hicks, una sorta di eponimo del defunto “mago nero” Vergerus, che si rivela essere uno dei nomi di Xabaras) [3] a far cadere, uno dopo l’altro, gli abitanti in uno stato di non-vita: è qui che Sclavi si riconnette all’opera di Poe, soprattutto a The Facts in the Case of M. Valdemar (La verità sul caso Valdemar, 1845), riprodotto a grandi linee a pp. 79-86.

Non ci troviamo, dunque, di fronte a zone magnetiche causate dalla presenza di leylines o siti sacri: l’orrore è tutto umano, e ha che fare con la dottrina del mesmerismo, eclettica terapia volta a curare malattie o disfunzioni basata sull’applicazione delle teorie di Franz Anton Mesmer, medico tedesco del Settecento, prendendo le mosse dall’esistenza di un “fluido” (o “forza magnetica”) presente nell’essere umano che, se opportunamente trattato attraverso pratiche ipnotiche, può sbloccarsi e scorrere liberamente, guarendo il paziente dai mali fisici e psicologici.

Edgar Poe, che in quegli anni trattò di mesmerismo in vari suoi racconti [4], portò le teorie di Mesmer alle loro estreme conseguenze: se ciò che sosteneva il medico tedesco si fosse rivelato vero, sarebbe stato allora possibile tenere in vita artificialmente, con le arti ipnotiche, la mente (o l’anima?) del paziente anche in articulo mortis, per un lasso di tempo potenzialmente infinito. Sclavi sposa, in questo racconto, l’ipotesi di Poe; tuttavia, a differenza di Valdemar, il cui corpo ormai senza vita giace per sette mesi immobile nel suo capezzale, mentre la sua anima vitale sopravvive grazie alle pratiche mesmeriche del dottor P., gli abitanti di Inverary hanno pieno possesso delle proprie facoltà fisiche, e sono liberi di camminare per le vie del paese, chiacchierare tra loro e via dicendo. La loro mente non sembra confinata in un regno ultraterreno ed infernale come quello sperimentato dall’anima postuma di Valdemar; quanto al corpo, esso necessita solamente, ogni tanto, di un piccolo “restauro”.


Eppure, Sclavi chiede implicitamente al lettore: siamo sicuri che gli abitanti di Inverary siano davvero liberi? Appare ben presto chiaro, infatti, che essi non godono di un vero e proprio libero arbitrio, ma viaggiano giorno dopo giorno su binari prestabiliti: percorrono quotidianamente le stesse vie, incontrano le stesse persone, fanno i medesimi discorsi, la cui ripetizione pedissequa e inconscia li svuota completamente di senso. Qui, dunque, risiede la lettura sclaviana: il vero Inferno non si presenta, come da tradizione, con fuoco e fiamme, né è situato in un mondo ultraterreno, anche se, in un certo senso, a ragione potrebbe essere così definito Inverary.

Pur rilevando che il percorso dell’Indagatore dell’Incubo alla volta del paesino “fatato” inglobi più di un topos mitico del viaggio ultraterreno [5], nondimeno bisogna sottolineare come Inverary si trovi fisicamente nel nostro mondo, non nell’Altrove assoluto: è una cittadina come tante altre, i cui abitanti passano il tempo esattamente come i loro coetanei nel resto dell’Inghilterra, dell’Italia, del mondo occidentale. E proprio qui sta l’approccio post-moderno, cinico e lucidamente nichilista di Sclavi alla questione della “morte del corpo”, della “sopravvivenza dell’anima” e del “mesmerismo”: in un mondo ormai completamente svuotato del senso del Sacro e del Mistero, ogni vivo è, come sosteneva Gurdjieff, un “dormiente”, ogni persona una maschera, ogni azione una stagnazione.

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In questo regno dell’Ade in Terra, ogni mente-anima, ormai ipnotizzata dal Grande Macchinatore, si rivela mesmerizzata, zombificata; la ripetizione forzata di ogni esperienza fa dell’esistenza stessa un mysterium tremendum di segno opposto a quello di cui parlava Rudolf Otto [6]: lungi dall’elevare la coscienza del soggetto, lo trascina impetuosamente verso il basso. Sembra a tal punto priva di senso la vita all’interno della Zona [7] che il primo abitante di Inverary ad averci fatto ingresso, Terence Carpenter, implora Dylan, similmente al Nosferatu di Herzog [8], di far cessare le sue sofferenze:

Io abito nella Zona del Crepuscolo… io sono stato il primo a giungere nella Zona… e ora sono tanto stanco… tanto stanco… dammi la pace, ti prego…

La Zona, aggiunge,

è un confine… è un attimo dilatato all’infinito… è il momento in cui la vita non è ancora morte e la morte è ancora vita… è l’istante del passaggio da questo a un altro mondo…

Lungi dal “fantasticare” sulla sopravvivenza dell’anima dopo la morte, sembra rilevare implicitamente Sclavi, oggi non possiamo nemmeno vantarci di possedere un’anima in vita; e lo stesso discorso vale per la libertà fisica, poiché i nostri corpi, esattamente come quelli degli abitanti di Inverary, si trascinano come burattini animati dal “dottore pazzo” di turno su binari da lui prestabiliti, come mere pedine ed ingranaggi che perpetuano, giorno dopo giorno, un meccanismo babelico privo di senso e scopo, persino per colui che “fa girare la giostra”. Ecco la risposta del dottor Hicks all’esternazione di Dylan, secondo cui quanto succede ad Inverary è “atroce”:

Sì, può darsi… ma non più della vita vera… anzi, è praticamente la stessa cosa, solo che nella Zona del Crepuscolo non si muore… è la banalità sublime… l’inutilità eretta a sistema… il nonsenso totale… l’idea di dover morire fa sì che ci affanniamo per trovare uno scopo all’esistenza… eliminata quell’idea, anche l’affanno scompare…

Nel seguito (Ritorno al Crepuscolo) Sclavi esprime questa prospettiva facendo raffigurare a Montanari & Grassani una delle strade centrali di Londra, e fa dire ad un supposto Edgar Poe, proiettato lì all’improvviso, per uno scherzo dello spazio-tempo:

L’inferno, sì. Altro non poteva essere quel luogo spaventoso al di là di ogni immaginazione, e che solo il sommo Dante avrebbe saputo rappresentare. Immersi in una nebbia caliginosa e acre, irrespirabile, torme di anime in pena si affrettavano senza senso e senza meta, tra alti palazzi che parevano altrettante babeliche torri di cristallo, mentre nelle strade si muovevano in un caos primordiale strani animali simili a veicoli senza cavalli, dall’insopportabile frastuono, e nel cielo, a malapena visibile oltre la bruma, volavano immensi demoni alati.

Con l’espediente narrativo d’immaginare Poe nella Londra alle soglie del Duemila, Sclavi fa assurgere il caos magmatico (rappresentato allegoricamente da Inverary nell’arco dei due albi e dalla capitale inglese in questo specifico frangente narrativo) più che a luogo ultraterreno, sull’esempio dell’Ade degli Ellenici o dell’Inferno dantesco, a realtà emblematica dell’impasse in cui si trova l’uomo contemporaneo. Esso, infatti, si presenta agli occhi di Sclavi (non, come detto, per una ragione geografica, bensì per un fatto meramente umano) come rappresentazione dell’Inferno sulla Terra [9]: non perché sia un luogo “terrificante” o “diabolico”, ma perché riassume al meglio, nella sua scialba aspettativa di non-vita che si reitera giorno dopo giorno, lo smarrimento dell’uomo moderno [10], il quale, avvolto dalle nebbie implacabili di Storia e Tempo e intrappolato in una stagnante Zona del Crepuscolo, condivide col Valdemar di Poe il senso d’impotenza e, al tempo stesso, di desolato stupore:

Ho dormito… ed ora… ora sono morto.


Note:

  1. Questa la tagline in lingua originale: «There is a fifth dimension beyond that which is known to man. It is a dimension as vast as space and as timeless as infinity. It is the middle ground between light and shadow, between science and superstition, and it lies between the pit of man’s fears and the summit of his knowledge. This is the dimension of imagination. It is an area which we call the Twilight Zone».
  2. Un’altra fonte d’ispirazione per Inverary potrebbe essere il racconto breve Lest Earth be Conquered (Una piccola città, 1966) di Frank Belknap Long, il cui nome peraltro viene citato ripetutamente nei due albi.
  3. Cfr. «Dylan Dog», n. 1, L’Alba dei Morti Viventi.
  4. Oltre al già menzionato Caso Valdemar, ricordiamo anche Mesmeric Revelation (Rivelazione mesmerica), A Tale of the Ragged Mountains (Un racconto delle Ragged Mountains) e The Spectacles (Gli occhiali), tutti datati 1844, nonché Some Words with a Mummy (Quattro chiacchiere con una mummia), dell’anno seguente. Suggestioni mesmeriche erano però già state utilizzate da Poe in precedenza, ad esempio in Metzengerstein (1832).
  5. Lo smarrimento in una “selva oscura” e nebbiosa, il guado del corso d’acqua a bordo della barca di Caronte, la scomparsa di Mabel nel “gorgo fatale” che ricorda tanto il Maelstrom di Poe ma anche il “buco d’accesso al mondo infero” delle tradizioni sciamaniche dell’Asia centro-settentrionale e del Sub-Artico, e così via.
  6. Cfr. Rudolf Otto, Il sacro, tr. di Ernesto Bonaiuti, SE, Milano 2009.
  7. La “Zona” in cui si rimane sospesi fra vita e morte (e, in particolar modo, la scena nelle catacombe con Carpenter) si rifà palesemente ai “Terreni K” del film di Pupi Avati Zeder (1983), appezzamenti di terreno utilizzati dagli antichi Etruschi per le loro catacombe, in cui i corpi sepolti rimangono in una sorte di “vita sospesa”.
  8. «Il tempo è un abisso profondo con lunghe infinite notti, i secoli vengono e vanno… Non avere la capacità di invecchiare è terribile. La morte non è il peggio: ci sono cose molto più orribili della morte. Riesce a immaginarlo? Durare attraverso i secoli, sperimentando ogni giorno le stesse futili cose» (Nosferatu, 1978).
  9. Un tema che sarà approfondito da Sclavi nel quarantunesimo albo di «Dylan Dog» (Golconda!), nel quarantaseiesimo (Inferni) e, volendo, anche nel diciannovesimo (Memorie dall’invisibile).
  10. Anche in questo senso si può forse intendere il carattere “crepuscolare” della “Zona” nel racconto di Sclavi, quasi in maniera spengleriana.
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