Da Pan al Diavolo: la ‘demonizzazione’ e la rimozione degli antichi culti europei

di Marco Maculotti
copertina: Arnold Böcklin, “Pan, the Syrinx-Blowing”, 1827

Abbiamo già avuto precedentemente modo di vedere che, nei primi secoli della nostra èra e persino durante l’epoca medievale il cd. «paganesimo rurale» mantenne inalterata la propria diffusione, soprattutto nelle zone più distanti dai grandi centri abitati. San Massimo ebbe modo di notare che “nel IV secolo (…) i primi missionari passavano di città in città e diffondevano rapidamente il Vangelo in un’area molto vasta, ma non sfioravano neppure la campagna circostante”, aggiungendo poi che “perfino nei secoli V e VI, quando la maggior parte di loro era stata convertita da un pezzo, in Gallia e in Spagna la Chiesa, come risulta dai ripetuti Canoni dei Concili del tempo, incontrava grande difficoltà nel sopprimere gli antichi riti con cui i contadini da tempo immemorabile scongiuravano le pestilenze e incrementavano la fertilità delle greggi e dei campi” [A.A. Barb, cit. in Centini, p.101].

Come conseguenza di questa diffidenza di fronte alla sopravvivenza degli antichi culti e pratiche, la Chiesa, nei Canoni dei Concili e nelle omelie dei vescovi, prese nettamente le distanze da tutte quelle tradizioni popolari che pur “cercando di abbattere i poteri negativi del diavolo, in effetti finirono per seguire la sua stessa strada, ricorrendo a pratiche apotropaiche di chiara origine pagana” [Centini, Le bestie del Diavolo, p.64]. Si può vedere, dunque, come ogni sopravvivenza cultuale pre-cristiana, in quanto “pagana”, veniva bollata automaticamente come contraria ai dogmi della tradizione giudaico-cristiana e, quindi, considerata automaticamente “demoniaca”, “satanica”. Questo atteggiamento di insofferenza diede il via alla nuova ondata di persecuzioni verso i culti e le pratiche antiche; l’opera verrà in seguito portata avanti dall’Inquisizione, che farà piazza pulita di “eretici” e “streghe” fino al XVIII secolo, quando ormai della «sapienza pagana» non sarà rimasto più nulla. Quello che il cristianesimo fece, in sostanza, fu sradicare gli antichi culti europei tacciandoli di essere “culti demoniaci”: quello che fece, d’altro canto, anche dal lato opposto dell’oceano con le popolazioni amerindie.

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Pan, il Diavolo e le streghe

L’associazione tra il dio della vegetazione, degli animali e della natura incontaminata e il Diavolo della tradizione cristiana trova la sua origine nell’interpretazione cristiana medievale della figura di Pan, dio pastorale e agreste di un mondo senza leggi, di puro godimento e selvatichezza. Nume dei pastori e delle greggi, quasi una sorta di antropomorfizzazione della natura (allo stesso modo di Cernunno, del Green Man o del Wildermann), il suo nome viene fatto derivare da paon (“colui che pascola”), ma era anche definito “sporcaccione dal pelo lucido”, in quanto pure simbolo di una sessualità disinibita e indipendente da qualsivoglia morale, reminiscenza di epoche arcaiche, durante le quali l’essere umano viveva immerso in questa sorta di “promiscuità panica”.

Tutte queste sue caratteristiche funzionali, portarono in epoca cristiana all’identificazione di Pan con il Diavolo; Massimo Centini scrive che, “i piedi caprini, le corna, la folta peluria e la coda sono attributi ricorrenti della divina creatura silvestre dell’Arcadia, che da ‘sporcaccione dal pelo lucido’ è stato trasformato in Signore degli Inferi ed eterno tentatore del genere umano” [Le bestie del Diavolo, pp.70-1], in linea con i dogmi della nuova religione. D’altronde, secondo l’autore [Ibidem, p.66] “la figura del diavolo non ha mai perso la sua atavica aura di malvagità quasi selvaggia (animale), che di fatto lo relaziona ad un universo perverso, colmo di simboli spesso antichi quanto l’uomo”, di cui raramente si rammentano le origini.

Queste connessioni, in ultima analisi, “determinarono tutta una serie di atteggiamenti negativi, che influenzarono profondamente il processo interpretativo attuato intorno alle creature figlie della natura selvaggia e del bosco, un processo non illuminato dalla nuova religione” [Ibidem, pp.70-1]. Ciò causò, nei secoli, una rimozione di determinati elementi simbolici dalla psiche collettiva europea con il risultato che, non avendo più modo di decifrare archetipicamente determinati simboli e, di conseguenza, di esternare determinate qualità dell’essere che ora venivano viste in contrasto con il culto ufficiale, condussero infine alla sostituzione degli antichi riti con pratiche perverse e—queste per davvero—demoniache. Come afferma Centini [Ibidem, p.66]:

“È stata la demonizzazione ad avere disperso le basi primitive da cui prese corpo il motivo dell’essere silvestre, in grado di impersonificare l’anello di congiunzione tra Natura e Cultura. La connessione tra l’uomo selvatico e l’universo dei diavoli, mediata da tutta una serie di altre creature malvagie, appare ancora in gran parte condizionata dalla coscienza del peccato incarnato in una figura non più umana e relegata, per aspetto e comportamento, al rango di bestia”.

Il complesso simbolico e rituale che un tempo faceva capo a Pan, dio della natura vista come un organismo unico (Pan=“tutto”)*, diventa così in epoca medievale la piattaforma sulla quale danzerà il terrificante Princeps huius mundi: gli impulsi panici della psiche collettiva europea, imbrigliati da dogmi religiosi e morali estranei alla propria cultura, portarono all’edificazione del rituale sabbatico durante il quale veniva adorato il demonio, avversario del dio dell’Antico Testamento. Lo stesso accadde a Cernunno in Gallia e nei territori abitati dalle popolazioni di ceppo celtico: “il modello primigenio del Signore degli animali, a cui molto spesso non corrispondeva un aspetto fisico preciso, fu interpretato in chiave diabolica, acquistando una conformazione antropomorfa, riconducibile allo stereotipo del diavolo/selvaggio” [Centini, op.cit., p.73]. 

* A.F. d’Olivet scrive che “l’Universo considerato come un tutto vivente, composto di intelligenza, anima e corpo, veniva chiamato Pan o Phanes” dagli Orfici [D’Olivet, I versi aurei di Pitagora, p.164].

Secondo Giorgio Galli, non si può parlare degli antichi culti europei come di mere superstizioni o indicarli con la denominazione riduttiva di “stregoneria”. In questo substrato arcaico, in vita fino al Medioevo, egli vedeva [Occidente misterioso, p.170] un “movimento in espansione, di una vera e propria cultura alternativa traducentesi in comportamenti, con radici antiche (le civiltà matristiche, le baccanti, gli gnostici), riemergenti in condizioni specifiche (la crisi della Chiesa, la ripresa di credenze magico-astrologiche)”. Tale movimento fu combattuto “perché aveva radici culturali e sociali, perché senza sconfiggerlo […] l’«età moderna» non avrebbe potuto essere tale, coi valori che le sono propri”. Galli aggiunge che “il diavolo è il Dioniso delle streghe”, i sabba sono un aggiornamento dei raduni delle menadi e “gli stessi rapporti con gli animali si collegano a una tradizione che ha in Pasifae e nel suo mito cretese l’antecedente, come eco di un periodo nel quale la promiscuità dell’essere umano nella natura era normalmente vissuta” [Ibidem, p.173].

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Dall’episodio della “morte di Pan” riportato da Plutarco, secondo l’interpretazione di James Hillman [Saggio su Pan, p.58], si può trarre questo insegnamento: il suo simbolico decesso equivale ad una rimozione psichica. “La natura cessò di parlarcioppure non fummo più capaci di udirla. La persona di Pan il mediatore, come un etere che avviluppava invisibile tutte le cose naturali di significato personale, di lucentezza, era scomparsa”. Più avanti Hillman precisa cosa egli intenda per  “rimozione” [Ibidem, p.59]:

“Quando l’umano perde la connessione personale con la natura personificata e l’istinto personificato, l’immagine di Pan e l’immagine del Diavolo si mescolano. Pan non morì mai (…) egli venne rimosso. Perciò (…) Pan ancora vive, e non soltanto nell’immaginazione letteraria. Egli vive nel rimosso che ritorna, nelle psicopatologie dell’istinto che si fanno avanti (…) innanzitutto nell’incubo e nelle qualità erotiche, demoniache e paniche ad esso associate”.

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Il Wilder Mann

Da quanto detto consegue che la figura del diavolo cristiano si sovrappose, oltre a quella di Pan e di Cernunno, anche a quella del Wilder Mann, personaggio del folklore delle popolazioni di lingua germanica, chiamato ugualmente in Italia, “Salvanello”, “uomo selvatico” o “uomo di bosco”, che si ritene connesso a modelli tradizionali quali satiri, sileni e fauni delle antiche mitologie mediterranee e sa’iri (“arruffati”) della tradizione vetero-testamentaria, i cosiddetti “diavoli campestri” [Biedermann, p. 568]. 

Le cronache storiche documentano il culto del “Selvatico” mettendolo in stretta relazione con il “sabba stregonesco”. Nel 1233, infatti, Papa Gregorio IX promulgò una bolla in cui affermava che “nelle riunioni sabbatiche Satana normalmente si presentava come un uomo coperto di peli con caratteristiche riconducibili al Wilder Mann tedesco” [Centini, op.cit., p.71]. Similmente, in un processo inquisitorio del 1615 a Coredo, in Val di Non, la “strega” Maria Polizan nella sua descrizione del sabba indicava Satana come il “Salvanello”, “uno stereotipo del selvaggio che nella tradizione leggendaria del Trentino presenta aspetti simili al folletto” [Centini, op.cit. pp.71-2]. Simili ai raduni dionisiaci delle baccanti o a quelli in cui veniva invocata la Dea dai mille nomi (Diana, Ecate, Erodiade, Erodiana, Hera, Frau Venus, etc), le tregende stregonesche si svolgevano nei boschi a notte fonda, durante le quattro tempora: vi troviamo dunque tutte quelle pratiche che nell’antichità dovettero fare da contraltare effettivo ad una serie di credenze di carattere agrario-rurale [cfr. I benandanti friulani e gli antichi culti europei della fertilità], demonizzate dalla Chiesa da una parte per un calcolo utilitaristico, dall’altra per un’inescusabile ignoranza.

Per la psicanalisi moderna l’archetipo dell’Uomo Selvatico, così come quello panico, simbolizza l’affioramento della parte primitiva, inferiore, oscura dell’essere umano: l’inconscio nel suo aspetto regressivo e pericoloso che Jung definiva “Ombra”. Come il Wilder Mann, anche Pan vive nella natura incontaminata (Arcadia), in una località—come scrive Hillman [op. cit., p.50]—“tanto fisica quanto psichica”, al punto che “le ‘oscure caverne’ dove lo si poteva incontrare (…) furono dilatate dai neoplatonici fino a indicare i recessi materiali in cui risiede l’impulso, gli oscuri fori della psiche da cui nascono desiderio e delirio”. Più avanti, egli continua precisando [op. cit., p.52]: “Definire l’istinto come un meccanismo scatenante innato, o parlarne come di uno spirito ctonio, un urgere della natura, esprime in oscuri concetti psicologici quelle oscure esperienze che un tempo sarebbero state riferite a Pan”. Solo in questo senso si comprende la sua connessione archetipica, individuata e irrimediabilmente deformata dall’élite sacerdotale giudaico-cristiana con le conseguenze psico-collettive di cui abbiamo detto.

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Robin Goodfellow e Robin Hood

Un personaggio del folklore inglese che in epoca medievale assurse a nuova rappresentazione del principio archetipico panico fu Robin Hood, probabile variante del nome sassone Rof Breoht Woden (“forza lucente di Woden”—ovvero di Odino), equivalente a Puck, compagno negli antichi culti rurali della dea dell’Amore, chiamata dagli antichi inglesi “Sposa di Maggio” a causa della sua associazione con il culto del biancospino (may-tree, “albero di maggio”). Egli veniva anche chiamato eufemisticamente Robin Goodfellow (“Robin Buon Diavolo”). Devesi notare come in Francia il termine robin significhi “ariete” ma anche “diavolo” [Graves, La Dea Bianca, pp.455]; entrambi le letture, quindi, ci riportano al complesso mitico peculiare a Pan, dio-capro che in epoca cristiana assunse connotati demoniaci. A ciò si aggiunga che in Cornovaglia robin stava per “fallo”. La nostra ipotesi è pienamente confermata da un’illustrazione presente in un opuscolo del XVII secolo, in cui Robin “è raffigurato come un dio itifallico delle streghe, con corna di giovane ariete, zampe d’ariete, una scopa di strega sopra la spalla sinistra e una candela accesa nella mano destra” [Ibidem].

È curioso qui notare come, tra il XIII e il XIV secolo, le vicende del Robin Hood storico, il famoso fuorilegge della foresta di Sherwood, vennero associate alle mascherate di Calendimaggio: secondo il folklore popolare, quando la festa volgeva al termine, Robin “muoveva contro il suo rivale Bran o Saturno, che era stato Lord of Misrule, «Signore del Malgoverno», nelle celebrazioni di Yule” [Ibidem, pp.155-6]—vale a dire, nei rituali di fine anno, connessi alla «crisi solstiziale». Da ciò comprendiamo come in realtà Robin ricoprì, in queste mascherate popolari, poi sfociate nel Carnevale (*krn), la funzione di «Re dell’Anno Crescente», laddove Bran/Saturno ricopre, ovviamente, il ruolo di «Re dell’Anno Calante». Robert Graves aggiunge, a proposito delle celebrazioni di Yule, che esse continuarono in epoca medievale dietro il velo della Christmas play, la recita di Natale, i cui episodi principali erano “la decapitazione e la restituzione alla vita del Re di Natale, o Fool di Natale” [Ibidem, pp.457-8]—peculiarità che lo collega innanzitutto ai Saturnali romani [cfr. Cicli cosmici e rigenerazione del tempo: riti di immolazione del ‘Re dell’Anno Vecchio’].

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Beltane: Ostara e il sacrificio del “capro di Calendimaggio”

Sempre con riguardo ai rituali di Calendimaggio, sappiamo che tali cerimonie erano indirizzate a una dea variamente denominata (Hölde nell’area germanica, Rea a Creta, Ostara in area Sassone), a cui veniva immolato un capro. Secondo l’erudito inglese, Puck**, “il capro di Calendimaggio, come risulta evidente dalle cerimonie stregonesche inglesi e dalla maggiolata svedese Bükkerwise, si accoppiava con la Dea, veniva sacrificato e risorgeva”***. Ossia: la Sacerdotessa si univa pubblicamente al re annuale [il «Re dell’Anno Vecchio», n.d.a.] vestito di pelle di capra, il quale veniva ucciso e risorgeva nella figura del suo successore [il «Re dell’Anno Nuovo», n.d.a.], oppure in sua vece si immolava un capro e il suo regno veniva prolungato” [Ibidem, p.464]. La celebrazione di Calendimaggio (anticamente definita Beltane) anticipava nel calendario cosmico-liturgico delle popolazioni europee di ceppo celtico Lammas, festa del primo raccolto [cfr. La festività di Lughnasadh/Lammas e il dio celtico Lugh].

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** Per un approfondimento sulla figura di Puck (e di Robin Goodfellow) attraverso i secoli, cfr. Allen W. Wright, Puck Through the Ages. The History of a Hobgoblin.
*** È quantomeno curiosa e degna di menzione la corrispondenza tra il sacrificio del “capro di Calendimaggio” nel calendario liturgico pagano e parimenti dell’“agnello di Dio”, immolato su una croce e destinato a risorgere a nuova vita, in quello cristiano. Si aggiunga inoltre il fatto che il nome attuale della Pasqua nei paesi anglosassoni, Easter, deriva proprio dal nome della dea Ostara, la “sposa di maggio” di Beltane, a cui il re-capro era sacrificato dopo uno hieros gamos (lett. “matrimonio sacro”; rappresentazione dell’unione sacra tra il principio virile e il principio femmineo).

Secondo Graves, “questo rito di fertilità è alla base degli intellettualizzati «Piccoli Misteri» di Eleusi, che si celebravano a febbraio e rappresentavano le nozze del Dioniso-capro con la dea Tione, la «regina invasata», e la sua successiva morte e resurrezione” [Ibidem]. E, a tal riguardo, è interessante quanto scrive Centini [op. cit., pp.117-8], vale a dire che: “l’immagine del caprone-diavolo, protagonista delle blasfeme cerimonie sabbatiche, può essere intesa come la sopravvivenza demonizzata di quelle divinità ibride, silvestri, adorate dai pagani e celebrate nei boschi; ma nello stesso tempo va anche considerata come la reminiscenza dei sacrifici di quest’animale, che venivano ampiamente praticati nell’antichità”. Cerimonie di tal guisa appaiono senza ombra di dubbio connesse ad antichissimi riti della fertilità e della rigenerazione della natura, che in tempi arcaici erano connessi con l’adorazione del «dio-capro», Pan, e di divinità simili della natura selvaggia quali il Wilder Mann, il Green Man, et similia, che in epoca medievale sfociarono spesso arbitrariamente nel calderone del cd. “sabba stregonesco”.

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Metafisica della Maschera

Proseguiamo questo studio con un approfondimento sul preciso significato della maschera nella tradizione e nel folklore. Questo excursus ci sarà utile a comprendere meglio l’ultimo argomento di cui tratteremo, vale a dire le “mascherate” che si tenevano in tutta Europa in occasione delle Calende di gennaio, periodo nel quale si riteneva che gli spiriti dei morti tornassero sulla terra. Ci baseremo su una monografia redatta sul tema da Alessandro Pizzorno e intitolata Sulla Maschera.

Va detto, innanzitutto, che la maschera e la morte sono in stretta connessione: il modello originario della maschera sarebbe stato il teschio umano o il cranio di un animale [Pizzorno, p.27]. Per alcune tradizioni (ad es. quella Dogon) la maschera apparve quando il primo antenato, avendo voluto conoscere la lingua segreta, venne punito dagli dèi con la morte. L’apparizione della maschera risulta, dunque, contemporanea a quella della mortalità umana: la maschera verrebbe, in questo senso, a “ristabilire l’ordine sul disordine provocato dalla morte” [Ibidem, p.29]. In questo modo, colui che durante un rituale indossa una maschera, muore come individuo e si distacca dalla sua persona (=maschera) quotidiana per impersonare un essere a-temporale, fissato nella maschera che lo rappresenta: si può quindi affermare che “la maschera comincia là dove si abolisce la persona [Ibidem, p.35], ovvero la maschera che ogni individuo indossa nella sua quotidianità. La persona che si nasconde dietro alla maschera “cerca di innestare la propria azione sul corpo della sua storia quotidiana, interrompe la propria identità personale, sottrae ogni azione che compie alla responsabilità del prima e del poi” [Ibidem, p.49].

Inoltre, all’interno di una situazione cerimoniale in cui tutti i partecipanti al rito sono mascherati, le maschere servono a sopprimere la coscienza personale per realizzare l’identità di coscienza di tutte le persone presenti [Ibidem, p.43]. La possibilità di questa partecipazione mistica ad una ultra-coscienza, ad un egregore—diremmo in termini gnostici—, è in stretta connessione con l’aspetto di a-temporalità ed eternità che la maschera veicola: “nell’incessante passaggio e ritmo di ciò che è permanenza, durata, identità, ciò che resistendo al tempo, rappresenta il tempo nel suo aspetto di eternità, può fondare partecipazione” [Ibidem, p.48]. Si tratta, dunque, di un’identificazione collettiva ad un essere che è invincibile perché immutabile. Si tratta di “sottrarsi al tempo pressante della situazione per porsi—e di là agire—nel tempo mitico ove operano gli esseri che le maschere rappresentano; di assicurarsi una presenza dominante e intangibile. Chi guarda è terrorizzato dalla potenza dell’essere rappresentato; ma soprattutto dal rapporto mostruoso fra esso e l’uomo che la porta” [Ibidem, p.56].

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Larva, Masca, Stria

D’altronde, la connessione tra maschera ed esseri spaventosi (demoni, spiriti, morti, streghe) è confermata dalla tradizione, al punto che si sostiene che all’origine le maschere “raffigurano esseri del mondo infero che all’inizio del ciclo annuale ricompaiono sulla terra” [Toschi, Il folklore, p.33]. In latino, larva significava sia “spettro” che “maschera”; l’altro termine adoperato per indicare la maschera, persona, probabilmente di derivazione etrusca, ancora in piena latinità serviva a designare le anime dei morti, in perfetta coerenza con la credenza latina che i morti sopravvivessero come maschere [Pizzorno, op. cit., pp.32-3]. La denominazione italiana odierna deriva da masca, che originariamente aveva il significato di “morto, strega o spirito maligno”. Il Toschi scrisse che [cit. in Centini, op. cit., p.109] “nel longobardo, masca significa prima di tutto uno spirito ignobile, il quale, simile alle strigae romane, divorava uomini vivi, ma sembra che originariamente masca significasse un morto, avvolto in una rete per ostacolare il suo ritorno sulla terra, costume che si ritrova presso alcune popolazioni primitive. Frequente è l’uso di masca, sempre per indicare strega, nel latino medioevale e anche nei secoli più vicini al nostro”. Tra il XII e il XIII secolo Gervasio di Tilbury scrisse: “I fisici dicono che le lamie, dette volgarmente masche o in lingua gallica strie, sono delle visioni notturne che turbano le anime dei dormienti e provocano oppressione” [Ibidem] [cfr. Il fenomeno della paralisi nel sonno: interpretazioni folkloriche e ipotesi recenti].

Si ritiene, ad ogni modo, che la vera e propria demonizzazione del travestimento si accentuò solo a partire dalle origini del cristianesimo, quando la maschera fu “collegata direttamente al diavolo e alla sua capacità di mutarsi continuamente nei suoi tentativi di traviare gli uomini” [Ibidem, p.100]. Tuttavia, nel Medioevo, all’interno dell’àmbito folklorico, la maschera divenne l’emblema del rinvigorirsi del paganesimo in seno alle tradizioni popolari che, nell’ottica della Chiesa—come abbiamo visto—erano un “autentico ricettacolo del demonio” [Ibidem]. Tra le maschere più note del Carnevale italiano, quella di Arlecchino è la più interessante in questa sede: egli inizialmente “era certamente un diavolo, anzi il capo di una masnada di diavoli: il suo nome stesso Hallequin deriva da Hölle=“inferno»” [Toschi, op. cit., p.33]. Arlecchino era dunque, originariamente, un ‘doppio’ di Saturno/Cernunno, il dio dalle corna cervine che governa il ‘Mondo Infero’; e non è un caso se molti studiosi rintracciano una connessione innanzitutto etimologica (ma nondimeno funzionale) con Erlik Khan, antichissimo dio del ‘mondo sotterraneo’ e dei morti nello sciamanesimo turco-mongolo e siberiano, anch’esso come Cernunno (e Kronos negli Inni Orfici, nonché lo Yama/Yima indo-iranico) tradizionalmente raffigurato con un palco di corna di cervo [cfr. Divinità del Mondo Infero, dell’Aldilà e dei Misteri].

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Calende di gennaio: le Cervula e il «Complesso cultuale del Visitatore»

E con questo ritorniamo al discorso precedentemente sviluppato, vertente sul periodo della «crisi invernale» e del ritorno, in questo periodo dell’anno, degli spiriti dei morti nel mondo dei vivi. Mircea Eliade collega complessi mitici di tal guisa al «complesso cultuale del visitatore», che comprende, in area europea, le credenze sull’arrivo, negli dodici giorni compresi tra Natale e l’Epifania [cfr. Il substrato arcaico delle feste di fine anno: la valenza tradizionale dei 12 giorni fra Natale e l’Epifania], del dio Odino (in seguito profanizzato in Santa Claus o S. Nicola) e della dea Hölde (poi profanizzata nella figura della Befana) con al loro seguito la Wilde Heer (esercito furioso, exercitus feralis) e la processione delle anime dei morti (dianaticus) [cfr. Cernunno, Odino, Dioniso e altre divinità del ‘Sole Invernale’].

A proposito delle feste agrarie di inizio anno, Cesario di Arles nel VI secolo scriveva rivolgendosi ai membri delle comunità rurali francesi: “Quando arriva la festa delle calende di gennaio vi rallegrate stupidamente, diventate ubriaconi, vi scatenate in canti erotici e in giochi osceni (…) Se non volete partecipare al loro peccato collettivo, non permettete che vengano in corteo, davanti a casa vostra, mascherati da cervi, da streghe, da una qualunque bestia” [Centini, op.cit., pp.100-1]. Si ricorderà che il cervo, soprattutto per la muta annuale del suo palco di corna, è connesso simbolicamente alla morte e rigenerazione della natura. Danze licenziose con maschere di cerva o di vecchia venivano effettivamente rappresentate anche nelle campagne tedesche o inglesi durante i dodici giorni tra Natale e l’Epifania [Tilak, Orione, pp.162-3], che sappiamo essere i giorni della «crisi solstiziale», durante i quali si riteneva possibile il ritorno degli spiriti dei morti tra i vivi. A questi esempi devesi aggiungere quello dei Regos dell’Europa orientale, confraternite giovanili che nei dodici giorni si aggiravano nei villaggi riferendo i desideri dei morti, indossando costumi e maschere che rimandano allo scheletro umano [Centini, op. cit., p.76] e quindi, in ultima analisi, ai morti e al cd. «complesso del visitatore» [cfr. Metamorfosi e battaglie rituali nel mito e nel folklore delle popolazioni eurasiatiche].

Per quanto riguarda l’Italia, fu Jung ad attestare l’esistenza di un’antica festa pagana dell’anno nuovo chiamata Cervula o Cervulus, celebrata alle Calende di gennaio, durante la quale ci si scambiava le strenae (costituite da ra­metti di una pianta propizia che si staccavano da un boschetto sul­la via Sacra, consacrato a una dea di origine sabina, Strenia, apportatrice di fortuna e prosperità) e ci si mascherava da animali o da vecchie, danzando alla melodia di quelle che la Chiesa considerava “cantantiones sacrilegae”. Marija Gimbutas ipotizza che queste manifestazioni siano riconducibili a riti arcaici in onore di una divinità femminile, una «Signora degli Animali» dall’aspetto di daina o cerva, da cui sarebbe derivata Diana. Del resto, Pausania attesta che Artemide, nel tempio della Despoina, in Arcadia, indossava una pelle cervina [Radin, Jung, Kerényi, Il briccone divino, p.180].

Riti simili sono attestati anche a Creta e a Cipro, ma non furono appannaggio delle sole culture indoeuropee: Eliade testimonia l’esistenza di cerimonie analoghe anche presso i Sumeri, gli Egizi e agli antichi giapponesi. Nel Paese del Sol Levante, “proprio come presso i Germani e altri popoli indoeuropei, l’ultima notte dell’anno è segnata dall’apparizione di animali funebri (cavalli, ecc.) degli dèi e delle dee ctonico-funerarie; a questo punto hanno luogo i cortei mascherati delle società segrete di uomini, i morti fanno visita ai vivi e vengono celebrate le iniziazioni” [Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, p.96]. Ci troviamo dunque di fronte a una credenza ampiamente diffusa nell’antichità: la sua propagazione in tutta l’area eurasiatica e mediterranea ci porta a ipotizzare l’esistenza di un calendario cosmico-liturgico comune, con annessi miti e riti, in epoche preistoriche. Più enigmatica è le testimonianza che ci giunge dall’Estremo Oriente, che si potrebbe forse spiegare in virtù delle antichissime migrazioni del ceppo Ainu che si verificarono nel XII-XI millennio a.C.. Essi provenivano dalla Siberia e praticavano un culto di tipo animista: ciò, evidentemente, porta acqua al nostro mulino, in quanto abbiamo già ampiamente dimostrato l’esistenza, nella preistoria, di uno sciamanesimo pan-eurasiatico che emerge dal substrato più arcaico delle tradizioni europee fino alle  lontane steppe orientali della Siberia e della Mongolia.

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BIBLIOGRAFIA:

  • H. Biedermann, Enciclopedia dei simboli (Garzanti, Milano, 1991).
  • M. Centini, Le bestie del Diavolo (Rusconi, Milano, 1998).
  • M. Eliade, Il mito dell’Eterno Ritorno (Boria, Bologna, 1968).
  • M. Eliade, La nostalgia delle origini (Morcelliana, Brescia, 2000).
  • G. Galli, Occidente misterioso. Baccanti, gnostici, streghe: i vinti della storia e la loro eredità (Rizzoli, 1987).
  • M. Gimbutas, Il linguaggio della dea (Longanesi, Milano, 1990).
  • R. Graves, La Dea Bianca (Adelphi, Milano, 1992).
  • R. Heinberg, I riti del solstizio (Mediterranee, Roma, 2001).
  • J. Hillman, Saggio su Pan (Adelphi, Milano, 2008).
  • A.F. d’Olivet, I versi aurei di Pitagora (Luni, Firenze-Milano, 2006).
  • A. Pizzorno, Sulla maschera (Il Mulino, Bologna, 1998).
  • P. Radin, C.G. Jung, K. Kerényi, Il briccone divino (Bompiani, Milano, 1979).
  • L.B.G. Tilak, Orione. A proposito dell’antichità dei Veda (ECIG, Genova, 1991).
  • P. Toschi, Il folklore (Touring Club Italiano, Milano, 1967).
  • A.W. Wright, Puck Through the Ages. The History of a Hobgoblin.

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