Il Pishtaco: le origini e l’attualità del “vampiro bianco” delle Ande

Dalla conquista spagnola del Perù a oggi la sinistra figura del Pishtaco infesta la psiche degli indios andini, al punto che gli etnografi che hanno studiato le leggende che lo riguardano le hanno collegate a una sorta di “trauma intergenerazionale” che da secoli si autoalimenterebbe terrorizzando ancora oggi i discendenti del popolo quetchua.

INTRODUZIONE

di Marco Maculotti

La figura del Pishtaco è indubbiamente una delle più sinistre e inquietanti del folklore andino. Spesso paragonato al vampiro dell’Europa orientale e continentale, talvolta al Wendigo del folklore amerindio subartico, il Pishtaco è una figura leggendaria (sebbene gli indigeni siano convinti ancora oggi della sua esistenza) che si caratterizza per le sue azioni estremamente macabre nei confronti delle vittime designate. Secondo il mito, di cui troviamo menzione nei secoli successivi alla conquista spagnola, questa misteriosa figura farebbe perdere l’orientamento agli indios che vagano da soli dopo il tramonto sugli altipiani della Cordigliera, per poi decapitarli ed estrarre dal loro corpo il grasso.

La “nascita” del Pishtaco viene fatta infatti risalire ai primi traumatizzanti contatti con i Conquistadores: il primo a menzionare la leggenda fu nel 1574 Cristobal de Molina, religioso e cronista spagnolo che accompagnò le truppe spagnole e visse fino alla sua morte tra i discendenti degli Inca. In uno dei suoi diari, Molina annotò che gli indios si rifiutavano di portare la legna da ardere agli spagnoli. Interrogati, essi gli riferirono che cinquant’anni prima, nel periodo decisivo della conquista, avevano assistito con orrore alle macabre pratiche di un gruppo di soldati spagnoli che, dopo aver massacrato i loro omologhi indigeni, avevano estratto dai loro cadaveri il grasso al fine di produrre pozioni da utilizzare per vari scopi: dal trattamento delle proprie ferite a quello delle proprie armature e pistole, per impedire a queste di arrugginire a causa dell’umidità della foresta pluviale. Gli indios iniziarono a pensare con orrore che gli spagnoli li avessero invasi proprio per ottenere il loro grasso, che avrebbe permesso loro di guarire da una certa malattia per la quale non vi sarebbe stato altro rimedio.

Erano soprattutto i preti a conoscere la tecnica di “estrazione” del grasso dai cadaveri e quindi a realizzare tali ungenti e pozioni: non sorprende allora che, per secoli, i nativi peruviani immaginarono il Pishtaco vestito con la tipica tunica nera da sacerdote cattolico. Prese piede pure un’altra leggenda ricorrente, secondo la quale i preti spagnoli fossero soliti utilizzare il grasso ottenuto dai cadaveri degli indios anche per oliare le campane delle chiese, in modo tale che il suono magicamente ottenuto da questa procedura avrebbe attirato sempre più fedeli alle messe cattoliche.

La leggenda del Pishtaco si è protratta per cinque secoli fino ai nostri giorni. Ancora oggi i discendenti del popolo quechua ritengono che questa inquietante figura sia in grado di disorientare le sue vittime con una polvere magica ricavata dalla macinazione di ossa umane e che le ipnotizzi con le sue dita simili a serpenti. Nell’articolo e nell’intervista che in questa sede abbiamo tradotto, entrambi originariamente pubblicati sul sito polacco Przekroj.pl, sono state indagate le credenze che gli indios peruviani hanno riferito al Pishtaco negli ultimi decenni.

di Tomasz Pindel

originariamente pubblicato su Przekroj.pl (2 parti)
traduzione di Marco Maculotti

Gli appassionati di letteratura sudamericana potrebbero aver già incontrato il pishtaco nel romanzo Morte nelle Ande di Mario Vargas Llosa. Il caporale Lituma viene trasferito in una comunità andina gestita dai terroristi del Sendero Luminoso, dove cerca di capire questo strano mondo e di risolvere il mistero di una serie di sparizioni di residenti locali. In Perù il romanzo ha ricevuto un’accoglienza ostile da parte di molti di coloro che si identificano come andini. Non c’è da sorprendersi. Lo scrittore ha espresso opinioni negative sulle culture indigene andine e sull’indigenismo — la tendenza che postula la supremazia dell’eredità nativa Inca sull’elemento spagnolo nel Paese — e quindi i lettori erano perfettamente giustificati a essere diffidenti. Alcuni esperti di cultura andina, tuttavia, hanno considerato il romanzo ben costruito e prezioso dal punto di vista etnografico. In ogni caso, i pishtacos compaiono più volte in Morte nelle Ande; attraverso la loro descrizione oggettiva, contribuiscono a creare l’immagine di un mondo andino estraneo sia all’eroe del romanzo sia al suo autore.

Sebbene i lettori possano imparare molto su queste creature, è più probabile che le considerino parte del pantheon mostruoso — una controparte locale di vampiri, fantasmi e simili. A meno che non abbiano seguito i resoconti dei media sul tragico destino di alcuni turisti nelle Ande o in Amazzonia, come la morte di due kayakisti polacchi sul fiume Ucayali nel 2011 o l’omicidio di un turista di Breslavia in Bolivia nel 2002. Queste tragedie hanno un intrigante tema comune: in entrambi i casi le vittime sono state scambiate per pishtacos.


Una creatura dal volto umano

Sembra un uomo bianco — o, in senso stretto, è un uomo bianco. Alto, spesso con la barba, a volte con capelli grigi evidenti. In epoca coloniale, spesso vestiva come un prete cattolico, e si vedeva anche in uniforme, poi in camice da medico; oggi, può sembrare un archeologo, un “cittadino” in giacca e cravatta, o un turista. Se osservato di giorno, si comporta come i bianchi. Non mastica coca, né beve pisco; mangia ciò che mangiano i forestieri e rifugge dai piatti locali. Viaggia spesso a cavallo, anche se oggi più spesso in auto. Possiede attrezzature e strumenti costosi e può essere visto leggere libri. Tendenzialmente non parla il quechua.

La sua natura minacciosa si manifesta dopo il tramonto. Il pishtaco aspetta le sue vittime in vicoli bui, su strade tranquille, vicino a rovine deserte o alle uscite delle miniere. Attacca i passanti incauti, a volte usando una speciale polvere magica fatta di ossa macinate. Li uccide sgozzandoli e decapitandoli, poi sposta i corpi in un nascondiglio, di solito in una grotta, dove scioglie il loro grasso. Il pishtaco non mangia il grasso, ma lo vende alle città e ai paesi stranieri [1]. Il pishtaco attacca solo gli uomini in questo modo. Alle donne riserva un trattamento diverso: le molesta sessualmente e talvolta le imprigiona.

Come affrontarlo? Il pishtaco, a differenza di altri mostri conosciuti, è relativamente facile da uccidere. Non servono magie, specialisti o procedure complicate: basta tagliargli la testa. È possibile proteggersi dagli effetti della sua polvere, ma soprattutto bisogna usare il buon senso e non camminare da soli nei vicoli bui di notte. In genere è meglio affrontare il pishtaco in gruppo, non da soli.


Trauma incarnato

Il problema è che il pishtaco, a differenza di altri mostri, esiste davvero. Beh, dal nostro punto di vista europeo, forse non definiremmo il pishtaco reale. Ma nelle Ande ci sono milioni di persone per le quali questa creatura è autentica, o almeno verosimile: alcuni ci credono senza alcun dubbio, altri ne sono meno sicuri ma prendono comunque sul serio la minaccia rappresentata dal mostro.

Gli etnografi che si sono occupati di pishtaco — come il pioniere Efraín Morote Best, che ha lavorato nella regione di Ayacucho negli anni ’40; l’americana Mary Weismantel, che ha esplorato le Ande negli anni ’80 e ’90; e i ricercatori e scalatori polacchi Elżbieta Jodłowska e Mirosław Mąka [2] — concordano sul fatto che le storie sui pishtacos sono molto comuni tra i popoli andini. In effetti, tutti i popoli della Cordigliera conoscono le usanze di questi mostri: per quanto possano affermare che si tratta di una superstizione, tutti conoscono bene di cosa si parla.

Anche una riflessione sommaria sul pishtaco rivela che la caratteristica principale di questa creatura è la sua estraneità: è un non-runa nel mondo runa (runa significa “umano” in quechua e implica un locale, un nativo). Le sue singole incarnazioni corrispondono alle “incarnazioni” dei bianchi che hanno invaso il mondo indigeno: la conquista è stata guidata da soldati e sacerdoti, a cui sono seguiti i rappresentanti delle autorità e degli affari, la polizia e gli imprenditori, i medici e gli scienziati, e infine i turisti. Di norma si trattava di uomini, statisticamente più alti degli indigeni, con peli sul viso (rari tra i locali), costumi e attrezzature straniere. E di solito volevano qualcosa.

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Nella tradizione andina e in altre tradizioni, il grasso è associato al potere di dare la vita. Dopotutto, chi è grasso ha abbastanza da mangiare, quindi è forte. Le vittime del pishtaco sono uomini in età riproduttiva, il che implica l’associazione del grasso con la potenza. Il grasso che viene portato via dalle Ande e utilizzato per scopi incomprensibili alla popolazione locale è una chiara metafora dello sfruttamento, dell’appropriazione delle risorse e della forza. Il pericolo non si presenta nelle vesti di un mostro demoniaco delle fiabe, ma con il volto di un barbuto colonizzatore spagnolo, un estraneo proveniente dalla costa, dalla città, un rappresentante del potere e della ricchezza, uno straniero, un gringo. La paura superstiziosa dello straniero può essere associata all’oscurantismo e all’arretratezza, ma nel contesto andino è assolutamente razionale.

La conquista spagnola delle Ande nel XVI secolo segnò una catastrofe con conseguenze di vasta portata per le popolazioni locali: non sono rilevanti solo gli eventi di 500 anni fa, ma il modo in cui l’arrivo dei bianchi cambiò la vita delle popolazioni indigene in modo permanente e in peggio. Malattie, sfollamenti, crudeltà, dipendenza feudale e la costrizione degli abitanti del luogo a svolgere lavori duri per una paga esigua non finirono insieme alle colonie, perché i nuovi Stati si preoccuparono poco dei loro cittadini “dalla pelle di rame”, molti dei quali non erano nemmeno in grado di comunicare in spagnolo con i funzionari governativi. Dopotutto, tutti avevano sempre parlato il quechua e altre lingue native. Il mostruoso pishtaco si rivela semplicemente la personificazione di un trauma che dura da secoli, una forma in cui possono essere racchiuse le paure reali.


Storia e presente

Il pishtaco (chiamato anche nakaq, kharisiri, lik’ichiri o semplicemente degollador, parola spagnola che significa “tagliagole”) non è un retaggio dell’epoca Inca; non se ne fa menzione in nessuna fonte precedente alla conquista. Tuttavia, alcune influenze delle credenze precolombiane possono essere accertate all’interno del concetto di pishtaco. In Amazzonia, ad esempio, esisteva una creatura mostruosa conosciuta dagli spagnoli come pela-cara, un nome che indica chiaramente il suo modo di uccidere le vittime scuoiandone il volto. Ci sono anche testimonianze di credenze indigene sui chupadores (“succhiatori”), creature vampiriche presenti sulla costa peruviana che si nutrono di sangue umano.

Vale la pena aggiungere che gli invasori spagnoli portarono con sé non solo il cristianesimo, ma anche tutta una serie di credenze popolari, tra cui il personaggio folkloristico iberico della minacciosa sacamantecas, una creatura che rapisce i bambini ed estrae il grasso dai loro corpi (la somiglianza con il pishtaco è davvero impressionante). Ci sono naturalmente molti altri esempi di mescolanza di credenze popolari nella regione andina — per esempio, la presenza della divinità della miniera, il muki, che forse deve alcune delle sue caratteristiche agli spiriti minerari europei come il polacco Skarbnik (“Tesoriere”). Tuttavia, il pishtaco si distingue dagli altri per il suo essere indubbiamente una creazione dell’epoca coloniale, un elemento del folklore andino nato dopo l’arrivo degli spagnoli come reazione alla loro comparsa.

Nei secoli successivi, la persecuzione della popolazione locale e i disordini che l’accompagnavano sono continuati, alimentando la credenza nel mostro. Questo vale anche per gli anni ’80 e ’90, quando il gruppo ribelle maoista Sendero Luminoso stava espandendo la sua influenza nel Perù rurale: le sue attività si concentravano sulle Ande e fecero precipitare il Perù in una sorta di guerra civile. I terroristi miravano a rimodellare l’ordine sociale: i loro nemici naturali erano lo Stato e le sue istituzioni, ma anche le popolazioni indigene delle Ande, che non volevano sottomettersi al nuovo ordine ed erano pronte a difendere il loro stile di vita tradizionale.

Nel frattempo, l’Esercito peruviano, inviato a combattere il Sendero Luminoso, accusò la popolazione locale di appoggiare i partigiani. Le comunità indigene furono attaccate da entrambe le parti e subirono i maggiori costi della guerra (il numero delle vittime del conflitto nel periodo 1980-2000 è stimato in circa 69.000, tre quarti delle quali erano di lingua quechua; i terroristi e i militari sono in eguale misura responsabili del massacro). Nel periodo del conflitto interno sono aumentate le segnalazioni di pishtacos. Ancora una volta, era in gioco lo stesso meccanismo: a una minaccia esterna veniva dato il volto di un mostro.

Il sanguinoso conflitto ebbe un altro effetto molto importante per il destino del pishtaco. Migliaia di abitanti andini fuggirono dalle pericolose montagne verso la costa e le grandi città; da un lato, persero parte della loro identità culturale, ma dall’altro portarono con sé alcuni dei suoi elementi nelle comunità metropolitane. Il pishtaco non solo “conquista” nuovi territori, ma si trasforma. È stato associato ad altre pratiche raccapriccianti, come il furto di organi per i trapianti, la cavatura degli occhi, l’aggressione ai bambini e varie altre attività criminali. Nel 2009, l’intero Perù è stato colpito dal caso della banda dei “Pishtacos”, i cui membri sono stati catturati dalla polizia per un presunto commercio di grasso umano, e nel 2016 a Huaycán le voci sul rapimento di bambini da parte dei pishtacos si sono trasformate in vere e proprie rivolte.


Il pishtaco vive ancora

Il mostro andino non è sfuggito alla sorte di altre creature simili: è diventato un elemento della cultura pop, un elemento ricorrente dei creepypasta dei nativi peruviani. Se si digita il suo nome su YouTube, ci si imbatte in video più o meno amatoriali che mostrano il pishtaco in vari scenari cruenti. Ma in realtà sono poche le opere cinematografiche e letterarie che hanno avuto come protagonista questo personaggio, forse proprio perché è tuttora reale per così tante persone.

Una volta ho chiesto allo scrittore regionalista peruviano Wilfredo Silva Mudarra, la cui opera comprende un volume di racconti basati sulle fiabe popolari intitolato Entre Brujas y Pishtacos [“Tra streghe e pishtacos”], la sua opinione sul mostro andino. Mi ha risposto:

Ho una mia versione. Negli anni ’60 ho viaggiato in canoa lungo l’Ucayali e ho incontrato un uomo appartenente a una delle tribù amazzoniche, che mi ha detto che la sua comunità mangiava ancora carne umana, perché le credenze locali la valorizzano per le proteine che contiene. Mi ha rivelato che le sue parti preferite sono le mani, perché sono deliziose e dolci, e il grasso. Penso che forse i pishtacos sono solo membri di questa tribù. Dopotutto, in Perù ci sono anche tribù primitive come i Jivaroan (Shuar), che rimpiccioliscono le teste dei loro nemici. Sospetto che molti si siano civilizzati, ma oserei dire che di tanto in tanto cedono alla tentazione e un uomo scompare e finisce sulla loro tavola.

L’aspetto interessante di questa affermazione non è solo il fatto che il pishtaco rimane autentico anche per le persone estranee al mondo andino, ma anche l’intrinseco rovesciamento della situazione: in questa versione, il mostro non è l’incarnazione della paura degli indigeni nei confronti dei bianchi, ma il contrario — la paura degli estranei nei confronti dei “selvaggi”. La figura del cannibale, immortale fin dai tempi della conquista, ritorna. Tuttavia, si tratta probabilmente di un’evocazione su misura, “razionalizzata”. I Pishtacos “vivono” ancora oggi soprattutto tra le popolazioni indigene delle Ande.

Il già citato ricercatore Mirosław Mąka ha giustificato la durata secolare delle credenze sul mostro come segue:

È un po’ come una persona che ha paura dei musulmani. Anche se questa persona ha un vicino musulmano simpatico, nel profondo è convinta che a un certo punto quel vicino possa rivelarsi pericoloso. È il caso delle paure degli indigeni andini nei confronti dei bianchi: possono conoscere i bianchi e avere buoni rapporti con loro, ma è meglio stare attenti, perché quei bianchi potrebbero essere a posto, ma d’altra parte sono bianchi, quindi chi lo sa?


NOTE:

[1] Tra le altre cose, il grasso veniva aggiunto al metallo con cui venivano fuse le campane delle chiese per migliorarne il suono. Oggi questa materia prima rifornisce l’industria farmacologica e cosmetica, ma può essere utilizzata anche per lubrificare le macchine.

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[2] Il loro libro Pishtaco. Fenomen symbolizacji traumy kulturowej w społecznościach andyjskich [“Pishtaco: Il fenomeno della simbolizzazione del trauma culturale nelle comunità andine”], pubblicato nel 2016, è forse la migliore opera su questo tema, non solo in polacco ma in generale.

«MEGLIO NON PARLARE DEL PISHTACO…»

Dal 2008, Elżbieta Jodłowska e Mirosław Mąka conducono ricerche etnografiche in Perù, oltre a esplorare il Paese e a praticare l’arrampicata sulle Ande peruviane settentrionali. Uno dei frutti di questa ricerca è il libro Pishtaco. Fenomen symbolizacji traumy kulturowej w społecznościach andyjskich [“Pishtaco: Il fenomeno della simbolizzazione del trauma culturale nelle comunità andine”] (2016).

TOMASZ PINDEL: Come è arrivato il pishtaco nella sua vita?

ELZBIETA JODLOWSKA:

In realtà è stata un’idea del mio relatore di tesi, il Prof. Andrzej Krzanowski dell’Università Jagellonica. È un archeologo molto apprezzato e conosciuto, che ha dato il via al filone di ricerca archeologica polacco-peruviano. Un giorno, in classe, mi suggerì: «Che ne dici di scrivere qualcosa sul pishtaco, se vai lì per fare ricerca?» e aggiunse che lui stesso era stato portato a mangiare un pishtaco in qualche occasione. Ha gettato un seme di curiosità in noi, così nei nostri successivi viaggi in Perù abbiamo iniziato a fare domande su questa figura.

Il che non deve essere stato necessariamente facile…

In realtà, non è stato così facile. A meno che non si intrecci l’argomento con altre questioni etnografiche — meno obbligate, meno fastidiose per gli interlocutori — non sempre si riesce a ottenere informazioni sul pishtaco. Poiché si tratta di un argomento delicato, non abbiamo fatto pressione sulle persone. Abbiamo notato che meno li pressavamo, più i nostri interlocutori erano disposti a parlare. Dovevamo trovare un momento in cui si divertissero e collocare la conversazione nel contesto delle storie incredibili raccontate davanti a un drink, mai seriamente: allora andava molto meglio.

Nel 2016 siamo entrati a far parte di una famiglia indigena, padrinos (“padrini”) e quindi abbiamo potuto iniziare a parlare anche con i giovani e i ragazzi delle scuole secondarie: i giovani erano desiderosi di parlare del pishtaco. Siamo riusciti a organizzare queste conversazioni anche attraverso la famiglia. Ad esempio, in un’occasione abbiamo incontrato una donna di un villaggio vicino. Eravamo stati annunciati ufficialmente e lei era stata avvertita che alcuni etnografi sarebbero venuti a chiedere informazioni su varie cose. Ci ha raccontato volentieri quello che sapeva su un pishtaco che si aggirava nelle vicinanze. Negli anni ’70 era apparso nel suo villaggio. Abbiamo parlato con lei attraverso i membri della nostra famiglia perché parlava solo quechua. Quando le abbiamo chiesto che aspetto avesse il pishtaco, ci ha indicato Mirosław: di pelle bianca, di solito con la barba; se ha i capelli grigi, ancora meglio, perché gli indigeni non diventano grigi, quindi i capelli grigi sono un segno evidente di estraneità. Quindi Mirosław si adattava perfettamente alla situazione.

Mentre conducevamo le interviste, abbiamo potuto scorgere il duplice pensiero degli abitanti delle Ande: da un lato, l’interlocutore sa perfettamente che siamo una famiglia, che siamo persone in carne e ossa, ma dall’altro, questo non gli impedisce di credere che qualcuno come noi possa partecipare a pratiche misteriose.

Posso immaginare che ci siano state almeno due difficoltà principali nel condurre queste conversazioni: si tratta di persone che potrebbero essere pishtacos e, inoltre, si chiedono argomenti delicati, forse persino imbarazzanti.

Parlare di questioni come il pishtaco è difficile per la gente delle Ande, non solo per il rapporto locale-straniero, ma anche perché aspirano davvero a una vita migliore. Questo fa parte di un passato doloroso che vogliono lasciarsi alle spalle. Preferirebbero non ricordare il pishtaco, anche se la credenza in esso è ancora molto viva.

I vostri interlocutori, anche se dicono di non credere al pishtaco, sono quasi sempre molto preparati sull’argomento.

Anche le persone istruite hanno presentato il tipico atteggiamento del «sappiamo che è una superstizione, che una cosa del genere non è necessariamente esistita — o se è esistita, è stato molto tempo fa — ma per sicurezza non camminiamo nella foresta dopo il tramonto». Ma non tutti sono così schivi. Uno dei nostri informatori, che lavorava come infermiere a Huaráz, una grande città, ci ha detto direttamente che è ovvio che i pishtacos esistono, solo che oggi hanno paura. La gente del posto è più istruita, non è intimidita, quindi può denunciare i pishtacos o riunirsi con i vicini e occuparsene personalmente. Ci ha indirizzato verso una specifica casa abbandonata nel quartiere di Olivos, sull’altra sponda del fiume, dove vivevano i pishtacos. Questo luogo è stato poi confermato da altre persone. Tra l’altro, i luoghi abitati dai pishtacos di solito non sono «dove viviamo noi», ma in un altro quartiere, dall’altra parte del fiume, da qualche parte più lontano. L’infermiera ci ha anche fornito alcuni dettagli: questa creatura può essere osservata più spesso all’alba, cavalcando da sola su un cavallo dal manto marrone-rossastro, da ovest a est.

Quando abbiamo cercato di verificare questa storia, abbiamo scoperto che c’era un elemento di verosimiglianza. Alla periferia est della città viveva un allevatore di cavalli che aveva dei pascoli sul lato ovest della città, quindi spesso guidava la sua mandria lungo le strade della periferia al mattino o alla sera e poi tornava da solo. Questo funzionava per la gente: andava a cavallo da solo, aveva la pelle bianca e nessuno sapeva perché facesse quello che faceva. Io e Mirosław eravamo persino d’accordo che un giorno saremmo andati in quella strada tra le cinque e le sei del mattino e avremmo aspettato di vedere se il pishtaco sarebbe apparso. Ma poi decidemmo di non farlo, perché se non fosse arrivato ci saremmo rimasti male, e se lo avessimo visto e fosse risultato essere l’allevatore, sarebbe stato ancora più triste.

Questo tipo di ricerca richiede molto tatto. Ha usato qualche approccio particolare?

Abbiamo sviluppato un metodo che si potrebbe definire a-scientifico. Abbiamo spiegato che stavamo scrivendo un articolo, che eravamo alpinisti — abbiamo cercato di usare concetti del loro mondo. Usare parole come “tradizione”, “patrimonio”, “eredità” o anche “usanze” con la gente del posto non ha alcun senso. Bisogna invece chiedere: “Cosa state facendo?”, avvicinandosi alla realtà degli interlocutori. Così abbiamo spiegato che stavamo scrivendo un articolo, ne abbiamo parlato anche come di una sorta di compito a casa, che era molto relazionabile per i nostri giovani intervistati. Abbiamo cercato di rendere chiaro ciò che intendevamo, senza deviare troppo bruscamente verso argomenti scomodi.

Uno dei nostri ottimi informatori è stato un uomo che ho conosciuto tramite Facebook e con cui ho fissato un appuntamento con largo anticipo. La conversazione è fluita molto bene perché ci eravamo già incontrati online, quindi non ero un’estranea. Sapeva che il mio lavoro era raccogliere informazioni. Per lui non ero un turista, un gringo. Mi ha parlato onestamente di ciò che ricordava degli anni ’70, prima che ci fosse una strada nel villaggio. Questo è un argomento molto importante, perché quando appare una strada, arriva anche la civiltà. A quel tempo, periodicamente accadevano cose brutte, c’era un panico collettivo e poi apparivano i pishtacos.

In seguito, la loro comparsa è stata associata a eventi politici, in primo luogo alle attività dei terroristi del Sendero Luminoso, anche se nella regione di Ancash, dove ci trovavamo, non erano così attivi come nel sud del Paese. Tuttavia, ci sono stati scontri armati e attacchi da parte dei banditi. È stato usato lo slogan “pishtaco” ed è nata una psicosi sociale. Le madri chiudevano i figli in casa per sicurezza e le porte venivano sprangate dopo il tramonto. Le persone si organizzarono in unità volontarie a livello di base e questo fu di grande aiuto. La situazione si calmò e dopo un po’ si scoprì che non c’era nessun pishtaco. Ma comunque — per loro — questo personaggio esiste. Il pishtaco appare quando accadono cose brutte.

Lei ha citato il Sendero Luminoso — dopotutto, quelli erano gli anni ’80 e ’90, una storia molto recente. Il pishtaco è nato in epoca coloniale, ma continua a tornare. È come una forma già pronta per incarnare le paure sociali delle popolazioni indigene delle Ande.

Il pishtaco si nasconde nell’ombra, in attesa di prendere vita. Un altro importante contesto contemporaneo per la comparsa del pishtaco è l’industria mineraria. Più miniere ci sono, più persone hanno bisogno di lavorare. Così ci sono lavoratori — di solito poveri — che arrivano da tutto il Perù, ma anche dall’Ecuador e dalla Bolivia. Si tratta di persone diverse: alcune hanno avuto un passato difficile, altre sono in fuga dal sistema giudiziario. La miniera accetta tutti perché il lavoro è duro e di solito mal pagato. La criminalità tende ad aumentare in questi luoghi. Aumentano i tassi di violenza, vandalismo, furti e sparizioni. Questo è il terreno perfetto per il pishtaco. In queste zone assume caratteristiche minerarie. Infatti, il pishtaco assomiglia molto spesso al muki, o spirito della miniera, che richiede sacrifici. Se le persone muoiono vicino alle miniere, un andino non si stupirebbe: tutti sanno che il muki richiede vittime.

I nostri informatori hanno presentato il seguente racconto: la gente muore dove si sviluppano le miniere, perché i pishtacos appaiono nelle vicinanze. Forse si riversano in questi luoghi da altre regioni dove non hanno molte possibilità di cacciare. Il fatto che spesso vengano uccise giovani donne — anche se tradizionalmente i pishtaco attaccano gli uomini — non inficia questa teoria: dopotutto, potrebbero cambiare le loro abitudini.

Oggi il pishtaco è in continua evoluzione e si stanno formando delle aggiunte alle credenze amazzoniche. Non è più l’immagine canonica, pura e coloniale di un mostro che succhia il grasso dalle persone per venderlo all’estero. Ora il pishtaco si diletta in altre attività macabre e si sovrappone alla figura del pela-cara (“scuoiatore di volti”), vampiro e demone. Tutto è collegato, amalgamato, e nascono nuove versioni di personaggi diabolici. In tempi più recenti, le popolazioni migrano e portano con sé alcuni elementi delle loro credenze, dando origine a nuove “varianti” del pishtaco.

Siete mai stati scambiati per dei pishtacos?

È successo una volta, e poteva essere pericoloso, ma anche noi avevamo fatto tutto nel modo sbagliato. Quando si fa una ricerca sul campo, bisogna dedicarle il giusto tempo, presentarsi alla comunità, andare dal capo villaggio e spiegare quello che si sta per fare nel modo più semplice possibile. In quella occasione non abbiamo fatto tutti i passi necessari, abbiamo pensato che fossero una perdita di tempo e che forse non sarebbero stati necessari.

Ci siamo recati in un villaggio remoto della cordigliera di Raura, nelle vicinanze di Churín — un luogo ricco di sorgenti termali che venivano utilizzate ancora dagli Inca. Il Prof. Krzanowski aveva lavorato lì ma se n’era andato insoddisfatto perché non aveva esplorato un luogo, una montagna considerata apu (“sacra”), dove il suo fiuto da archeologo gli aveva detto che potevano esserci delle tombe inca. Decidemmo che esplorare quel luogo sarebbe stata una grande avventura. Saremmo andati verso l’ignoto, come Indiana Jones, e se non avessimo trovato nulla, sarebbe stata comunque una scalata interessante su una montagna remota di 5000 metri. Abbiamo portato con noi tre guide e un portatore: non gente del posto, ma persone del nostro simpatico villaggio nella regione di Ancash. In altre parole, stranieri.

In quella zona c’è una grande miniera che blocca il segnale GPS, quindi non siamo riusciti a localizzare con precisione il luogo di cui ci aveva parlato il professore. Non eravamo sicuri di quello che stavamo facendo. Quando abbiamo noleggiato il minibus, un uomo si è attaccato a noi sostenendo di essere il copilota. In realtà, probabilmente era una spia inviata dalla direzione della miniera. Abbiamo raggiunto quella che ci sembrava la fine del mondo. Ci accordammo perché l’autista tornasse tre giorni dopo e partimmo con i nostri pesanti bagagli attraverso la puna. Ci accampammo ai piedi della montagna.

A un certo punto i nostri uomini ci hanno avvisato dicendo che dovevamo fare immediatamente i bagagli e scappare. Non sapevamo cosa stesse succedendo, ma avevano visto un gruppo di uomini armati di bastoni e forconi dirigersi verso di noi. Abbiamo messo le nostre cose nelle tende, le abbiamo impacchettate e siamo fuggiti su per la montagna. Un paio d’ore di camminata faticosa a oltre 4000 metri di altitudine sono state piuttosto dure, ma alla fine ci siamo nascosti dietro una barriera di roccia e i nostri uomini hanno fatto una ricognizione. Quando gli abitanti del luogo non ci hanno trovato dove si aspettavano, si sono dispersi e sono tornati alle loro case. Ci siamo resi conto di quanto siamo stati imprudenti. Molto probabilmente sarebbe finita solo con una rapina, ma avremmo anche potuto perdere la vita.

Leggendo il suo libro, apprendiamo che quella che prometteva di essere una storia incredibile di una creatura fantastica ed esotica si è rivelata una storia terribilmente triste del trauma e della sofferenza di molte generazioni di indigeni delle Ande.

La continua presenza del pishtaco conferma che questo popolo vive con un costante senso di pericolo. Nonostante il passare del tempo e le conquiste della civiltà e dell’istruzione, sono mentalmente bloccati tra due mondi. Da un lato, sono ben consapevoli di ciò che i bianchi fanno sul loro territorio — i turisti di tutto il mondo vengono a visitare le città andine. Ma dall’altro lato, vivono in un loro mondo mitico dove spesso prevalgono le credenze del folklore.

Recentemente, a Huaráz, ho parlato con Doris Walter, un’antropologa ed etnografa che studia la situazione dei bianchi e dei locali che entrano in contatto in un rapporto apparentemente chiaro: il turista usufruisce di un servizio turistico. Si scopre che gli stessi indigeni che lavorano con i bianchi, trasportando i loro bagagli o facendo da guide — in altre parole, vedendo tutto con i loro occhi — credono anche che questi stessi bianchi stiano salendo sulla montagna in cerca di oro. Dopotutto, uno sforzo così grande e il fatto che i turisti lo paghino devono avere un senso logico.

Walter ha presentato anche un’altra interessante interpretazione del comportamento dei bianchi: se non stanno cercando l’oro, allora stanno scalando le alte vette, come il Huascarán, per estrarre la radice della montagna e piantarla nel loro mondo, in modo da poter far crescere la stessa bella montagna. Il prof. Krzanowski ha fatto osservazioni simili: anche se gli indigeni che lavoravano agli scavi vedevano che gli archeologi impacchettavano le loro casse con le conchiglie, ciò non impediva loro di credere che, una volta disimballate nel mondo dei bianchi, sarebbero diventate oro.

Quindi sembra che se un bianco viene sulle Ande, è essenzialmente per togliere qualcosa ai locali…

Sì, si tratta sempre di sfruttamento. Ho chiesto a Doris Walter perché anche i membri della nostra famiglia indigena fossero riluttanti a condividere le loro conoscenze, nonostante fossero così premurosi e gentili con noi, e lei mi ha risposto che probabilmente avevano la convinzione interiore che queste conoscenze avrebbero arricchito noi nel nostro mondo bianco, e impoverito loro. Se una donna indigena boliviana si copre il volto quando le viene scattata una foto, non è necessariamente perché teme che le venga rubata l’anima, ma perché ritiene che questo la impoverisca e che il turista ci guadagni a sue spese — il che, in ogni caso, è un’osservazione corretta.


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