René Guénon: “Il caos sociale”

Oggi ricorre il 70esimo anniversario dalla morte di René Guénon. Per l’occasione, vogliamo pubblicare un estratto dal suo “La crisi del mondo moderno” (1927), opera che, nonostante sia stata pubblicata ormai quasi un secolo fa, risulta ancora oggi illuminante per capire le storture del mondo in cui viviamo, soprattutto considerando gli avvenimenti a cui abbiamo assistito negli ultimi tempi.

di René Guénon

Tratto da La Crisi del Mondo Moderno, 1927. Copertina: Marten van Valckenborch, The Tower of Babel, 1595

In questo studio non intendiamo trattare in modo speciale il punto di vista sociale, punto di vista che ci interessa solo assai indirettamente, non rappresentando che un’applicazione alquanto lontana dei princìpi fondamentali. Così, non è nel dominio sociale che in ogni caso potrebbe prendere inizio un’essenziale rettificazione del mondo moderno. Se questa rettificazione venisse infatti attuata a rovescio, partendo dalle conseguenze anziché dai princìpi, essa mancherebbe per forza di una base seria e sarebbe affatto illusoria. Nulla di stabile potrebbe mai risultarne e bisognerebbe cominciar sempre di nuovo per aver trascurato d’intendersi anzitutto circa le verità essenziali. Per cui, non ci è possibile concedere alle contingenze politiche, anche dando a questa parola il suo senso più ampio, altro valore se non quello di semplici segni esteriori della mentalità di un’epoca. Ma per ciò stesso non possiamo nemmeno passar del tutto sotto silenzio le manifestazioni del disordine moderno nel dominio sociale propriamente detto, nelle loro forme più caratteristiche, che giungono fino al periodo dell’immediato dopoguerra [1]: i fenomeni politico-sociali più recenti, in parte di “reazione” o “controrivoluzione”, per ora li lasceremo fuori di considerazione, anche perché finora essi non hanno sviluppato tutte le loro possibilità fino a dar materia ad un giudizio definitivo dal punto di vista in cui noi qui ci poniamo esclusivamente, cioè da un punto di vista universale e superpolitico.

Come si è detto poco fa, allo stato attuale del mondo occidentale quasi nessuno si trova nel posto che normalmente gli spetterebbe in base alla sua natura propria. Ciò si vuole esprimere dicendo che le caste non esistono più, poiché la casta, intesa nel suo senso vero e tradizionale, altro non è che la stessa natura individuale con l’insieme delle attitudini speciali che essa implica e che predispongono ogni uomo all’adempimento di una data funzione e non di un’altra. Quando l’accesso a qualsiasi funzione non è più controllato da alcuna regola legittima, il risultato inevitabile è che ognuno sarà portato a fare qualunque cosa e spesso ciò per cui egli è meno dotato. La funzione che egli avrà nella società sarà determinata, se non dal caso, giacché il caso in realtà non esiste, da qualcosa che può sembrare il caso, cioè da un intreccio di circostanze accidentali d’ogni specie. L’ultimo ad intervenire, sarà proprio il solo fattore che dovrebbe contare in un simile caso, cioè la differenza di natura esistente fra gli uomini. La causa di siffatto disordine è la denegazione di una tale differenza, denegazione che implica quella di ogni gerarchia sociale. E una tale negazione, che forse a tutta prima può essere stata appena cosciente e più pratica che teorica, perché la confusione delle caste ha preceduto la loro completa soppressione, o, in altre parole, perché si è disconosciuta la natura dei singoli prima di finire col non tener alcun conto di essa – una tale negazione, diciamo, è stata costituita dai moderni in uno pseudo-principio sotto il nome di “eguaglianza”.

Ora, sarebbe troppo facile dimostrare che l’eguaglianza non può esistere in nessun caso, per la semplice ragione che è impossibile che due esseri siano realmente distinti eppure simili sotto ogni riguardo. Non meno facile sarebbe mettere in rilievo tutte le conseguenze assurde che derivano da questa idea chimerica, in nome della quale si è preteso di imporre dappertutto un completo uniformismo, ad esempio impartendo a tutti un identico insegnamento, come se tutti fossero egualmente capaci di capire le stesse cose e come se, per farle comprendere, gli stessi metodi fossero adatti per tutti indistintamente. D’altronde, ci si può chiedere se non si tratti più di “apprendere” che non di veramente “comprendere”, cioè se non si sia sostituita la memoria all’intelligenza nella concezione affatto verbale e “libresca” del moderno insegnamento, il quale mira solo ad accumulare nozioni elementari e eteroclite e nel quale la qualità resta interamente sacrificata alla quantità, come accade dappertutto nel mondo moderno per ragioni che chiariremo in seguito: si tratta sempre di una dispersione nel molteplice. Nel riguardo, vi sarebbe molto da dire sui misfatti democratici dell’ “istruzione obbligatoria”: ma non è questo il luogo d’insistervi e, per non uscire dallo schema che ci siamo proposto, dobbiamo limitarci a segnalare di passata questa conseguenza speciale delle teorie “egualitarie” come uno di quegli elementi di disordine, che son divenuti troppo numerosi per poterli enumerare tutti senza omissioni.


Naturalmente, quando noi ci troviamo di fronte ad una idea, come quella dell’ “eguaglianza”, o del “progresso”, o di fronte ad altri “dogmi laici” che quasi tutti i nostri contemporanei hanno accettato ciecamente e la maggior parte dei quali han cominciato già a formularsi nettamente durante il XVIII secolo, non ci è possibile ammettere che tali idee siano nate spontaneamente. Si tratta, in fondo, di autentiche “suggestioni”, nel senso più stretto della parola, che peraltro poterono produrre un effetto solo in un ambiente già preparato a riceverle. Se dunque esse non hanno creato lo stato d’animo complessivo che caratterizza l’epoca moderna, hanno tuttavia contribuito ad alimentarlo e a svilupparlo fino ad un punto, che altrimenti non sarebbe stato di certo raggiunto. Se queste suggestioni venissero meno, la mentalità generale sarebbe assai vicina a cambiar d’orientamento: per questo esse vengono così accuratamente favorite da tutti coloro che hanno un qualche interesse a protrarre il disordine, se non pure ad aggravarlo – e tale è anche la ragione per cui in tempi, nei quali si pretende di tutto sottoporre alla discussione, queste suggestioni sono le sole cose che non si debbono mai discutere. Del resto è difficile determinare esattamente il grado di sincerità di coloro che si fanno i propagandisti di simili idee, e sapere in che misura certe persone finiscono con l’essere prese dalle loro stesse menzogne e col suggestionarsi all’atto di voler suggestionare gli altri. Spesso in una propaganda del genere gli ingenui sono anzi gli strumenti migliori, perché vi portano una convinzione che agli altri sarebbe alquanto difficile fingere, e che è facilmente contagiosa. Ma dietro a tutto questo, almeno inizialmente, occorre che vi sia stata un’azione assai più cosciente, una direzione che può venir soltanto da uomini sapienti perfettamente il fatto loro in ordine alle idee fatte circolare in tal guisa. Noi abbiamo parlato di “idee”, ma una tale parola qui calza assai poco, essendo evidente che nella fattispecie non si tratta per nulla di idee pure e nemmeno di alcunché che appartenga come che sia all’ordine intellettuale. Si tratta, se si vuole, di idee false, ma sarebbe ancor meglio chiamarle “pseudo-idee”, destinate soprattutto a provocare reazioni sentimentali, questo essendo il mezzo più efficace e più facile per agire sulle masse. Del resto, in questo ambito, le parole hanno una importanza maggiore dei concetti che esse dovrebbero esprimere e la gran parte degli “idoli” moderni non sono, invero, che parole, e noi ci troviamo dinanzi al curioso fenomeno noto sotto il nome di “verbalismo”: la sonorità delle parole basta a dare una illusione di pensiero. L’influenza che gli oratori demagogici esercitano sulle folle è, a tale riguardo, assai caratteristica e non occorre studiarla da presso per rendersi conto che si tratta di un procedimento di suggestione paragonabile in tutto e per tutto a quello degli ipnotizzatori.

Ma senza soffermarci ulteriormente su queste considerazioni, torniamo alle conseguenze della negazione di ogni vera gerarchia e notiamo che allo stato attuale delle cose non solo ogni uomo adempie alla sua funzione propria solo eccezionalmente e quasi accidentalmente, mentre è proprio l’opposto che in via normale dovrebbe essere l’eccezione; ma accade altresì che uno stesso individuo sia chiamato a esercitare successivamente funzioni affatto diverse, quasi come se le sue attitudini potessero venir cambiate a volontà. In un’epoca di “specializzazione” ad oltranza, ciò può sembrare paradossale, ma pure così è, specie nel mondo politico obbediente alle ideologie democratiche e liberali.

Se la competenza degli “specialisti” è spesso illusoria e in ogni caso ristretta ad un dominio limitatissimo, la fede in una tale competenza è tuttavia un fatto, per cui ci si può chiedere come è che questa fede non abbia più parte alcuna quando si tratta della carriera degli uomini politici, ove, in regime parlamentare, l’incompetenza più completa ben di rado ha costituito un ostacolo. Tuttavia, pensandoci sopra, ci si accorge facilmente che non v’è da stupirsi, che si tratta insomma di un risultato naturalissimo della concezione “democratica”, in virtù della quale il potere viene dal basso e poggia essenzialmente sulla maggioranza, cosa che ha per necessario corollario l’esclusione di ogni vera competenza, dato che la competenza è sempre una superiorità, anche se relativa, e può esser solo di pertinenza di una minoranza. Qui qualche spiegazione non sarà inutile per mettere in rilievo, da un lato, i sofismi nascondentisi dietro l’idea “democratica”, dall’altro, i legami che connettono tale idea con tutto l’insieme della mentalità moderna. Dato il punto di vista in cui ci poniamo, è quasi superfluo far rilevare che queste osservazioni saranno formulate fuor da ogni quistione di partito e da ogni disputa politica. Noi consideriamo queste cose in modo assolutamente disinteressato, come si farebbe per qualsiasi altro oggetto di studio, cercando solo di renderci conto il più chiaramente possibile di quel che vi è al fondo di tutto ciò; il che è del resto la condizione necessaria e sufficiente per dissipare tutte le illusioni che i moderni si sono fatte nel riguardo. Se, come è stato detto poco fa circa le idee un po’ diverse, si tratta proprio di “suggestione”, basterà accorgersene e comprendere come la suggestione agisca, per impedire senz’altro a quelle illusioni di svilupparsi e di attecchire. Contro cose del genere un esame un po’ approfondito e puramente “oggettivo” – come oggi si dice nel gergo speciale preso in prestito dai filosofi tedeschi – è assai più efficace che non tutte le dichiarazioni sentimentali e le polemiche partigiane, che non provano nulla e sono l’espressione di mere preferenze individuali.


L’argomento più decisivo contro la “democrazia” si riduce a due parole: il superiore non può promanare dall’inferiore, perché il più non può trarsi dal meno. Ciò è di un rigore matematico assoluto, contro cui non v’è cosa che possa. Importa notare che proprio lo stesso argomento, applicato ad un altro ordine, vale anche contro il “materialismo”: concordanza per nulla fortuita, giacché le due attitudini sono assai più connesse di quanto possa sembrare a prima vista. È fin troppo evidente che il popolo non può conferire un potere che esso non possiede. Il vero potere può solo venire dall’alto, ed è per questo, diciamolo di passata, che esso può divenire legittimo solo attraverso la sanzione di qualcosa di superiore all’ordine sociale, cioè di una autorità spirituale: altrimenti è solo una contraffazione di potere, uno stato di fatto ingiustificato perché mancante di un principio, e tale da dar luogo solo a disordine e confusione. Questo capovolgimento di ogni gerarchia comincia non appena il potere temporale vuole rendersi indipendente dall’autorità spirituale, e poi subordinarla a sé, pretendendo di asservirla a finalità materialisticamente politiche. Questa è la prima usurpazione che apre la via a tutte le altre, e si potrebbe mostrare ad esempio che la regalità francese, a partire dal XIV secolo, ha lavorato inconsciamente a preparare la Rivoluzione che poi doveva rovesciarla. È un punto che noi abbiamo sviluppato in un altro lavoro, per cui qui ci limitiamo a questo accenno sommario.

Definita come l’autogoverno del popolo, la “democrazia” è una vera impossibilità, qualcosa che non può nemmeno esistere come un fatto bruto, né nell’epoca nostra, né in un’altra qualsiasi. Non bisogna farsi giocare dalle parole: è contradditorio ammettere che stessi uomini possano essere ad un tempo governati e governanti perché, usando il linguaggio aristotelico, uno stesso essere non può essere in “atto” e in “potenza” simultaneamente e sotto lo stesso riguardo. La relazione suppone necessariamente la presenza di due termini: non possono esservi dei governati se non vi sono anche dei governanti, siano pur essi illegittimi e non aventi altro diritto al potere oltre quello che essi stessi si sono arrogato. Ma la grande abilità dei dirigenti democratici del mondo moderno sta nel far credere al popolo che esso si governi da sé. E il popolo si lascia persuadere volentieri, tanto più che così esso si sente adulato, mentre è incapace di riflettere quanto occorre per accorgersi di una simile impossibilità. Per creare questa illusione, si è inventato il “suffragio universale”: è l’opinione della maggioranza come presunto principio della legge. Ciò di cui non ci si accorge, è che l’opinione pubblica è qualcosa che si può facilissimamente dirigere e modificare. Per mezzo di adeguate suggestioni in essa si possono sempre provocare delle correnti nell’uno o nell’altro senso. Non ricordiamo più chi ha parlato di “fabbricare l’opinione”: espressione giustissima, benché bisogna dire, da un lato, che i dirigenti apparenti non sono sempre coloro che dispongono dei mezzi necessari per venire a tanto. Quest’ultima osservazione spiega anche perché l’incompetenza degli uomini politici più in vista sembra non aver avuto che un peso assai relativo nel periodo demo-liberale cui alludiamo e là dove concezioni del genere ancor oggi persistono. Ma poiché qui non ci siamo proposti di analizzare l’ingranaggio di ciò che si potrebbe chiamare la “macchina per governare”, ci limiteremo a segnalare che questa stessa incompetenza offre il vantaggio di alimentare la illusione in discorso: effettivamente solo in tali condizioni gli uomini politici in quistione possono sembrare l’emanazione della maggioranza, apparendo quasi come un’imagine di essa, giacché la maggioranza, quale si sia la materia su cui è chiamata a pronunciarsi, sarà sempre costituita dagli incompetenti, il cui numero è incomparabilmente più grande di quello degli uomini capaci di decidere con piena cognizione di causa.

Ciò permette senz’altro di dire che il principio, secondo cui la maggioranza dovrebbe dettar legge, è essenzialmente sbagliato. Anche se un tale principio, per la forza stessa delle cose, è solo teorico e non può corrispondere a nessuna realtà effettiva, resta tuttavia da spiegare come è che esso abbia potuto far presa sullo spirito moderno, resta da vedere quali sono le tendenze di quest’ultimo alle quali esso corrisponde, e che esso almeno in apparenza, soddisfa. L’errore più visibile è proprio quello or ora indicato: il parere della maggioranza non può essere che l’espressione dell’incompetenza, la quale poi risulta dalla mancanza d’intelletto o dall’ignoranza pura e semplice. Qui si potrebbero fare intervenire alcune osservazioni in fatto di “psicologia collettiva” ricordando soprattutto il fatto ben noto, che in una folla l’insieme delle reazioni mentali producentisi negli individui che ne fanno parte forma una risultante che non corrisponde nemmeno al livello medio, bensì a quello degli elementi più bassi. D’altra parte, vi sarebbe anche da rilevare che certi filosofi moderni hanno voluto trasportare nell’ordine intellettuale la teoria “democratica” che fa prevalere il parere della maggioranza, facendo di quel che essi chiamano il “consenso universale” un preteso “criterio di verità”. Anche supponendo che vi siano effettivamente cose su cui tutti gli uomini siano d’accordo, questo accordo, in sé stesso, non proverebbe proprio nulla. Inoltre anche se questa umanità esistesse – cosa dubbia già per il fatto che vi saranno sempre uomini che non hanno opinioni di sorta circa una data quistione e che tale quistione non se la son mai posta – sarebbe impossibile verificarla praticamente, per cui quel che si invoca in favore di una opinione come segno della sua verità si riduce ad esser soltanto l’assenso del maggior numero, riferentesi, per di più, ad un ambiente necessariamente limitato nello spazio e nel tempo. In questo dominio appare in modo ancor più chiaro che la teoria in quistione è priva di base, perché qui è più facile isolarla dall’influenza del sentimento, che invece ha quasi inevitabilmente una parte non appena si entri nel campo politico. Proprio questa influenza è uno dei principali ostacoli per la comprensione di certe cose, perfino in coloro la cui capacità intellettuale sarebbe già più che sufficiente per pervenire senza fatica a tale comprensione. Gli impulsi emotivi inibiscono la riflessione e una delle abilità più volgari della politica demagogica moderna è quella che consiste nel trar partito da tale incompatibilità.

Abel Grimmer, The Tower of Babel, 1595

Ma andiamo più in fondo alla quistione: che cosa è propriamente cotesta legge del maggior numero invocata dai governi moderni più o meno democratici come unica loro giustificazione? È semplicemente la legge della materia e della forza bruta, la legge stessa in virtù della quale una massa trasportata dal proprio peso schiaccia tutto quel che incontra sulla sua via. Proprio qui si ha il punto d’interferenza fra la concezione “democratica” e il “materialismo” e ciò che fa sì che quella concezione sia intimamente legata alla mentalità attuale. È il completo capovolgimento dell’ordine normale, giacché è la proclamazione della supremazia della molteplicità come tale, supremazia che effettivamente esiste soltanto nel mondo materiale [2]. Invece nel mondo spirituale, e ancor più semplicemente nell’ordine universale, l’unità sta al sommo della gerarchia, essendo il principio donde procede ogni molteplicità [3]; ma quando il principio viene negato o viene perduto di vista, non resta più che la molteplicità pura, identificantesi alla stessa materia.

D’altra parte, l’accenno ora fatto al peso è più di un semplice paragone, perché il peso, nel dominio delle forze fisiche nel senso più comune del termine, rappresenta effettivamente la tendenza discendente e comprensiva, che crea nell’essere una limitazione sempre più grande e che in pari tempo procede nella direzione della molteplicità, figurata qui da una densità sempre maggiore [4]; ed è questa tendenza che indica il senso secondo cui l’attività umana si è sviluppata a partir dall’epoca moderna. V’è inoltre da notare che la materia, per via del suo potere di divisione e in pari tempo di limitazione, è quel che la dottrina scolastica chiama “principio d’individuazione”, il che riallaccia le considerazioni ora esposte a quanto abbiamo detto precedentemente circa l’individualismo. Proprio la tendenza ora in quistione potrebbe dirsi la tendenza “individualizzante”, quella secondo cui si attua ciò che la tradizione giudeo-cristiana designa come la “caduta” degli esseri separatisi dall’unità originaria [5]. La molteplicità considerata fuor dal suo principio e come tale insuscettibile ad essere ricondotta all’unità, nell’ordine sociale è la collettività concepita come la mera somma aritmetica degli individui che la compongono, e che essa non è più connessa a nessun principio superiore agli individui. Da tale punto di vista la legge della collettività è proprio la legge del maggior numero su cui si basano le varietà dell’idea “democratica”.

Su ciò, bisogna fermarsi un istante per prevenire una possibile confusione. Parlando dell’individualismo moderno abbiamo considerato quasi esclusivamente le sue manifestazioni nell’ordine intellettuale. Si potrebbe credere che nell’ordine sociale il caso sia ben diverso. Se infatti si prendesse il termine “individualismo” nella sua accezione più ristretta si potrebbe esser tentati di contrapporre la collettività all’individuo e di pensare che fenomeni, come la parte sempre più invadente degli Stati collettivistici antiliberali e la complessità crescente delle relative istituzioni sociali centralizzate, siano il segno di una tendenza opposta all’individualismo. In realtà, non si tratta di nulla di simile: la collettività altro non è che la somma degli individui e come tale non è l’opposto di questi, come non lo è lo stesso Stato concepito alla moderna, cioè come una semplice espressione della massa, in cui non si riflette alcun principio superiore (caso-limite: lo Stato-massa autoritario del sovietismo materialista). Ora, proprio la negazione di ogni principio super-individuale costituisce l’individualismo quale noi lo abbiamo definito. Se dunque nel campo sociale si verificano dei conflitti fra varie tendenze derivanti tutte e in egual modo dallo spirito moderno, tali conflitti non sono tra l’individualismo e qualcosa d’altro, ma solo fra le varietà multiple o le multiple conseguenze cui lo stesso individualismo dà luogo; ed è facile rendersi conto che, finché mancherà ogni principio capace di unificare realmente dall’alto la molteplicità, tali conflitti saranno sempre più numerosi e più gravi nella nostra epoca che non in un qualsiasi tempo passato, giacché chi dice individualismo dice necessariamente divisione – e questa divisione, con lo stato di caos che essa ingenera, è la conseguenza fatale di ogni civiltà soltanto materiale, la radice della divisione e della molteplicità essendo propriamente la stessa materia.

Ciò detto, bisogna insistere ancora su di una conseguenza immediata dell’idea “democratica” in generale, e in particolare di quella “collettivista”: è la negazione dell’élite intesa nella sua sola accezione legittima. Non per nulla “democrazia” si oppone ad “aristocrazia”, questa seconda parola, almeno quando è intesa nel suo senso etimologico, designando precisamente il potere dell’élite. La quale, quasi per definizione, non può essere che una minoranza, e la sua potenza o, per dir meglio, la sua autorità, procedente dalla sua superiorità intellettuale, non può avere nulla in comune con la forza numerica su cui poggia la “democrazia”, il carattere essenziale della quale è di sacrificare la minoranza alla maggioranza epperò, come dicevamo poco fa, la qualità alla quantità e l’élite alla massa. La funzione dirigente di una vera élite e la sua stessa esistenza (poiché per essa esistere e avere una tale funzione fa tutt’uno), sono radicalmente incompatibili con la “democrazia”, che è intimamente connessa alla concezione “egualitaria”, cioè alla negazione di ogni gerarchia: al fondo dell’idea “democratica” sta la pretesa che un qualunque individuo equivalga all’altro per il fatto del loro essere uguali numericamente, benché non possono esserlo che numericamente. Una élite vera, l’abbiamo già detto, può essere soltanto intellettuale nel senso superrazionalistico da noi sempre dato a questo termine: per cui la “democrazia”, e con essa ogni individualismo liberale e ogni collettivismo, possono farsi largo solo là dove l’intellettualità pura non esiste più, come ne è appunto il caso del mondo moderno. Solo che l’eguaglianza essendo impossibile di fatto, e essendo praticamente impossibile sopprimere ogni differenza tra gli uomini, ad onta di ogni opera di livellamento si finisce, con un curioso illogismo, con l’inventare delle false élites, élites multiple, che pretendono sostituirsi alla sola élite reale. E queste false élites si basano sulla considerazione di superiorità varie, eminentemente relative e contingenti, e sempre d’ordine materiale. Ci si può accorgere facilmente di ciò notando come quasi dappertutto la distinzione sociale che oggi più conta è quella basantesi sulla fortuna, sui beni, cioè su di una superiorità affatto esteriore e d’ordine esclusivamente quantitativo; la sola, insomma, che sia conciliabile con la “democrazia” perché procedente dal suo stesso punto di vista. Vi è però da dire che anche coloro che attualmente si atteggiano ad avversari di un simile stato di cose, nella misura in cui non facciano intervenire alcun principio d’ordine superiore, restano incapaci di rimediare efficacemente ad un tale disordine, quand’anche non rischiano di aggravarlo nel portarsi ancor più oltre nello stesso senso.

Queste brevi riflessioni riteniamo che basteranno per caratterizzare quel che nel mondo sociale contemporaneo ha agito in modo più distruttivo e, in pari tempo, per mostrare che in questo campo, come in ogni altro, vi è un solo mezzo per uscire decisamente dal caos: restaurare l’intellettualità e ricostituire quindi una élite che, nell’accezione superpolitica e nettamente metafisica da noi data a tale termine, attualmente in Occidente deve considerarsi inesistente, non potendosi dare quel nome a degli elementi isolati e senza coesione, i quali possono soltanto rappresentare delle possibilità non ancora sviluppate. Infatti in tali elementi si possono in genere trovare solo tendenze o aspirazioni, che li portano indubbiamente a reagire contro lo spirito moderno, senza però che una corrispondente influenza abbia modo di esercitarsi in modo effettivo. Quel che loro manca è la vera conoscenza, sono i dati tradizionali, dati che non si improvvisano e ai quali, specie in circostanze così sfavorevoli sotto ogni riguardo, una intelligenza abbandonata a sé stessa può supplire solo assai imperfettamente e debolmente. Non esistono dunque che sforzi dispersi, spesso deviati causa la mancanza di princìpi e di orientamento dottrinale. Si potrebbe dire che il mondo moderno si difende per mezzo della sua stessa dispersione, a cui perfino i suoi avversari non sanno sottrarsi. E così andranno le cose finché costoro si terranno sul terreno “profano”, dove lo spirito moderno ha un vantaggio evidente, essendo il suo terreno proprio e esclusivo: d’altronde, se essi restano in questo campo, ciò non prova forse che un tale spirito, malgrado tutto, conserva su di essi un notevole potere? Per questo tante persone, benché animate di una buona volontà incontestabile, sono incapaci di comprendere che occorre necessariamente cominciare dai princìpi e si ostinano a dissipare le loro energie in questo o quel dominio relativo, sociale o simile, in cui in tali condizioni nulla di durevole e di reale può esser compiuto. La vera élite non dovrà invece intervenire direttamente in questi dominii, e nemmeno mescolarsi all’azione esterna. Essa dirigerà tutto per mezzo di una influenza impercettibile per l’uomo comune, tanto più profonda per quanto meno sarà visibile. Se si pensa al potere di quelle suggestioni, di cui parlavamo poco fa, le quali tuttavia non presuppongono nessuna vera intellettualità, si potrà anche sospettare ciò che, a maggior ragione, sarebbe il potere di una influenza come questa, esercitantesi in modo ancor più nascosto per via della sua stessa natura, e traente la sua origine dall’intellettualità pura: potere che, peraltro, invece di esser menomato dalla divisione inerente al molteplice e dalla debolezza insita in tutto quel che è menzogna o illusione, sarebbe invece intensificato dalla concentrazione nell’unità del principio e si identificherebbe alla forza stessa della verità.

René Guénon (1886 – 1951)

Note:

[1]  Qui si allude al primo dopoguerra 1918-1939. La frase che segue è di quelle che l’A. aveva creduto opportuno aggiungere alla prima edizione italiana del presente libro (La crisi del mondo moderno), uscita nel 1937. Ndt.

[2] Basta leggere S. Tomaso d’Aquino per vedere che numerus stat ex parte materiae.

[3] Dall’un ordine di realtà passando all’altro, l’analogia, qui, come in ogni caso consimile, si applica strettamente in senso inverso.

[4] Una tale tendenza è quella che la dottrina indù chiama tamas e che essa assimila all’ignoranza e all’oscurità. Si noterà che, secondo quanto dicevamo poco fa circa l’applicazione dell’analogia, la compressione o condensazione di cui si tratta è l’opposto della concentrazione considerata nell’ordine spirituale o intellettuale; per cui, benché ciò possa apparire singolare a tutta prima, essa in realtà corrisponde alla divisione e alla dispersione nel molteplice. Lo stesso si verifica per l’uniformità realizzata partendo dal basso, dal livello del più inferiore, che costituisce l’estremo opposto dell’unità superiore e principale.

[5] Per questo Dante pone la sede simbolica di Lucifero al centro della terra, cioè nel punto in cui convergono da ogni parte le forze del peso. Da questo punto di vista, esso è l’inverso del centro dell’attrazione spirituale o “celeste”, simbolizzato dal sole nella gran parte delle dottrine tradizionali.

2 commenti su “René Guénon: “Il caos sociale”

  1. Il pensiero di Guenon è semplicistico ed autoreferenziale, totalmente incapace di articolare un qualsiasi ragionamento non tautologico che possa sostenere le sue affermazioni apodittiche. A leggerlo si viene avviluppati in discorsi che sono un coacervo di contraddizioni come in una camicia di forza: si viene stretti dalla disperazione, la stessa disperazione che lo perseguitò fino alla fine della vita, nonostante abbia escogitato mille escamotage e indossato mille maschere per sfuggirvi, inutilmente morendo come pseudo sufi in un oscuro recesso del Cairo. Guenon avrebbe voluto vivere in una teocrazia, dove avrebbe trovato finalmente pane per i suoi denti, ovvero il dominio della legge metafisica realizzato e incarnato in una gerarchia tradizionale. Ovviamente lui sarebbe stato il sommo ierofante altrimenti l’avrebbero messo al rogo come Giovanna d’Arco. Adieu monsieur Guenon.

    1. Sure, let’s hope someone remembers you, like we remember the master. Decades afters his death, his works endure time, because he was right, that is the only truth you must understand, if you are afraid of truth, that’s basically your problem.

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