Rito, ritmo e controritmo: il caso di due Carnevali alpini

La terra danza la danza di Macabré, mi sembra a tratti che il Danubio sia percorso da battelli carichi di folli che vanno verso un luogo oscuro.

Umberto Eco, Il Nome della Rosa

Per studiare un singolo fatto antropologico, poniamo una festa carnevalesca, esistono come noto molti approcci possibili, che differiscono a seconda della particolare specializzazione dell’osservatore: lo storico tenderà a basare la propria ricerca sulla possibilità di recuperare documenti d’archivio, l’etnologo propenderà alla comparazione con tradizioni simili appartenenti ad altre culture, il linguista si concentrerà sull’uso del dialetto, del vernacolo o di particolari codici comunicativi nel contesto dell’evento stesso e così via. Si tratta, beninteso, di approcci assolutamente legittimi che, integrandosi l’uno con l’altro, possono contribuire in modo sostanziale ad accrescere la nostra conoscenza.

Tuttavia la nostra impressione è che sia a livello accademico, sia nelle indagini effettuate da quella categoria ampia e difficilmente definibile che indichiamo col termine “studiosi locali”, si tendano a privilegiare alcuni percorsi conoscitivi rispetto ad altri. Fra le prospettive più trascurate, parlando di manifestazioni di carattere rituale, c’è quella che mette in primo piano il vissuto del singolo partecipante, la descrizione diretta dell’esperienza a livello sia psicologico che fisico; complice sicuramente l’oggettiva difficoltà di condurre una ricerca in questo senso, ma anche forse una certa influenza che il mondo accademico di marca anglosassone, notoriamente propenso a dare la priorità ai dati oggettivi e quantificabili delle scienze cosiddette “dure”, esercita anche nel campo degli studi umanistici. Il che, purtroppo, rischia di precluderci dei panorami di grande interesse, in grado di fare più luce su riti, usanze, comportamenti e apparati formulaici della nostra tradizione culturale.

Già Piercarlo Grimaldi, seguendo la lezione del Leroi-Gourhan, aveva sottolineato come la struttura stessa del rito carnevalesco ponga in essere una serie di comportamenti che, invertendo i ritmi usuali della quotidianità ed agendo a livello percettivo, psico-fisiologico e neurologico, possono indurre uno stato di alterazione della coscienza del partecipante; ed è proprio attraverso questo tipo di compartecipazione esperienziale che le feste, aventi la funzione di scandire il ritmico scorrere del tempo, si situano in sé stesse al di fuori del tempo su un piano che viene percepito e vissuto, prima ancora che inteso intellettualmente, come sovra-temporale. Per chiarire meglio cosa intendiamo prenderemo come esempio pratico due carnevali piemontesi tra i più sentiti dell’arco alpino, la Bahiò di Sampeyre (CN) e il Carlavèe di Varallo Sesia (VC), concentrandoci in particolare sulla giornata della Veggia Pasquetta che ne costituisce il momento di apertura. 


La Bahiò (badia, milizia, associazione virile) di Sampeyre, in Val Varaita, è una tradizione messa in atto a cadenza quinquennale che prenderebbe le mosse da un fatto storicamente accaduto attorno all’anno mille: la cacciata da parte delle milizie locali dei pirati saraceni che dalla Liguria e dalla Costa Azzurra salivano a saccheggiare le alte vallate piemontesi. In realtà l’evento presenta ben pochi caratteri che richiamino ad una vera e propria rievocazione storica: i costumi indossati dagli oltre trecento personaggi non hanno nulla di medioevale, e vanno dalle culottes a ginocchiera e dalle feluche del ‘700 alle giacche a coda di rondine e ai cilindri più tipici del diciannovesimo secolo, in quell’atmosfera di anacronismo (ma sarebbe forse più corretto parlare di a-cronismo, o di un “tempo fuori dal tempo”) che è uno degli aspetti più incisivi del carnevale.

Caratteristica rimarchevole dei costumi sono le decorazioni floreali realizzate con preziosi nastri di seta detti bindel, che ogni famiglia un tempo custodiva nelle proprie cassapanche, distesi per evitare che si spezzassero, e le donne intrecciavano secondo codici precisi in occasione di eventi particolari quali matrimoni o battesimi. L’uso di questo tipo di decorazioni mette in luce come l’evento si innesti, col pretesto di ricordare un episodio bellico, su una tradizione con ogni probabilità molto più antica legata ai riti primaverili della fertilità. 

I personaggi della Bahiò

Al rito partecipano, ciascuno con la propria milizia carnevalesca, gli abitanti del concentrico di Sampeyre e delle frazioni di Calchesio, Rore e Villar; la frazione Sant’Anna sfila con il gruppo di Calchesio, mentre gli abitanti di Becetto (la cui milizia sarebbe stata soppressa a causa di gravi problemi di ordine pubblico) si uniscono al gruppo del concentrico. Il complesso rituale si apre ufficialmente il 6 gennaio quando i giovani, all’uscita della messa solenne dell’Epifania, entrano in piazza e gridando a gran voce ed accompagnandosi con tamburi, fisarmoniche, campanacci e strumenti musicali improvvisati chiedono la costituzione della Bahiò. In mezzo a questo “frastuono rituale” il gruppo si porta sotto le case degli Abà ovvero i capi della milizia, a cui spetta l’onere, anche economico, di organizzare le sfilate (in realtà oggi sono le banche, le casse di risparmio e gli enti locali a fornire il denaro per questa manifestazione, che ha importanti ricadute sull’economia turistica della zona). All’esposizione dei gonfaloni della milizia fuori dalle finestre degli Abà fa seguito una serie di incontri formali tra i gerarchi, che assegnano i ruoli e si accertano della effettiva disponibilità di risorse materiali e umane per mettere in piedi i cortei, mentre alle donne spetta il compito di preparare i costumi. Questo è, facciamo notare, uno dei rarissimi momenti di partecipazione da parte del genere femminile: praticamente tutti i ruoli all’interno della Bahiò, compresi quelli femminili, sono infatti interpretati da attori maschi.

Nelle due domeniche che precedono la settimana del carnevale hanno inizio le sfilate vere e proprie, con gli attori delle varie milizie che marciano al rullo dei tamburi e si incontrano sui confini delle rispettive zone di residenza, scambiandosi il saluto militare incrociando le spade. I partecipanti alla sfilata incedono con ordine e a rigido passo militare, con l’eccezione dell’Arlecchino: è questo un personaggio che può rompere il corteo e interagire con gli spettatori agitando un bastone a cui è appeso un topo od uno scoiattolo imbalsamato, formalmente per evitare che intralcino gli attori ma in realtà per dare vita a piccole scenette comiche con la partecipazione degli astanti, un po’ come fanno gli Issohadores durante il carnevale di Mamoiada (NU), in Sardegna. Questo Arlecchino, in ogni caso, di pellicce d’animale e il cappello da cui pendono gusci di chiocciole richiama di più la figura dell’Uomo Selvatico di tante tradizioni e leggende di montagna.

Un Arlecchino

Le sfilate delle milizie fanno sosta per decine di volte nel corso della giornata presso punti di ristoro allestiti dalle osterie o dai proprietari delle case private che danno sulla strada. Ad ogni sosta sono presenti delle barricate fatte con tronchi d’albero, rappresentanti le barriere che i saraceni in fuga eressero per rallentare l’inseguimento dei vincitori; esse vengono abbattute a colpi di ascia dai barbuti sapeur, corrispondenti ai genieri del vecchio esercito napoleonico e presenti anche in un altro celebre carnevale nord-italiano, quello di Schignano (CO). Le schegge dei tronchi di legno vengono utilizzate dai sapeur come oggetto di scambio presso le osterie per poter bere gratis; può accadere anche che qualcuno tenti di rubare un bindel o un altro elemento del costume degli attori, o di rapire fisicamente il personaggio dell’espouzo (sposa) sempre ovviamente interpretata da un uomo. Chi subisce il furto deve inseguire e catturare il ladro\rapitore prima che questi riesca a rifugiarsi in un’osteria: se ciò avviene il ladro pagherà da bere, altrimenti accadrà il contrario. 

L’abbattimento delle barriere

Il momento clou del rito è il giovedì grasso: al mattino le milizie frazionali scendono al concentrico per le danze sulla piazza del paese, che proseguono fino a metà pomeriggio. Quindi ogni corteo fa ritorno alla propria zona di residenza per il processo ai tesorieri, colpevoli di aver tentato la fuga con la cassa; tipica figura del capro espiatorio carnevalesco che si addossa tutti i mali della comunità, il tezourìe, pallido per la paura (il suo volto viene appositamente imbrattato di farina) compare davanti al giudice nerovestito, ed  insieme inscenano un processo farsesco che può essere recitato sia in italiano che in occitano. Il processo si conclude con la condanna a morte dell’imputato, ma la condanna non sempre è messa in atto: a Sampeyre concentrico e Rore possono intervenire due figure vestite di bianco, le fie de marié (ragazze da marito, questa volta interpretate da vere donne) che impetrano la grazia per il condannato, mentre a Calchesio e Villar il tesoriere viene fucilato dai granatìe (granatieri). Nel caso di Villar è accaduto in passato che il tesoriere “resuscitasse” grazie ad una generosa somministrazione di vino in una vicina osteria, proprio come avviene in altri carnevali piemontesi: citiamo a titolo d’esempio la morte e resurrezione dell’Arlecchino che conclude il Bal do Sabre di Bagnasco, sempre nel cuneese. 

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Il giudice legge la condanna del tesoriere

Terminato il processo la festa entra nella sua fase più movimentata con una lunga veglia notturna che, tra danze e bevute, si protrae non di rado fino al mattino successivo. Nel corso della veglia, allo scoccare della mezzanotte, vengono proclamati i nomi dei capi che cinque anni dopo avranno l’incarico di organizzare una nuova Bahiò.


Il carnevale di Varallo, capoluogo della Val Sesia, si apre ufficialmente la sera del 5 gennaio con il Gran bal d’la Veggia (Gran ballo della Vecchia); vi partecipano gruppi mascherati provenienti da tutta la valle, per i quali l’evento rappresenta la prima occasione ufficiale dell’anno in cui poter indossare i costumi smessi al termine del carnevale dell’anno precedente. Anche in questo caso i costumi, coloratissimi e a volte abbelliti con motivi floreali, richiamano la primavera; sopra il costume, quando ci si trova all’esterno, viene solitamente indossato un pesante mantello a tinta unita, in genere nero o di colore scuro, sul quale i proprietario appunta a mo’ di medaglie i piccoli ninnoli che vengono distribuiti ad ogni veglia o evento carnevalesco della valle, così che a colpo d’occhio è possibile capire da quanto tempo l’interprete della maschera fa parte dell’ambiente, parecchio esclusivo, del carnevale.

A differenza di quanto avviene a Sampeyre ai carnevali valsesiani partecipano indifferentemente maschi e femmine, con una rigida distinzione dei ruoli fra i due sessi (re, regina, soldato di guardia, damigella, concubina eccetera) che si riflette anche nella foggia dei costumi. Fa eccezione un gruppo di personaggi che compare solo ed esclusivamente a Varallo nei primi due giorni di Carnevale, ovvero la Veggia Pasquetta e la sua famiglia composta dal marito il Veggiu Bacuc (Vecchio Bacucco) e dalla prosperosissima balia che ha il compito di accudire Marcantonio Carlavèe, re del carnevale che sta nascendo rappresentato da un bambolotto. Entrambe i ruoli femminili sono interpretati da uomini, ma l’identità dell’attore che interpreta la Veggia (il quale deve tassativamente essere sempre un varallese) viene tenuta rigorosamente segreta ed al momento della presentazione ufficiale delle maschere, verso la mezzanotte tra il 5 e il 6 gennaio, ella appare con il volto coperto da uno scialle in modo da non essere riconosciuta.

Il Veggiu Bacuc, la balia e la Veggia Pasquetta con il piccolo Marcantonio

Il rito varallese del giorno dell’Epifania (di carattere unico in Valsesia, ma simile a tradizioni presenti altrove nel nord Italia, ad esempio a Colloro e Premosello Chiovenda entrambe in provincia di Verbania) si apre al mattino con l’accoglienza dei gruppi folkloristici ospiti, di solito gli Sbandieratori del Paliotto di Asti, che si esibiscono sulla piazza di fronte alla chiesa parrocchiale. Nel primo pomeriggio i gruppi mascherati della valle si radunano ai confini più occidentali di Varallo Vecchio, il rione che si trova a ponente rispetto al corso del torrente Mastallone; l’unico gruppo a non essere mai presente a questa prima fase è quello di Varallo Nuovo, a est del Mastallone. All’arrivo della banda musicale inizia il corteo, a cui partecipano persone sia in maschera che non ed accompagnato da un modestissimo carro allegorico dal quale i ragazzi del Comitato carnevale di Varallo Vecchio distribuiscono in cambio di un obolo il Testamento della Veggia, una poesia satirica in dialetto valsesiano. Il corteo si interrompe in diversi punti per consentire le esibizioni dei gruppi ospiti. 

Il corteo lungo le vie di Varallo Vecchio

Il tono della manifestazione cambia quando il corteo attraversa il ponte sul Mastallone ed entra nel territorio di Varallo Nuovo: intervengono le guardie di Varallo Nuovo che hanno l’incarico di catturare la Veggia e sottoporla a processo con l’accusa di essere stata infedele al Veggiu Bacuc ed aver concepito Marcantonio in modo illegittimo. La Veggia da parte sua inscena una rocambolesca fuga durante la quale può entrare nelle case dei privati, rubare monopattini o biciclette, interagire con gli spettatori invocando aiuto con alte strida e persino irrompere sul sagrato della chiesa parrocchiale, il tutto mentre le guardie trafelate sono costrette ad inseguirla a piedi. La spettacolare e movimentatissima scena si conclude in ogni caso con la cattura della Veggia, che finalmente svelata viene trascinata di forza in piazza dove il ciambellano di Varallo Nuovo legge la sentenza di condanna al rogo. Ad assisterlo ci sono alcuni personaggi in costume da boia, i Confratelli della Buona Morte: ultima eco parodistica di una confraternita religiosa effettivamente presente a Varallo nei secoli passati, legati alla oggi non più esistente chiesa di Santa Marta, che fra i vari incarichi aveva quello di offrire assistenza spirituale ai condannati a morte.

La lettura della sentenza

Dopo una sosta presso alcuni locali e club del centro per attendere l’arrivo del buio il corteo torna sui suoi passi in direzione del ponte sul Mastallone, mentre i partecipanti (mascherati o meno) lanciano grida stentoree quali “a morte!”, “al rogo!”, “bruciate la Vecchia!”, “brucia, brucia!” e simili; allontanandosi dalla piazza si tiene il congedo formale dei gruppi ospiti, i quali per tradizione non partecipano al momento conclusivo del rito. La Veggia, prima dell’arrivo sul ponte, può ancora tentare delle brevi fughe dalle guardie, spesso nelle osterie dove viene offerto da bere a lei e ai suoi catturatori. Infine la vittima sacrificale (perché di questo in effetti si tratta) viene condotta sul greto del torrente e messa al rogo, ovviamente sostituita all’ultimo minuto da un fantoccio pieno di polvere da sparo e petardi. Gli spettatori assistono alla suggestiva scena dai parapetti del ponte, mentre la banda musicale suona allegre ariette con ritmo sempre più incalzante. 

Le guardie celebrano il rogo della Veggia Pasquetta

Una delle tecniche più note per indurre i fenomeni di alterazione (ma sarebbe forse meglio parlare di “amplificazione”) della coscienza è quella di mettere in atto una deliberata modificazione dei ritmi del proprio corpo, del proprio “tempo” interiore, ad esempio invertendo la percezione del ciclo giorno-notte: nei momenti rituali che abbiamo preso in considerazione l’uomo si appropria di un tempo che non gli appartiene, quello della rigidissima notte invernale in montagna popolata di spiriti e potenze tenebrose, e lo trasforma in un “giorno” fittizio alimentato dal sacrificio di una vittima rituale, dove si accendono grandi fuochi e si danza ininterrottamente fino alle prime luci dell’alba. È stato altresì fatto notare come la manifestazione carnevalesca di Sampeyre segua un doppio calendario; la data d’inizio, l’Epifania, è regolata dal calendario solare, mentre le date mobili dei cortei vengono computate sulla base del calendario lunare: la prima sfilata delle milizie avviene nella terzultima domenica prima dell’inizio della Quaresima, con la Luna piena, mentre le altre due avvengono con la Luna calante, accentuando la dinamica di esplorazione delle tenebre notturne nel momento in cui sono più forti e del ritmo oppositivo tra la luce ed il buio. 

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Sempre nell’ottica di una alterazione del proprio ritmo interiore rientra la partecipazione a cortei e sfilate. In questo contesto particolare il montanaro è costretto a smettere la lunga falcata che gli è tipica e regolare il proprio passo su un ritmo più breve e cadenzato, regolato dal suono dei tamburi e degli strumenti musicali che accompagnano la sfilata ed interrotto da numerose soste: l’operazione richiede uno sforzo semi-consapevole e accentua la sensazione di stare entrando in un “mondo” diverso, invertito rispetto a quello della propria quotidianità. 

I suonatori che accompagnano la sfilata della badia

Parlando di “inversioni” non si può non menzionare una di quelle più tipiche del carnevale, l’inversione tra uomo e donna. A Sampeyre ed in misura minore a Varallo il maschio ha per una volta all’anno l’opportunità di indossare abiti femminili, ai quali non è chiaramente abituato e che impongono una certa pratica per essere portati (pensiamo solo al possibile intralcio che può rappresentare una gonna per chi ha sempre indossato pantaloni). I tessuti con cui gli abiti da donna sono confezionati sono inoltre spesso qualitativamente diversi rispetto agli usuali abiti da uomo; ad esempio la sensazione di una cuffietta adorna di trine sul capo o di una camicia di seta sulla pelle, per chi normalmente è solito indossare le più ruvide stoffe adatte al lavoro in montagna, è tale da alterare la percezione cinestesica del proprio corpo. Tale contro-ritmo non coinvolge solo gli abiti ma in certi casi anche gli oggetti rituali che vengono utilizzati nel corso delle manifestazioni: le asce dei sapeur di Sampeyre, strumento di lavoro col quale il montanaro ha certamente familiarità, hanno il manico avvolto da delicati nastri di seta così che impugnarle rappresenti un’esperienza totalmente diversa dal normale. 

Le sarazine (ragazze saracene) di Sampeyre, interpretate da bimbi di sesso maschile, assieme al tambourin magiur (tamburino maggiore) che scandisce il tempo della sfilata con un asta fasciata di seta

Si è visto come il tempo carnevalesco assuma spesso la dinamica di un conflitto tra forze opposte, il  che naturalmente si traduce anche sul piano dell’azione fisica. L’intero complesso rituale della Bahiò di Sampeyre prende le mosse da un fatto di guerra: portando in scena la sconfitta e la cacciata dei saraceni i paesani hanno la possibilità di scendere fisicamente in campo e fare la guerra alle forze scatenate dell’oscurità e della morte, le quali vengono in tal modo esorcizzate. A Varallo il tema della conflittualità è stato invece via via depotenziato nel corso del tempo: le testimonianze storiche infatti ci dicono che il rito originale prevedeva l’accensione di non uno ma ben due falò sulle due sponde del torrente Mastallone, uno per Varallo Vecchio ed uno per Varallo Nuovo, in una competizione che non di rado degenerava in una vera e propria rissa in cui fioccavano sassate e bastonate. Tale rivalità viene rappresentata anche nella contrapposizione fra gli animali “totemici” con cui i residenti dei due rioni si identificano: i dughi (gufi) di Varallo Vecchio e i falcheit (falchi) di Varallo Nuovo, il che offre un ennesimo affascinante esempio di contrapposizione notte-giorno, luce e buio nonché una descrizione didascalica dei caratteri e degli attributi tipici dei due rioni: saggezza atavica, fedeltà alle tradizioni ma anche testardaggine e paura delle innovazioni per Varallo Vecchio, intraprendenza, lungimiranza ma anche irriverenza e mancanza di rispetto per Varallo Nuovo. Oggi i varallesi si limitano per lo più alla partecipazione emotiva al conflitto tra i due rioni storici della città rappresentato dalla fuga e dalla cattura della Veggia (proveniente dai confini più lontani di Varallo Vecchio) da parte delle guardie di Varallo Nuovo, oltre ad assistere alle dimostrazioni di bravura ed agilità fisica proposte dagli Sbandieratori di Asti o dagli altri gruppi ospiti. Bisogna aggiungere però che il coinvolgimento dei partecipanti alle manifestazioni si accentua man mano che il carnevale varallese procede: ad esempio la sera della Carnevalàa n’tla stràa (Carnevalata in strada, spesso ma non sempre coincidente con la festa patronale di San Gaudenzio) si conclude con un girotondo attorno ad un fuoco acceso in piazza, girotondo parecchio energico in cui il grosso del divertimento consiste nell’essere strattonati violentemente per le braccia. Al termine della danza re Marcantonio Carlavèe (questa volta adulto ed interpretato da un attore in carne ed ossa) invita a ricordare i propri defunti e le persone che hanno contribuito a mantenere la tradizione carnevalesca attraverso i secoli, ed i presenti scoppiano in un pianto catartico.

Il girotondo che conclude la Carnevalàa n’tla stràa di Varallo

Se il carnevale comporta un cambiamento qualitativo nel modo in cui si esperisce il tempo, lo stesso può dirsi dello spazio. Anzi sotto un altro punto di vista si potrebbe dire che il tempo stesso assuma la natura qualitativa di uno spazio trasfigurato dal rito, come dice il Cavaliere del Graal Gurnemanz nel celeberrimo “Parsifal” di Wagner: «Du siehst mein Sohn, zum Raum wird hier die Zeit», «Vedi figlio mio, qui il tempo diventa spazio». 

Che l’abbattimento o il superamento di una barriera sia legato a concetti di rinnovamento e fertilità è parte talmente integrante della nostra cultura che quasi non ce ne accorgiamo più: pensiamo solo alla cerimonia del taglio del nastro quando si inaugura una mostra o un nuovo edificio, o l’atto di costringere due novelli sposi a tagliare uno spesso tronco d’albero con una sega smussata come di tradizione in certi matrimoni piemontesi; ma la straordinaria antichità di questo concetto è testimoniata, in culture molto lontane da noi, dall’esistenza di particolari figure mitiche legate all’inverno, quali il serpente Vṛtra della tradizione indo-buddhista che viene ucciso per “liberare le acque” alle quali sta facendo barriera causando la siccità. Nei paesi di montagna le forti nevicate di un tempo impedivano spesso la libera circolazione e limitavano gli spazi di interazione sociale, così che non è una grossa sorpresa vedere come nella ritualità carnevalesca di Sampeyre, legata al tema del ritorno della primavera, venga più e più volte reiterato l’abbattimento delle barriere non senza un violento coinvolgimento fisico ed una dimostrazione di potenza virile da parte degli attori. Anche lo scambio dei saluti militari fra i gerarchi delle varie milizie, che avviene sul confine tra il concentrico e le frazioni, ha un grande peso sotto questo punto di vista: i partecipanti segnano fisicamente i confini dei propri territori di appartenenza, che non sempre coincidono con gli attuali confini amministrativi delle specifiche zone, partecipando alla narrazione mitica di una parata militare, ed i limiti geografici stessi acquisiscono un peso metafisico nel processo attraverso cui i membri della comunità creano (o ricreano) mentalmente lo spazio in cui dopo il carnevale si svolgerà il loro vivere quotidiano. 

La milizia di Villar in marcia verso il confine

La barriera tra i due rioni di Varallo, già lo abbiamo visto, è invece il torrente Mastallone, che viene attraversato dalla sfilata della Veggia Pasquetta e segna il passaggio tra la prima e la seconda fase del rito; ma ricopre anche il ruolo di centro del mondo, di luogo delle origini della comunità varallese, essendo proprio da qui che storicamente si sviluppò l’abitato di Varallo, cioè attorno all’antico traghetto, oggi sostituito da un ponte, che congiungeva le due sponde del torrente. Qui Varallo è nata e qui Varallo rinasce ogni anno con il rogo della Veggia Pasquetta che segna l’inizio del Carnevale; qui, inoltre morirà sempre sul rogo il figlio della Veggia Pasquetta, re Marcantonio Carlavèe, quando il carnevale sarà giunto alla sua naturale conclusione, chiudendo specularmente il ciclo. Tale ritorno alle origini avviene attraverso un itinerario sia simbolico che fisico che i partecipanti percorrono durante tutta la giornata, e probabilmente un tempo veniva indicato anche da riferimenti e suggestioni visive di cui oggi facciamo fatica a cogliere immediatamente il significato. Ci sembra difficile attribuire al caso, ad esempio, la presenza di un orologio con l’effigie di Saturno proprio su uno degli antichi palazzi nobiliari che si affacciano su questo luogo così carico di significati mitici e simbolici: Saturno, re dell’Età dell’oro quando il tempo non esisteva ancora, re dell’epoca futura quando il tempo si arresterà e il mondo verrà riassorbito al punto trans-spaziale e trans-temporale da cui si era originato. 

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Saturno sorveglia il corso del torrente Mastallone

Legato alla prospettiva del ripercorrere nello spazio il corso ordinario del tempo, ma non al superamento in chiave escatologica dello stesso, è invece un momento molto più tardo del carnevale varallese, la Giurnàa d’la leugna (giornata della legna) alla vigilia del martedì grasso. Un altro corteo carnevalesco esce dalla città e si reca sul territorio della frazione di Crevola, che un tempo si trovava al di là del confine con la Francia; qui il re del carnevale crevolese, Carcarugu (nome onomatopeico che indica il gallo, uno dei simboli della Francia) paga ai varallesi un tributo sotto forma di pezzi di legna da ardere, che il giorno dopo verranno utilizzati per la preparazione della paniccia (un minestrone di verdure) distribuita gratuitamente alla popolazione. Il tributo sarebbe stato imposto in cambio del permesso agli abitanti di Crevola, da parte del comune di Varallo, di utilizzare l’antico ponte con pedaggio che univa il concentrico alla frazione. In buona sostanza siamo di fronte ad una questua carnevalesca nella quale interferiscono elementi legati alla storia ed alla politica locali, elementi che vengono drammatizzati e per così dire consacrati nella memoria collettiva attraverso il rito. La sfilata, per inciso, è preceduta da uno degli oggetti rituali più antichi del carnevale varallese, il Marcantoniu di salaim (Marcantonio dei salami), grottesca effige lignea adorna di salami risalente al 1885. Qualcuno vi ha voluto vedere l’imitazione blasfema di un crocifisso, quasi che la sfilata della Giurnàa d’la leugna fosse originariamente intesa come parodia delle rogazioni religiose che venivano fatte lungo le sponde del Mastallone e del fiume Sesia, che separa Varallo da Crevola, per scongiurare inondazioni e siccità e per procurarsi un buon raccolto.

La sfilata della Giurnàa d’la leugna entra nel territorio di Crevola

Indagare su cosa rappresenti l’esperienza carnevalesca per il singolo individuo è, lo si è già detto, particolarmente difficile. L’inversione delle percezioni e dei ritmi fisiologici del corpo, la danza vorticosa, l’agone fisico, le circumambulazioni di uno spazio sacralizzato, la sostituzione dell’identità attraverso l’uso di maschere sono notoriamente strumenti, utilizzati nelle tradizioni culturali di tutto il mondo, atti a indurre stati più o meno profondi di alterazione della coscienza; ma ogni tentativo di comprendere cosa questo possa significare esattamente per la persona che in quel particolare momento vive tale condizione deve fare i conti con una delle caratteristiche più ricorrenti dell’esperienza stessa, ovvero la sua parziale o totale ineffabilità. Il ricercatore che ponga la fatidica domanda “cosa si prova a fare il carnevale?” si scontra spesso con il rifiuto o la pretesa incapacità di descrivere verbalmente l’esperienza. “Non si può spiegare”, “non si può dire”, “è indescrivibile”, “non ci sono parole” sono fra le risposte più comuni che si possono ricevere; o, come dice una popolare canzone che celebra il carnevale di Varallo, “non cercare spiegazioni”.

Cionondimeno, almeno per vaghi barlumi, qualcosa forse è possibile dire. I riti di inizio anno che abbiamo preso in considerazione sono oggetti semantici complessi e ridondanti che materializzano la narrazione collettiva del mito, attraverso il quale le innumerevoli generazioni umane hanno rappresentato sé stesse in relazione all’universo che le circondava; e parteciparvi significa aprirsi alla possibilità di esperienze che, se anche per ragioni socio-culturali non vengono più riconosciute come tali, hanno decisamente una valenza di carattere mistico. L’attore del carnevale non indossa il costume e la maschera, “diviene” il costume e la maschera: la sua personalità usuale, legata al quotidiano, passa in secondo piano, per lui lo spazio ed il tempo ordinari sono sospesi ed in particolari momenti dell’anno egli ha la possibilità di muoversi nello stesso mondo degli Dèi e degli Antenati, delle sizigie divine e dei cortei degli spiriti agresti.

Il gruppo mascherato di Varallo Vecchio durante il Gran Bal d’la Veggia

Certo non sempre questo esito positivo è possibile, perché l’uomo con la maschera corre sempre sul filo del rasoio: se la sua personalità volesse a tutti i costi mantenere il controllo il rito diverrebbe la noiosa ed insipida reiterazione di una usanza della quale non si capisce più il senso, se recedesse completamente precipiterebbe nell’inconsapevolezza dell’eccesso orgiastico, nello sbraitare animalesco dell’ubriaco. Chi ha la fortuna di possedere la particolare costituzione psichica per mantenere un equilibrio dinamico fra questi due estremi parla invece di  esperienze affatto peculiari, talvolta vagamente descritte come una “ebbrezza lucida”, durante le quali il mondo si trasfigura in un alfabeto vivente in cui ogni cosa è ricca di nuovi significati e si prova una corroborante sensazione di gioia, integrazione e benessere che talvolta può risolversi in importanti intuizioni su sé stessi, la propria vita, il proprio ruolo nel mondo e nella società. 

La miopia della ricerca di cui accennavamo all’inizio di questo intervento, che preferisce ignorare tali aspetti dell’esperienza carnevalesca per concentrarsi sul mero dato filologico e materiale può condurre e ha in effetti condotto in passato a diversi passi falsi, e non solo sul piano puramente accademico. Pensiamo a quei casi in cui i pur lodevolissimi tentativi da parte di studiosi e docenti universitari di ripristinare carnevali storici scomparsi da diversi decenni hanno dato esiti assai insoddisfacenti: nel migliore dei casi pantomime di grande effetto visivo, ma che poco o nulla conservano dello spirito autentico ed originario del carnevale. Trascurate troppo spesso dagli studiosi, le esperienze dirette e talvolta straordinarie di chi vive il carnevale ne costituiscono il cuore e la ragione di essere: e se è vero che cercare spiegazioni in ultima analisi potrebbe essere vano, non è d’altro canto impossibile ignorare tali aspetti se davvero vogliamo dare, nei limiti del possibile, un quadro a tutto tondo di questa affascinante tradizione che affonda tanto nel mistero del nostro passato remoto quanto nell’essenza più profonda di ciò che ci rende uomini. Solo così il carnevale potrà continuare ad essere il ponte che unisce i miti ancestrali del passato con la realtà delle generazioni del futuro. 

Le generazioni del futuro sul ponte che scavalca il Mastallone

Barbano, Enzo: Cenere di coriandoli, Valsesia editrice 1983

Centini, Massimo: Basure, Masche e strane creature, Coedit 2017

Centini, Massimo: Sulle tracce dell’Uomo Selvatico, Magenes editoriale 2018

Gallo Pecca, Luciano: Le maschere, il carnevale e le feste per l’avvento della primavera in Piemonte e nella Valle d’Aosta, Giribaudo 1987

Grimaldi, Piercarlo: Tempi grassi, tempi magri, Omega edizioni 1996

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