L’evoluzione di Dio: la moralizzazione del Sacro fra filosofia delle religioni e psicologia dell’inconscio

Perché la Scrittura pone, nell’Antico Testamento, il male in Dio, e nel Nuovo Testamento invece fuori di Dio? Da cosa dipende questa evoluzione nella rappresentazione della divinità? In questo articolo verranno poste in relazione alcune voci fondamentali che hanno studiato il processo di moralizzazione della rappresentazione del divino nelle Scritture: quelle di Rudolf Otto, Sigmund Freud, Carl Gustav Jung e Friedrich Nietzsche.

di Shady Dell’Amico

Copertina: William Blake, “The Ancient of Days”

Il rapporto che intercorre fra il bagaglio della tradizione religiosa e i nuovi orizzonti culturali che si sono aperti nel pensiero contemporaneo è ampio e complesso. Le proposte della filosofia e della psicologia dell’inconscio, pur arrivando alle posizioni più diverse, condividono un decisivo interesse per la religione. In questo articolo intendo porre in relazione alcune voci fondamentali che hanno studiato il processo di moralizzazione della rappresentazione del divino nelle Scritture. In particolare prenderò in esame l’opinione di Rudolf Otto, di Sigmund Freud, di Carl Gustav Jung e infine di Friedrich Nietzsche, primo per ordine cronologico, collocato da ultimo per ragioni di unità tematica. 

In particolare si evidenzierà la risposta di questi autori alla domanda: perché la Scrittura pone, nell’Antico Testamento, il male in Dio, e nel Nuovo Testamento invece fuori di Dio? Da cosa dipende questa evoluzione nella rappresentazione della divinità? Certamente non è questa la sede per entrare nelle questioni inerenti il difficile problema teologico della relazione fra Dio e il male; ciò che c’interessa è la reazione che la coscienza moderna, in sede filosofica e psicoanalitica, ha avuto di fronte a questa particolare immagine offerta dalle Scritture.

Rudolf Otto

Rudolf Otto e l’«eticizzazione dell’idea di Dio»

Già nella sua opera Il sacro del 1917 il teologo protestante Rudolf Otto aveva evidenziato come, nell’Antico Testamento, il male fosse ricondotto alla medesima volontà di Dio: con il desiderio di stabilire l’assoluta trascendenza del principio numinoso, sintesi di fascino e terrore, le sezioni più antiche della letteratura biblica hanno insistito molto nel riportare al divino tanto le soddisfazioni affettive e materiali dell’esistenza, quanto, e in modo altrettanto legittimo, le catastrofi più gravi che si rinvengono nell’esperienza umana. 

Per Otto ciò lo si nota chiaramente nel male che consegue la manifestazione dell’ira divina, rappresentazione del tremendum a livello scritturale, la quale, frequentemente, «in sé e per sé non ha nulla a che vedere con le qualità morali […]. È “incontrollabile” e “aleatoria”. A colui che è abituato a pensare alla divinità a partire dai suoi predicati razionali, essa deve apparire come un capriccio e una passione arbitraria» [1]. Il carattere imprevedibile e caotico dell’orgé Theou è pertanto all’origine di quanto è sentito come male nell’ordine dell’esperienza umana.  Otto nota come, in continuità con gli sviluppi della sensibilità religiosa nei Profeti e nei Salmi,  le cose cambino notevolmente con il Nuovo Testamento: 

« Nell’evangelo di Gesù si è compiuto il tratto della razionalizzazione, della moralizzazione e dell’umanizzazione dell’idea di Dio; […] facendo in modo che il numinoso diventasse sempre più ricco e si riempisse dei predicati tipici degli evidenti e profondi valori razionali dell’animo. » [2] 

Con il cristianesimo, constata Otto, si afferma la nozione di un Dio come amore universale, come Abbà, in una connotazione del trascendente che si fonde con l’etica fino a essere indissolubilmente legata a essa (sebbene comunque non rinunci, a tratti, ai caratteri del tremendum). «La razionalizzazione e moralizzazione del numinoso, sempre più evidente e intensa, è la parte principale di ciò che definiamo ‘storia della salvezza’ e riconosciamo essere l’autorivelazione del divino in costante sviluppo» [3]. È un’«eticizzazione dell’idea di Dio» che, nella parabola della letteratura biblica, «si compie nel numinoso stesso» [4].

Sigmund Freud

Freud e l’espiazione del parricidio primordiale

Un’evoluzione della rappresentazione del divino, questa, che non passa inosservata al caposcuola della psicologia del profondo. Per Freud il sacro «in origine non è nient’altro se non la prosecuzione della volontà del padre primigenio» [5], la quale manifesta un carattere ambivalente nel suo riflettere l’ambivalenza affettiva che si prova verso il genitore:

«Con ciò si farebbe un po’ di luce sull’ambivalenza che domina in genere il rapporto con il padre. Sacer significa non solo sacro, consacrato, ma anche qualcosa che possiamo tradurre soltanto con “infame”, “esecrabile” (“auri sacra fames”). Tuttavia la volontà del padre non era soltanto qualcosa di intoccabile, qualcosa da tenere altamente in onore, ma anche qualcosa di fronte a cui si tremava, perché esigeva una dolorosa rinuncia pulsionale» [6].

Il sacro, perciò, è fascinans come lo è la forza e il coraggio del padre, ed è tremendum, come lo è la paura della punizione che può comportare la trasgressione della sua volontà. Queste spiegazioni, però, non ci dicono perché ad un certo punto della storia biblica la psicologia di Yahwèh si faccia sempre più unidirezionale, fino a convergere nella sostituzione del figlio alla rappresentazione del padre [7]. Non tengono in considerazione quella che si è definita come l’evoluzione di Dio, la sua moralizzazione. È qui che Freud si sente costretto a prendere in considerazione la questione sotto un punto di vista diverso, in grado di osservare nelle trasformazioni dell’immagine biblica di Dio l’effetto storico di un complesso di meccanismi psichici elevati su scala collettiva. 

Il Dio veterotestamentario – scrive Freud ne L’uomo Mosè e la religione monoteistica – sarebbe infatti il prodotto di un assemblaggio fra due diverse divinità: una, luminosa ed eticamente connotata, proveniente dall’Egitto, l’altra, terricola e umbratile, originaria della regione di Qadesh. L’ambivalenza psicologica che si nota nella rappresentazione del divino e che dipende dal complesso paterno proprio di tutti gli uomini, si sarebbe sposata, nell’arco della storia ebraica, al tentativo di tenere assieme queste due figure, coincidenti con il lato “buono” e il lato “oscuro” di Dio.

A questo proposito è interessante vedere come la trasformazione psicologica del divino sarebbe stata, secondo Freud, il prodotto di un processo in atto nel popolo ebraico. Egli avrebbe accolto dal suo liberatore, il condottiero egizio Mosè, la religione monoteista del dio Aton, per poi ripudiarla nel deserto e sostituirla con il culto barbarico e madianita del demone Yahwèh, non prima di aver ucciso il proprio capo. Il senso di colpa e il ritorno del rimosso avrebbero così favorito l’insorgenza di una tradizione profetica capace di ripristinare l’atonismo e di facilitare, nella coscienza dell’ebreo Paolo, la possibilità di un’espiazione definitiva da ciò che sotto questa trama di avvenimenti funesti continuava ad agitarsi: l’inconscia memoria dell’uccisione del padre ancestrale nell’orda promiscua.

L’espiazione del Cristo è vista, in tal senso, come il sacrificio del “primogenito di molti fratelli” dell’orda. Essa rappresenta una reale redenzione psicologica dal senso di colpa verso l’uccisione del padre primitivo. Il complesso, così, viene “disinnescato” dall’interno: il figlio si è fatto uccidere per riparare quanto aveva fatto verso il padre. Con il cristianesimo Dio perde il il carattere del tremendum, dato che non cerca né più vendetta né più castigo. Diventa buono. In questo modo, però, segna la sua stessa condanna:

«Scaturito da una religione del padre, il cristianesimo divenne una religione del figlio. Non sfuggì alla fatalità di doversi sbarazzare del padre» [8].

Carl Gustav Jung

Jung e la scissione di Dio

Ora, una trattazione analoga è compiuta da Carl Gustav Jung nella sua Risposta a Giobbe, pubblicata nel 1952. Mentre Freud pone attenzione alle implicazioni presenti nell’ambivalenza psicologica della raffigurazione di Yahwèh dal punto di vista della storia del popolo ebraico, tale situazione viene esaminata dallo psichiatra svizzero sotto il profilo dell’immaginario mitico. Interessato a cogliere la dinamica psicologica che si cela sotto le trasformazioni caratteriali con cui è rappresentata la divinità, Jung non considera la storia nascosta sotto gli eventi biblici, ma prende tali eventi per come sono esposti nella loro dimensione narrativa.

In altre parole: Jung esamina la questione indagando la psicologia dello stesso soggetto in evoluzione, e cioè Dio. In questa sede non è importante approfondire il particolare modo di procedere di Jung, la cui indagine sembra spesso sconfinare dal dominio della psicologia per introdursi – come denuncia Martin Buber – in un terreno a tutti gli effetti religioso [9]. Qui basta individuare come il fondatore della psicologia analitica spieghi la trasformazione dell’immagine divina all’interno delle Scritture. Jung interpreta la moralizzazione del sacro di cui si è parlato – ossia il progressivo passaggio da un Dio ambivalente a un Dio trasfigurato nel summum bonum – come una rimozione della volontà del male dalla divinità, volontà che viene così ipostatizzata in un principio antitetico a Dio: il diavolo

Il passo del Vangelo secondo Luca in cui si legge del «singolare avvenimento metafisico che Cristo ha percepito: Io vedevo Satana cadere come una folgore (Lc 10,18)» viene letto da Jung come concernente 

« la temporalizzazione (l’entrata nel tempo) di un avvenimento metafisico, cioè la separazione storica definitiva (fino a nuovo ordine) di Yahwèh dal suo figlio tenebroso. Satana è stato bandito dal cielo e non ha più alcuna occasione di convincere suo padre ad impegnarsi in imprese dubbie [come quella di Giobbe]. » [10] 

Infatti, «in seguito alla relativa limitazione dell’influenza di Satana, Yahwèh, identificandosi con il suo aspetto luminoso, diviene un Dio buono e un Padre amoroso» [11]. L’eticizzazione del numinoso, già colta da Otto, si rende qui sintomo di un processo di espulsione del male da Dio, parallelo alla costruzione della figura neotestamentaria di Satana. Ora, tutto ciò non si realizza senza ambiguità. Per Jung – come in parte aveva constatato anche Otto stabilendo il mantenimento del carattere del tremendum nonostante l’identificazione giovannea di Dio con l’amore (cfr 1Gv 4,8) – Yahwèh, espulso il male da sé, continua tuttavia a esserne tentato, quasi mosso dalla tendenza psicologica alla regressione. Di fatti, 

« si deve ammettere che sarebbe contrario ad ogni ragionevole aspettativa il supporre che un Dio che sin dai tempi più remoti, nonostante la Sua generosità, cadeva in preda ad accessi di collera devastatrice, sia divenuto ora, tutto d’un tratto, la quintessenza di ogni bontà. » [12] 

Anzi: «l’instabilità interiore di Yahwèh» [13] resterà evidente, nonostante le sue trasfigurazioni, anche nel Nuovo Testamento, dove, «nonostante tutte le sue precauzioni e nonostante la sua chiara intenzione di divenire il Summum Bonum» [14], continuerà a manifestarsi fino a esplodere definitivamente nell’Apocalisse [15]

Tutto ciò porta Jung a concludere la necessità di riammettere il tremendum nella rappresentazione di Dio, di constatare cioè come la proposta unilaterale del Dio come amore debba rettificarsi alla luce di una teologia che sappia accogliere anche il male, e non solo il bene, come il prodotto dell’azione divina. Il male, pertanto, sarà da Jung non valutato al modo di una privatio boni, ma piuttosto come il frutto della volubilità e dell’incostanza di un Dio che nel suo processo di individuazione deve riuscire ad accogliere le proprie tensioni aggressive e distruttive in una totalità psichica integrata. La stessa Trinità – sostiene Jung – deve aprirsi all’elemento femminile e quello diabolico, così da incarnare l’archetipo della totalità e della completezza, recuperando in sé gli attributi che la tradizione cristiana ha voluto alienare da Dio. «La fede in Dio quale Summum Bonum – scrive infatti lo psichiatra – è impossibile ad una coscienza che riflette» [16].

Friedrich Nietzsche

Nietzsche e l’invecchiamento di Dio

Questa panoramica sull’ambivalenza del divino può essere conclusa con un comune riferimento di lingua tedesca, specie per Freud e Jung: mi riferisco al curioso esame sulla psicologia del divino che troviamo nella quarta sezione del Così parlò Zarathustra di Nietzsche. Molte delle idee freudiane sono desunte da Nietzsche, ultimo fra i grandi filosofi dell’Ottocento, senza peraltro che il padre della psicoanalisi abbia mai riconosciuto la paternità di queste intuizioni. Assai diverso è stato l’atteggiamento di Jung, che ha spesso fatto riferimento al filosofo di Basilea nei suoi lavori psicologici, fino a dedicare un famoso seminario proprio allo Zarathustra fra il 1934 e il 1939. 

Per Nietzsche, con una straordinaria vicinanza con Jung e con quanto descritto da Otto e Freud, il processo di moralizzazione del divino ha comportato, nella psicologia dei fedeli, una repressione degli istinti aggressivi, che sono stati poi sublimati nella rappresentazione della giustizia divina. A suo parere è proprio questa dinamica di estromissione del male dal sacro ad aver condotto Dio alla morte. Se si osserva la parabola storica del Dio ebraico-cristiano, si assiste infatti ad un progressivo depotenziamento nella vitalità della sua rappresentazione, ad un graduale processo di indebolimento dovuto all’accentuazione del suo carattere etico e universale. Il Dio ebraico degli eserciti e delle guerre, così come proposto dalla prima parte dell’Antico Testamento, è magnificato da Nietzsche in quanto espressione di appartenenza identitaria; è esaltato per la forza e la violenza dei toni e delle azioni, espressione del carattere tribale e virile proprio della coscienza culturale degli autori:

« Quando era giovane – così scrive nello Zarathustra – questo dio dell’Oriente era duro e vendicativo, e si costruì un inferno per il divertimento dei suoi prediletti. Alla fine, però, divenne vecchio e molle e fragile e compassionevole, più simile a un nonno che a un padre, ma più simile ancora a una vecchia nonna tremante. Allora, stava seduto tutto avvizzito vicino alla stufa, afflitto dalle sue deboli gambe, stanco del mondo, infiacchito nella sua volontà, e un giorno soffocò per la sua compassione troppo grande. » [17] 

Con il cristianesimo, infatti, il Dio nazionale degli eserciti viene coinvolto in un processo di spiritualizzazione volto a trasfigurarlo, da espressione affermativa dello spirito di appartenenza, in un idolo astratto, paterno e misericordioso, ormai svuotato di tutte le altre passioni. Senza più capacità d’ira, senza più preferenze verso i singoli o verso i popoli, e anzi, ripiegato in egualitarismo e in universalismo tiepido e privo di legami con una terra o con un popolo, questo Dio amorevole si è lentamente fatto evanescente, fino a scomparire. Di questo Dio, dice Nietzsche, è giusto sostenere che «lo strangolò la compassione […], l’amore per l’uomo divenne il suo inferno e da ultimo la sua morte» [18]

Questa moralizzazione del divino è intesa da Nietzsche al modo di un’evoluzione della psicologia dei fedeli: l’adorazione di un Dio soltanto buono testimonia l’estromissione dei contenuti psichici distruttivi giudicati incompatibili con la morale. Se il divino è lo scenario in cui l’uomo proietta la propria immagine, il Dio cristiano presenta una condizione psicologica mutilata che è specchio dello stato mentale dei credenti.

Nietzsche anticipa in questo modo un’istanza fondamentale della psicologia del profondo, e cioè la necessità di accogliere l’Ombra come elemento imprescindibile della salute mentale e fisica. L’uomo che viene, dice Nietzsche, avrà questo di proprio: amerà i suoi lati aggressivi e violenti tanto quanto quelli luminosi. Egli dovrà reintegrare proprio ciò che il cristianesimo, costruendosi l’immagine di un Dio innocuo, ha voluto censurare: tutta l’oscurità che alberga nell’anima umana. 

William Blake, “Defeat”

Conclusioni: dalla vecchia religione a una nuova antropologia

Concludendo questa breve panoramica, si possono formulare alcune osservazioni. Ciò che Rudolf Otto individuava come rapporto con un “totalmente Altro”, assieme fascinans e tremendum, la psicologia del profondo l’ha riconosciuto come proiezione dell’inconscio. L’inconscio è infatti dominato dalla coincidenza di energia creativa e distruttiva, la quale, grazie alla ragione e al suo sistema di regole, può essere differenziata in antitesi etiche. È nell’inconscio quella coincidenza di opposti che l’uomo, per prenderne distanza, ha esternato nella forma del sacro. Il sacro è dunque “simbolo” (syn-ballein, tenere insieme) delle contrapposizioni che si agitano nelle profondità della psiche, esternate così da darne una metafora adeguata. 

Integrare questa dimensione profonda (esauribile o inesauribile che sia) è compito del trattamento analitico. Il quale, dunque, non fa che favorire – secondo quanto spesso detto da Jung – l’incarnazione degli aspetti che l’esperienza del sacro attribuisce a Dio, assieme  fascinans e il tremendum. È la stessa operazione prospettata da Nietzsche. A fronte di un cristianesimo ridotto alla morale, all’educazione di un uomo “soltanto buono”, il filosofo dello Zarathustra prospetta la maturazione di un oltre-uomo in grado di porsi come una complexio oppositorum, come un’identità di opposti. In grado di recuperare in modo sano tutto quanto la morale cristiana ha bandito: la sessualità, l’aggressività, l’amore di sé

«Io sono quel superuomo psicoanalitico» scrive Freud a Ferenczi in una lettera del 6 ottobre 1910 [19], ed è anche in tal senso che Richard Noll è arrivato a parlare di Jung come del profeta di una “religione nietzschiana” volta a sostituire il cristianesimo tradizionale [20]. Constatare l’ambivalenza interiore e la dissonanza psichica ha aperto le porte ad una psicologia capace, trasvalutando le nozioni morali del passato, di porsi “al di là del bene e del male”. Nell’escatologia tanto la psicoanalisi che la filosofia finiscono per convergere: l’uomo che viene dovrà accogliersi nelle sue luci e nelle sue ombre, nel suo bene e nel suo male. Dovrà recuperare ciò il divino ha perso con la moralizzazione in cui l’ha condotto il cristianesimo – la vocazione non a essere buoni, ma a essere interi. 

William Blake, “The Sun at His Eastern Gate”

Bibliografia:

Buber M., L’eclissi di Dio, Passigli, Firenze 2000 [ed. originale: 1952].

Dell’Amico S. (2020), Miti che curano. Il ruolo del simbolismo religioso nella psicologia analitica di Carl Gustav Jung, Studi Junghiani, 1: 54-75. 

Freud S., L’uomo Mosè e la religione monoteistica, Bollati Boringhieri, Torino 2013 [ed. originale: 1939].

Jung C.G., Risposta a Giobbe, Bollati Boringhieri, Torino, 1992 [ed. originale: 1952].

Nietzsche F., Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 1976 [ed. originale: 1883-1885].

Noll R., Jung il profeta ariano. Origini di un movimento carismatico, Mondadori, Torino 2001 [ed. originale: 1999].

Otto R., Il sacro. Sull’irrazionale nell’idea del divino e il suo rapporto con il razionale, Morcelliana, Brescia, 2011 [ed. originale: 1917]. 

Palmer M., Freud, Jung e la religione, Centro Scientifico Editore, Torino 2000 [ed. originale: 1997].

Zaretsky E., I misteri dell’anima. Una storia sociale e culturale della psicoanalisi, Feltrinelli, Milano 2006 [ed. originale: 2004].


Note:

[1] R. Otto, Il sacro. Sull’irrazionale nell’idea del divino e il suo rapporto con il razionale, Morcelliana, Brescia, 2011, p. 45.

[2] Ivi, p. 124.

[3] Ivi, p. 152.

[4] Ibidem.

[5] S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica, Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 134.

[6] Ivi, p. 135.

[7] Cfr. Ivi, p. 149.

[8] Ivi, p. 149.

[9] Cfr. M. Buber, L’eclissi di Dio. Passigli, Firenze 2000. Per il complesso rapporto fra Jung e la religione si veda M. Palmer, Freud, Jung e la religione, Centro Scientifico Editore, Torino 2000. Sul particolare significato che Jung attribuisce all’immagine di Dio cfr. S. Dell’Amico (2020), Miti che curano. Il ruolo del simbolismo religioso nella psicologia analitica di Carl Gustav Jung, Studi Junghiani, 1: 54-75.

[10] C.G. Jung, Risposta a Giobbe, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, p. 82.

[11] Ibidem.

[12] Ivi, pp. 84-85.

[13] Ivi, p. 111.

[14] Ivi, pp. 83-84.

[15] Cfr. ivi, p. 134.

[16] Ivi, p. 97.

[17] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 1976, pp. 302-303.

[18] Ivi, p. 302.

[19] L’edizione tedesca inserisce un “non” fra virgolette. Zaretsky lo definisce «un lapsus interessante»: cit. in E. Zaretsky, I misteri dell’anima. Una storia sociale e culturale della psicoanalisi, Feltrinelli, Milano 2006, p. 524.

[20] Cfr. R. Noll, Jung il profeta ariano. Origini di un movimento carismatico, Mondadori, Torino 2001.

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