Bestiario dannunziano: il ragno e la «capra dimònia»

Le Faville del maglio sono brevi e preziose prose di carattere introspettivo che Gabriele d’Annunzio comincia a stendere nel 1911. La seconda raccolta di “faville”, Il secondo amante di Lucrezia Buti, è composta dal poeta sul limitare della vecchiaia, nel 1924. Qui troviamo un’affascinante ed enigmatica favilla intitolata Il primo segno dell’alta sorte. Vi si narra un bislacco episodio che sarebbe stato all’origine di una cicatrice sul pollice sinistro del poeta, cicatrice cui lui assegnava un preciso significato:

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È molto probabile che questo supposto episodio autobiografico, ammesso che sia realmente avvenuto, abbia subito una pesante rielaborazione volta a fargli sorreggere il prezioso contenuto che il sessantunenne scrittore ha inteso apporvi. Possiamo ravvisare un importante indizio rivelatore della natura di questo contenuto fin nel titolo della favilla, Il primo segno dell’alta sorte: un primo segno, un’impronta iniziatica.

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La pulviscolare atmosfera di surreale enigmaticità in cui è immerso l’episodio del “nicchio nericcio” sembra emanata proprio dal connotato rituale che lo scrittore ha voluto imprimervi. Molti elementi della favilla infatti possono essere letti come tessere componenti un quadro evocativo d’un rituale iniziatico. Se la cicatrice sul dosso del pollice sinistro è il “contrassegno” di un’alterità ontologica, è molto simile alla scarificazione rituale cui in molte culture tradizionali vengono sottoposti gli iniziandi come segno visibile del loro passaggio da uno stato all’altro dell’essere.

Il poeta sostiene di aver avuto nove anni quando visse l’esperienza del “nicchio nericcio”, l’età di Dante all’inizio della Vita Nova. Il nove nel patrimonio della ritualità iniziatica simboleggia l’eternità come perpetuo rinnovamento: nel ciclo dei mondi, nei “secoli dei secoli”, dopo l’ottavo un nono mondo viene creato che è nuovo perché con esso un altro ciclo ha origine. Questa simbologia del nove scandisce la Vita Nova, che è nuova appunto perché dà origine a un nuovo ciclo. La “lotta” che viene sostenuta dal futuro poeta per aprire il “nicchio avverso” con la sanguinante ferita che ne consegue ed il coraggio “eroico” dimostrato dal bambino che alla vista del proprio sangue non s’arrende, non si  sgomenta e non chiama nessuno in soccorso ma è determinato a cavarsela da solo, è esattamente una di quelle prove di coraggio, di abilità e di maturità che sono passaggi obbligati dei rituali iniziatici. Nucleo di tali riti è la morte rituale dell’iniziando, la sua discesa agli Inferi. Ed è quello a cui va incontro il piccolo Gabriele quando, al calare della notte, si dirige verso «un luogo basso della vecchia fortezza», un vero e proprio inferno dalla cui prospettiva le stelle assumono lo spaventoso aspetto «dell’occhio fosforescente della capra dimonia».

Il bambino nell’antica santabarbara raccoglie le tele di ragno per medicare con quelle la ferita, secondo una credenza popolare, e «il ribrezzo dei ràgnoli era fatto più grave dall’abbuiarsi». Ora, il ragno è

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L’inferno racchiuso nell’antica santabarbara è una buia bolgia inselvatichita «dove pur sempre la capra d’Inferno» guatava il futuro poeta «nera col suo occhio di stella»; l’intrepido iniziando riesce a fuggire da quell’orrore e a risalire verso la vita. La soglia di casa è come una tomba («un silenzio di tomba alla mia soglia»), il piccolo la oltrepassa, sale la scala che è come «una cateratta di mulino rimbombante», che è come un percorso nel liquido amniotico che lo conduce verso la rinascita; l’urlo e il pallore della madre accompagnano un nuovo parto che rimette al mondo un Gabriele nuovo, marchiato e trasformato dalla prima impronta segreta della sua predestinazione.

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Nella favilla successiva, Sum id quod sum, lo scrittore parla in questi termini dell’episodio del “nicchio nericcio”:

Ero un fanciullo impetuoso. E mi fu concesso di comprendere in quella sera, per una specie di comandamento muto a cenni, come io non fossi nato se non per servire la mia vita profonda e la mia verità incomunicabile. Mi fu concesso di comprendere in confuso come io fossi destinato a un conflitto perpetuo fra la interpretazione comune dei miei atti e la mia intima potenza di trasfigurazione e di sublimazione. E oggi, nel rimemorare, penso che già da allora io fanciullo mi sapessi inoppugnabilmente unico interprete della mia coscienza umana governata pertanto da regole sovrumane. Già da allora mi appariva un baglior sanguigno della mia fede oggi certa della rispondenza, necessaria e fertile senza misura e senza pausa, tra il mio servaggio bestiale e la libertà del mio genio.

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«Un comandamento muto a cenni»: le direttive per l’espletamento del rituale iniziatico che dona al futuro poeta la consapevolezza e la comprensione di aspetti fondamentali della propria personalità. Le fasi e gli elementi dell’episodio del “nicchio nericcio”, o, per meglio dire, le fasi e gli elementi del rito iniziatico sono interpretabili come una         «successione di simboli» il cui significato è un’asse portante della vita e dell’arte del futuro poeta: la sua «concordanza attuosa con la natura e con la stirpe».

Non v’è forse nella mia puerizia un simbolo più potente, anzi una successione di simboli, da quel primo sprazzo fulgido di sangue a quella scipitaggine molliccia, da quel coltello nettato nel suolo a quella credulità nel rimedio rustico, da quella sosta quasi magica nella santabarbara a quell’astro acceso nell’occhio demonìaco della capra, una successione di simboli significanti la mia concordanza attuosa con la natura e con la stirpe.

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Fin da subito il bambino capisce che quell’episodio significa altro:

E quando ella [la madre di Gabriele] seppe la storietta del coltello a scrocco, quando per un séguito singolarissimo di casi la mia disavventura del bastione fu scoperta, alla sua sollecitudine nell’appurare il fatto consumato, nell’esaminare ogni particolarità, nel cernere il vero dal falso, io rispondevo: «Ma era un’altra cosa». E non di mentire arrossivo sì bene di non mentire. 

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Poche pagine più avanti, la favilla Il grappolo del pudore ci offre l’opportunità di penetrare ancora più addentro il viluppo di significati racchiusi nell’episodio del “nicchio nericcio”. Vi si narra un’adolescenziale esperienza erotica del poeta che sarebbe avvenuta durante le vacanze estive del 1878 o del 1880 nel podere paterno di Villa del Fuoco, a Lanciano. L’intraprendente Gabriele sorprende una graziosa pastorella nella vigna e con modi da precoce seduttore riesce a vincerne le resistenze:

Mi studiavo invano di sorprenderla, ché era molto guardinga e mi sapeva manesco, e le piacevo. Ma, verso la fine di settembre, a vespro, avendola spiata e seguitata cauto, la colsi nella vigna deserta. Ella m’adocchiò di lontano. E, sgomenta, perché io non la riconoscessi, colse un grappolo d’uva nera e se lo schiacciò contro il viso, se ne impiastricciò tutta la faccia da gota a gota da mento a fronte, si fece una maschera insana, una maschera di piccola baccante; e rimase a tremare sotto i pampani, contro la vite carica, simile a un’altra canna della vite, che fosse sostenuta e non sostenesse. M’avvicinai anch’io tremando, forse con gli occhi del supplice e forse con la bocca del fauno; e la chiamai per nome con una voce che la turbò a dentro, perché mi parve che sotto la maschera di mosto impallidisse e quasi tramortisse.

Allora le presi le mani di pigiatrice, che stillavano e appiccicavano, imbrattate di bucce e di fiòcini. E le parlai d’amore, e la pregai d’amore; e le cercai la bocca nella vendemmia intempestiva, cercai il succo d’uva di là da’ suoi denti di lupatta, quasi avviluppando il mio desiderio con l’ombra del vespro supplicato e stimolato. Ella repugnava tremava balbettava, afflitta dalla sua stessa maschera nericcia, da quel dolciore acquoso che le colava pel mento giù nel seno, dalle pellicole dei chicchi e dai racimoli del graspo ne’ capelli e negli orecchi e ne’ pendenti. Mi si ruppe alla presa come la canna della vite; si lasciò cadere a terra, s’accosciò, singhiozzò, scoppiò in lagrime. E la faccia dell’orgia fu il viso dell’afflizione; e lo sgomento d’amore si torse come il ceppo della vite, pianse come la vite tagliata, parve accecarsi come la cieca radice sotterra. E il mosto si mescolò col pianto, e colarono insieme il pianto e il mosto!

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La vicenda, in sé, potrebbe sembrare banale ma quel che importa è il valore simbolico che il poeta le attribuisce, il suo essere un’altra cosa:

Io credo che per me anche in quel punto fosse un’altra cosa, come quando volli forzare quell’altra conchiglia.

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Quell’altra conchiglia è ovviamente il “nicchio nericcio” de Il primo segno dell’alta sorte. Quindi viene instaurato un parallelismo tra la conchiglia – sesso della pastorella e la conchiglia – e il “nicchio nericcio” (tra l’altro, la ragazza impiastricciandosi il volto di mosto diviene “nericcia” proprio come il nicchio!). Quindi se l’apertura, il “forzamento” del nicchio nericcio è il nucleo del rituale iniziatico descritto ne Il primo segno dell’alta sorte e se a questo nicchio può essere attribuito il valore simbolico di vagina, possiamo concludere che nucleo del rituale iniziatico è un atto dalla marcata connotazione sessuale, una vera e propria rappresentazione simbolica del coito. Che la “prima impronta segreta” della predestinazione artistica di d’Annunzio venga impressa nel corso di un atto rituale che mima simbolicamente l’atto sessuale non può certo destare meraviglia tanto è lampante la centralità del sesso nella sua arte, sesso che lo scriba del Notturno definirà «il più attivo levame lirico» [8].

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Quindi sia l’episodio del “forzamento” della pastorella descritto ne Il grappolo del pudore sia l’episodio del “forzamento” del nicchio nericcio narrato ne Il primo segno dell’alta sorte possono essere intesi come iniziazioni al sesso, ad un sesso che oltre a ciò che appare è anche un’altra cosa: materia di sublimazione artistica, alimento dell’arte.

Unica testimone oculare dello svolgimento del rituale iniziatico de Il primo segno dell’alta sorte è una “capra dimònia”, una “capra d’inferno” che segue attentamente il piccolo Gabriele «col suo occhio di stella». Anche questo è un elemento che rientra perfettamente nell’ambito dei rituali iniziatici:

Sulle sponde settentrionali ed orientali del Mediterraneo, gli Antichi fecero della capra uno degli emblemi dell’Iniziazione, perché, dicevano i vecchi naturalisti, la potenza della vista della capra aumentava da sola, man mano che si innalzava nell’aria delle cime. In ugual modo, il misto diventa più penetrante man mano che raggiunge e supera i gradi dei misteri.  

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La capra, presso gli Antichi, simboleggiava anche la lubricità femminile:

in tutto il mondo antico la capra ha personificato, nel suo aspetto negativo e come il capro, il suo maschio, il simbolo della lubricità, e particolarmente della lubricità femminile nel senso più odioso e ripugnante. Una statuetta greco–cipriota rappresenta un donna che tiene sotto il suo braccio sinistro una capra e, nella sua mano destra, tre melograne. Altre opere d’arte antica ce la mostrano in scene della più odiosa bestialità. Del resto, gli autori di quel tempo ci informano sufficientemente su queste turpitudini, che si collocano tra quelle follie di cui Tertulliano diceva: «Non sono dei peccati, ma delle mostruosità».

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Quindi la capra è la testimone ideale di un rituale iniziatico di carattere sessuale. Come se non bastasse la capra de Il primo segno dell’alta sorte è una “capra dimònia”, una “capra d’inferno” ed il connotato satanico non fa che rafforzarne il carattere di simbolo della lussuria:

La capra è entrata nel simbolismo satanico come immagine del demone dell’impurità, che essa impersonificava molto prima della nostra era, a causa dei crimini di bestialità ai quali la si faceva partecipare, e che le prescrizioni mosaiche punivano con la morte presso gli Ebrei. […] la Capra fu, nella speciale emblematica di una volta, il simbolo del succube o demonio femmina incarnato sulla terra.

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Il piccolo Gabriele scambia “la prima stella” per “l’occhio fosforescente della capra dimònia” e nell’antica santabarbara sente fisso su di sé lo sguardo dell’“occhio di stella” della “capra d’inferno”. La stella a cinque punte con la quinta punta rivolta verso il basso è presso varie correnti esoteriche l’emblema dell’Animalità e in quanto tale spesso associata ad una figura caprina talvolta interpretabile anche come emblema di Satana:

Nei gruppi ermetici del Medioevo […] il capro fu anche emblema di Satana, come allo stesso tempo lo fu dell’Animalità. È a questo titolo che la sua testa ornava la stella a cinque punte, la cui punta centrale si abbassa verso la terra, la «Stella nera decaduta», che è l’antitesi della stella pentagrammatica della Spiritualità, la cui punta guarda il cielo.

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Più alcun dubbio è possibile a questo punto circa la pregnanza di valori simbolici della capra de Il primo segno dell’alta sorte. La “capra d’inferno” testimone del rituale iniziatico simboleggia al contempo l’Iniziazione, la Lussuria e l’Animalità; o, più precisamente, l’iniziazione alla Lussuria e all’Animalità, vere e proprie vie maestre che condurranno Gabriele verso la propria arte.


[1] Gabriele d’Annunzio, Il primo segno dell’alta sorte in Il secondo amante di Lucrezia ButiProse di ricerca, I, Milano, Mondadori, 2005, pp. 1234 – 1238

[2] Massimo Centini, Le bestie del diavolo. Gli animali e la stregoneria tra fonti storiche e folklore, Milano, Rusconi, 1998, p. 90

[3] Gabriele d’Annunzio, Prose di ricerca, I, cit., pp. 1238 – 1239

[4] Ivi, p. 1239

[5] Ivi, p. 1240

[6] Ivi, pp. 1243 – 1244

[7] Ivi, p. 1244

[8] Ivi, p. 368

[9] Louis Charbonneau – Lassay, Il bestiario del Cristo: la misteriosa emblematica di Gesù Cristo, Roma, Arkeios, 1994 pp. 289 – 290

[10] Ivi, p. 290

[11] Ivi, pp. 296 – 297

[12] Ivi, pp. 281 – 282

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