La dea degli Ebrei

La monografia di Raphael Patai sulla “parte femminile di Dio”, edita nel mese di luglio da Venexia Editrice, costituisce un prezioso supporto alla ricerca, tanto più in un paese come il nostro in cui disperatamente langue la traduzione di saggi ed articoli fondamentali la cui conoscenza getterebbe la giusta luce su tante tematiche spesso fraintese o lasciate alla libera interpretazione dello studioso. 

Quest’opera è tanto più importante in quanto rappresenta un’ennesima, dura picconata al pregiudizio, in voga soprattutto (ma non solo) in ambienti afferenti al tradizionalismo integrale, secondo cui l’Ebraismo sarebbe genuinamente monoteista. 

Simili tesi, basate sull’ossessiva rimasticazione di non più di quattro o cinque passaggi biblici, peraltro di dubbio significato, non tengono in alcun conto la storiografia, l’archeologia, la comparazione con le altre religioni semitiche del Vicino Oriente e neppure il dato dello stesso testo sacro, dal momento che, come agevole rendersi conto sfogliando qualsiasi edizione della Bibbia, la religione popolare degli Ebrei è stata per molti secoli tranquillamente politeista.

Neanche Raphael Patai può esimersi da questo gigantesco assioma di partenza. A partire dal 1100 a.C. circa (data del loro arrivo nella Terra di Canaan) e almeno fino al 586 a.C., data della distruzione del Primo Tempio da parte di Nabucodonosor, gli Ebrei adorarono più di una divinità oltre a Yahweh, e dedicarono un particolare culto alla dea Asherah. 

Asherah era una dea dei popoli semitici occidentali e il suo nome compare per la prima volta nelle tavolette della città-stato di Ugarit, datate al XIV secolo a.C. Ivi Asherah era la dea preminente del pantheon ugaritico, in quanto sposa del dio supremo, El, spesso chiamato “toro El” nei testi ugaritici. A El Asherah aveva partorito numerosi figli, protagonisti di significative vicende nella mitologia ugaritica, i più importanti dei quali erano senz’altro Hadd, o Hadad (comunemente detto Baal, “Signore”) e sua sorella Anat. Tra i popoli semitici orientali, o akkadici, invece, non sarebbe stata adorata in quanto tale, ma, osserva Patai, figure come la famosa Inanna/Ishtar e, soprattutto, una Ashratum [1], che compare in un testo sumero del 1750 a.C. in onore di Hammurabi, possono ben esserle accostate. 

Asherah si presenta come la tipica Magna Mater Deorum, materna e benevola da un lato, vendicativa e sanguinaria dall’altro. Come ben nota l’autore, questa duplicità, esprimente all’apparenza un’insanabile contraddizione, è destinata a ricomporsi avendo presente che l’archetipo principiale della Dea esprime quella forza cosmica ciclica che al è contempo vita e morte. Dando la vita la Dea getta gli esseri nel divenire che comporta la dissoluzione delle forme secondo l’ordine del tempo. Non è un caso che Asherah e le sue controparti, Anat, Astarte, Inanna/Ishtar, Anahita, si identifichino con il duplice astro di Venere [2], che come Phosphoros accompagna la nascita del Sole all’alba, come Hesperos ne accompagna la morte al tramonto, è il modello astrale da cui questa dottrina promana. Da lodare, pertanto, anche la scelta della casa editrice di mettere in copertina una significativa immagine di Asherah, che sembra danzare gioiosa, se non fosse che i suoi piedi calpestano un mucchio di teschi umani.

Paredro di Asherah fu ovviamente quello Yahweh al cui culto esclusivo il profeta di turno cercò sempre di riportare i riottosi Ebrei. Patai vi dedica alcuni passaggi, mettendone in luce la relazione con altre divinità come Enlil, Yam e soprattutto Hadad-Baal, di cui fu acerrimo avversario, ma del quale finì per incorporare le caratteristiche, assumendone anche l’identico epiteto di “Cavaliere delle Nuvole”. In effetti, Yahweh ha tutta l’aria di essere stato, in origine, una divinità dei fenomeni atmosferici e della tempesta, in ciò del tutto simile ai vari Enlil, Ishkur e Hadad/Baal. I due Cherubini, effigiati sul coperchio dell’Arca dell’Alleanza, non sarebbero altro che un’allegoria delle nubi che annunciavano il reboante arrivo di Yahweh. 

Con la fine dell’esilio babilonese e il ritorno in Palestina, gli Israeliti abbandonarono definitivamente il politeismo in favore del monotesimo yahwistico. La Dea, tuttavia, non scomparve del tutto, ma si occultò dietro il paravento delle dottrine talmudiche, divenendo un aspetto del Dio unico, la sua Shekinah, la parte femminile e presenza reale di Dio, visibile nel fumo dell’incenso diffuso nel Santo dei Santi del Tempio ed evidente, estrema propaggine concettuale delle nuvole che Yahweh cavalcava un tempo. 

Nelle speculazioni cabalistiche medievali la Shekinah assume più generalmente il nome di Matronit, nome modellato, con tutta evidenza, sul latino mater. La Matronit presenta quattro aspetti che ricordano da vicino l’ambivalente indole della Dea. Essa è al contempo madre, vergine, puttana e omicida. Facendo ricorso a categorie tipiche della psicanalisi, Patai scorge in essa l’archetipo del femminino così come interiorizzato dal maschio dell’essere umano. 

L’opera non poteva esimersi dal trattare brevemente anche del demone Lilith, altra rielaborazione talmudico-cabalistica di una sanguinaria semi-dea sumero-akkadica, personificazione a sua volta dell’aspetto più oscuro e notturno di Inanna/Ishtar. La Lilith dell’ebraismo subisce a sua volta un’evoluzione, passando dall’essere un demone notturno uccisore di bambini, di cui succhia il sangue (in ciò del tutto simile all’originale sumero-akkadico), a un’entità perversa che tende ad accoppiarsi nel sonno con gli uomini che dormono soli in casa (dando vita a una progenie demoniaca), alla prima compagna di Adamo. 

Molto interessante la parte relativa alla natura femminile dello Shabbat, in origine probabilmente connesso alla festa sumero-akkadica della luna [3], shabattu. I rimandi alla Dea traspaiono chiaramente: lo Shabbat inizia già del venerdì precedente, con la preparazione di tutto ciò che occorre al giorno sacro. Venerdì era il giorno dedicato alla Dea. Ma il settimo giorno della settimana rimanda anche alla dottrina pitagorica del numero sette, numero “verginale” per eccellenza, non essendo il prodotto né il fattore di produzione di alcun numero all’interno della decade. Per questa sua qualità Filone di Alessandria paragona lo Shabbat alla dea Atena, la vergine dea nata senza concorso femminile dalla testa di Zeus e già armata di tutto punto. Filone figura lo Shabbat come una donna, la vergine figlia di Dio, con doti di comando e governo. Il Talmud va ancora oltre, facendone la simbolica sposa di Israele e regina. Per certi versi “estrema”, ma non meno d’interesse, rispetto allo Shabbat, la posizione dei Falascia, gli ebrei d’Etiopia. Per questo gruppo etnico-religioso lo Shabbat è equiparato a Dio, assumendo quindi le caratteristiche di una vera e propria dea. 

Il volume si conclude con un’appendice che ci mostra l’atteggiamento abbastanza disinvolto di una comunità ebraica periferica nei confronti della tradizione pittorica ellenistica. Nell’avamposto romano della città di Dura Europos (caduta in mano ai Persiani nel 256 d.C.) vennero alla luce i resti di una sinagoga con un affresco che, in modo inconsueto, tenuto conto delle proibizioni ebraiche in materia di immagini, raffigura il bambino Mosè salvato dalle acque del Nilo in braccio a una donna nuda. L’iconografia ricorda da vicino quella della dea iranica delle acque Anahita, nonché quella di Afrodite (con cui Anahita era identificata) con in braccio il piccolo Eros. L’interpretazione di Patai è nel senso che non possa comunque trattarsi di una dea pagana tout court, atteso che poco distante un altro affresco raffigura l’Arca dell’Alleanza in atto di distruggere le statue degli dei palmireni adorati a Dura Europos. In accordo alla dottrina talmudica, la donna sarebbe invece una rappresentazione della Shekinah, che il Midrash riconnette strettamente a Mosè. Cionondimeno, e forse nella stessa inconsapevolezza dell’artista, non può che sorprendere l’intima coerenza della raffigurazione con quanto fin qui detto. Se la Shekinah-Matronit non è che la prosecuzione nel cuore del monoteismo yahwistico dell’originario modello divino pagano, incarnato nelle grandi dee del Vicino Oriente, l’apporto figurativo ellenistico non fa che manifestare sul piano estetico tale intima filiazione. 

Insomma, e per concludere, La dea degli Ebrei ci mostra come l’eliminazione dell’eterno femminino, perpetrata dalla religione profetica, non possa scalfire nei fatti il bisogno di religione naturale dell’uomo. La Dea, spazzata via nella forma, rinasce costantemente nel bisogno inconscio dei suoi seguaci di prostrarsi davanti all’eterna madre, vergine, prostituta e guerriera. Come la testa dell’Idra di Lerna, la recisa religiosità che anela alla Dea rinasce di necessità, e sotto mentite spoglie si insinua quasi inconsapevolmente nelle dottrine esoteriche, poste al confine della religione ufficiale, dall’ambito delle quali ci parla con il linguaggio che conoscevamo. Shekinah, dal verbo “shakhan”, sostantivo indicante letteralmente l’atto dell’abitare: la Dea continua ad essere presente in mezzo a noi e dentro di noi, nonostante il suo apparente esilio. 


[1] In realtà, secondo la nostra opinione, per l’epiteto di “Asherah del Mare”, la divinità akkadica che più le si avvicina è Ishara, detta parimenti “Ishara del Mare”, terribile dea-scorpione, allotropo di Ishtar, che l’elenco MUL.APIN identifica con GIR.TAB, la costellazione dello Scorpione. Ishara, signora delle profondità, è anche la madre dei Sette Grandi Dei, identificati con le Pleiadi. 

[2] Che ha peraltro una corrispondenza nel duplice corno lunare, tanto che più tardi tutte queste dee finirono per identificarsi in certo modo con la luna, al pari di Artemide in Grecia. Si noti che nei tempi più antichi del Vicino Oriente la luna era espressione di un principio maschile. Maschili erano le divinità lunari Nannar, Sin, Yerah (Terah), Laban. 

[3] Patai parla della luna piena, ma sarebbe forse più corretto riferire la festa al novilunio, anche in considerazione di alcuni passi biblici in cui Shabbat e luna nuova sembrano interdipendenti.  

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