In occasione dell’anniversario di morte di Gustav Meyrink, pubblichiamo questa “disamina esoterica de-criptante” di uno dei suoi romanzi più complessi, originariamente pubblicato nel 1927: L’angelo della finestra d’Occidente.
Esito ad infrangere l’ultimo dei suggelli recanti distintamente questo stemma. È un piacere guardarlo! Ma che è? Ciò che sta nella parte di mezzo non è affatto un lume acceso! È un cristallo! Un dodecaedro regolare circondato da un’aureola radiante! È lo splendore di un carbonchio e non la fievole luce di uno stoppino! Ed ecco che mi si affaccia nuovamente una strana sensazione: come se un ricordo assopitosi da – già, da secoli ora lottasse per riprendere coscienza in me.
Stiria, Austria; primi decenni del ‘900. Ci troviamo ad immedesimarci nel barone von Mueller, il protagonista assoluto di questa ricognizione senza precedenti negli anfratti mnesici intertemporali che il suo mentale tenterà di porre in “auscultazione” col proponimento di carpirne l’occultum lapidem (“lapis sacer sanctificatus et praecipuus manifestationis”) auto-illuminante i conturbanti enigmi della suo micro(caos)cosmo esistenziale e del Macrocosmo: l’agognata “medicina universale” degli Alchimisti, rimedio all’incessante ruota di mali cagionati dall’ignoranza dell’Io.
John Dee, Hoel Dhats, John Roger… tutti nomi che alludono a rami apparentemente sconnessi di un unico albero genealogico avito, saldamente innervato con i rizomi abissali, innestati nella corrente sotterranea degli eoni primordiali. In fondo, parafrasando un’immagine ricorrente nel racconto in guisa di deja-vù fra John Dee e Von Mueller, tutti noi siamo simili a larve sonnambule che si contorcono caoticamente dentro le innumerevoli spoglie mortali ogni secondo, giorno, anno, millennio, saltando da una forma di vita, terrestre e non, ad un’altra privi d’una bussola che ci possa munire d’un orientamento permanente e non affatto transeunte. Sarà proprio l’emergere a galla di un lascito di lettere vecchissime, documenti confusi, quaderni manomessi, più una sfilza di oggetti bislacchi, ad innescare una perversa concatenazione di coincidenze significative al limite del “delirium tremens”. Tentiamo di procedere con ordine.
Il primo incontro è con il signor Lipotin, soprannominato “Nitchewo”/”Mascee”, un antiquario russo zarista incallito scampato alle purghe bolsceviche — e qui emerge la prima avvisaglia di un pericolo atavico da Oriente — il quale consegna un astuccio argenteo di Tula, a sua volta affidatogli da un certo signor Strongaroff, alias “Michele Arangelovic” (nomen omen), anch’egli russo e zarista in procinto di tirare le cuoia, ma per fortuna non prima di contribuire alla missione che la Provvidenza gli ha assegnato in qualità di milite della schiera celeste. Frattanto l’orbita onirica di von Mueller entra in rotta di collisione con il potere del carbonchio che lo sdoppia in una sorta di Giano “bicipite”, il “Bafometto” templare gnostico, il cui volto nascosto dietro la nuca, quello rivolto all’indietro, al passato arcano dei primordi libidici, slatentizza facoltà magiche in grado di setacciare a fondo nel suo subcosciente, e pertanto sintonizzarsi in risonanza con tutte le presenze ingombranti che accompagneranno lo snodarsi del racconto.
Chi ha visto la corona con sopra il carbonchio? […] Giacché la chiave si trova nell’abisso della corrente. Chi non s’immerge, non potrà raggiungerla. […] Malgrado tutte le evocazioni, a me l’essere bicipite mai è apparso: mai ho potuto contemplare il carbonchio. Ma forse è così: colui al quale il diavolo non torce con la violenza il collo fin dietro, non vedrà mai levarsi la luce sulla via fatale che conduce al regno dei morti. Chi vuole scalare le altezze, deve scendere nelle profondità, poiché il sotto diverrà sopra. Ma a chi di noi tutti, del sangue di John Dee, parlò Bafometto?
Prende avvio un corposo resoconto di spionaggio sulle fantasiose scorribande di Bartlett Green (nomen omen) intrecciate a doppio filo con le assai discusse vicende storiche del famigerato magista e alchimista John Dee, conte di Gladhill. Bartlett Green è un losco figuro di professione macellaio a Welfpool e capitanante la banda di predoni Ravenheads, letteralmente “Teste di Corvo“, lapalissiana allusione alla fase alchemica della Nigredo, in particolare al Caput Mortuum, ossia la Testa di Morto, o per l’appunto di Corvo, che è susseguente alla calcinazione del composto iniziale in una torbida poltiglia colma di “sozzure” contenenti in nuce i tesori miracolosi dell’Ars Regia. Codesta masnada di derelitti non è semplicemente il consueto seguito di manigoldi a caccia di un forziere d’oro; a un dipresso, si acconcia a un più ampio movimento ereticale le cui istanze sovvertono lo status quo dell’egemonia ecclesiastica nel Galles del 1549.
Al posto dell’esangue Vergine Maria rispunta la tellurica Isais la Nera, la Grande Madre pontide, di cui Green sarebbe il nuovo profeta/pontifex e soprattutto depositario di un dono elettivo che lo rende invincibile: una scarpa d’argento assai simile all’astuccio d’argento di Tula posseduto da von Mueller. Come si affermava poc’anzi, la “cerca” di Bartlett Green e compagnia non è rivolta alla mera sete di danaro, bensì al tesoro custodito nella tomba di San Dunstano, e in essa sono celate due biglie d’avorio: una di colore bianco e l’altra rosso. Il Corpo e il Sangue del Chrìstos ovverosia il semen e il menstruum, il mercurio filosofico e lo zolfo: i due pilastri che sostengono l’Albero della Vita su cui noi dobbiamo ergerci per catapultarci alla volta della Corona nuovamente apposta sul nostro Golgota, rimodellato dalla “numinosità” celeste del Volto del Padre assiso invitto e terrifico sul trono al centro della Rota degli eoni cosmici.
Successivamente, la banda dei Ravenheads viene sgominata, con il sommo giubilo del locale Vescovo Bonner (nomen omen), e viene incarcerato Bartlett Green nella Tower of London adibita per i condannati a morte in contumacia in attesa dell’esecuzione capitale. Tali biglie passano nelle mani di un mercante moscovita, il lestofante Mascee ovvero la precedente incarnazione di Lipotin, il quale a sua volta le consegna a John Dee prima che sia anch’egli arrestato per sospetta complicità con l’attività sovversiva di Bartlett Green. Difatti occorre sottolineare che, in parallelo, John Dee sta agendo magicamente tramite macchinazioni occulte per plagiare, anche con l’ausilio d’un filtro d’amore apposito, il cuore della futura regina Elisabetta I, agevolandole pure l’ascesa al trono. Interessante a tal proposito, e sotto il profilo esoterico del culto della Madre Nera Iside di Green, è il biglietto di pergamena vergata da una vecchia megera delle paludi di Uxbridge, dedita a pozioni magiche, alla cartomanzia e a quant’altro di truffaldino, a cui si è affidata Elisabetta con lo scopo precipuo di poter divinare circa il suo incombente avvenire regale:
Ho interrogato la Madre Nera, Gea,
Son scesa giù nella fenditura per sette volte settanta gradini*:
Su, di buon animo, regina Elisabetta – ha detto la Madre.
Tu hai bevuto la salute – odo udire dalla guardiana.
La mia bevanda scioglie, per poi di nuovo legare,
Scioglie la donna dall’uomo.
L’interno è sano, solo l’esterno è malato:
l’intero sussiste, anche quando la metà crolla.
Io proteggo – io dispongo – io scongiuro!
Ti conduco il giovane nel tuo letto nuziale:
Divenite un solo essere nella notte! Divenite un solo essere nei giorni futuri!
Che la menzogna non separi l’Io dal Tu!
Né quaggiù, né lassù si separino coloro, che nella loro regalità tutto sovrastano;
Il sacramento del mio filtro fa finalmente, dei due, l’uno
Per colui che guarda avanti e indietro nella notte,
Che mai dorme, desto nell’eternità,
Per costui la veglia di eoni è come una veglia di giorni.
Consolati! Su, di buon animo, regina Elisabetta!
È stato promesso: il cristallo nero si separa dalla Madre!
Che esso risani la corona d’Inghilterra che – vedi! –
Al principio s’infranse – e che da allora giace spezzata:
Metà a Te, metà a Lui, che con spada d’argento
Giubila sulla collina verdeggiante!
Il crogiuolo aspetta, e aspetta il focolare della sposa.
Che oro con oro vada a risuscitare il principio primordiale,
A rinnovare l’antica corona!* [rimando biblico all’espiazione di Caino e Lamech]
Nelle segrete della Tower of London — e qui s’inserisce per la prima volta il simbolismo della Torre come anticamera della catabasi traumatica — i prigionieri John Dee e Bartlett Green annodano i loro destini. Quest’ultimo narra le peripezie dei suoi 33 anni alquanto rocamboleschi i quali piuttosto che sottendere il rimando qabbalistico al grado più elevato dell’Albero della Vita, l’Ain Soph, il tremendo, immanifestato “vortice” dei com-possibili pre-formali oltre i 10 sephirot e 22 sentieri delle lettere madri dell’alfabeto magico, si confanno di più all’insondabile gorgo limaccioso di Satana-Moloch dello speculare Albero però capovolto dei Qliphot, i cosiddetti parassiti karmici che ostinatamente ci agiscono di nascosto senza che noi, nostro malgrado, possiamo sdebitarci dal loro predominio atavico, aggravante inesorabilmente il fardello della carne appresso lo spirito in preda alla spirale perversa dell’ottundimento. Figlio bastardo di un pretuncolo fanatico e della signorina di larghi costumi “Fiancotenero” (nomen omen), sottomesso alle angherie educative del padre, in un eccesso d’ira furibonda “demoniaca” che gli fa addirittura declamare al contrario una litania, lo uccide fracassandogli il cranio e uno dei suoi occhi, cadendo nella nera terra riecheggiante abissalità infernali, lo perseguita nei suoi incubi peggiori; tanto che una notte il ricordo maledetto di quell’occhio ammonitore lo rende sguercio proprio da un occhio per contrappasso compensativo, anche se tale parziale cecità esteriore è un punto di forza che gli permette di revolvere la visione nel suo fulcro originante interiore.
Poi avviene l’incontro fatidico con la Madre Isais la Nera. La prima manifestazione terrifica della Dea assume il sembiante di un gelido soffio tellurico che accompagna l’assai enigmatica apparizione out of the blue di un pastore con il suo gregge fantasma e un bastone a forma di Y greca, lapalissiana allusione all’utero, “Hysteros”, della Madre abissale celata nei recessi del nostro Io profondo. Il profetico “canto del gallo” insito nella sua spina dorsale, vaticinato dal pastore, annunzia il compimento della sua predestinazione al culto segreto della spietata Isais suggellato dalla consegna della già menzionata scarpa d’argento così formidabile. La notte di Valpurga, luna nuova sulle Highlands scozzesi, Bartlett dalla lunga capigliatura e barba rossiccia officia il rituale supremo detto Taighearm, infilzando allo spiedo cinquanta poveri gatti, rigorosamente neri, perché sacri alla Dea. Il proponimento di codesti rituali così cruenti è sempre coinciso con l’immedesimazione “apotropaica” nei terrori “panici” più primordiali sottesi al basamento interstiziale su cui si irrorano le correnti monstruose della vita; e per l’appunto in virtù di tale tremenda mimesis in esse si perviene a essere “impregnati” dal secretum contenuto nei rizomi occulti che attingono carsicamente alla Dea Morte iper-sanguinolenta: l’immane scaturigine germogliante la totalità inconcepibile delle metabolé fisiche e meta-fisiche.
In seguito a una progressione efferata di sadismi orditi dal Vescovo Bonner, la notte precedente al giorno convenuto per l’esecuzione della condanna al rogo, Bartlett Green conferisce in dote “magica” a John Dee un preziosissimo dodecaedro, perfetto solido platonico corrispondente all’etere, di carbone nero come pegno del suo congedo terreno. Un congedo solo apparente, difatti, come promesso, Bartlett torna a visitarlo dal “reame” concessogli dalla reverenda Madre Isais. È bene specificare che tale reame è soltanto un’altra dimensione “supernormale” a latere e non certamente alcuna di fattispecie “sovrannaturale” giacché come magistralmente proferisce Bartlett:
Non esiste un aldilà, ma dovunque, nella vita, esiste questo solo ed unico mondo, il quale tuttavia comprende diversi aspetti – anzi infiniti aspetti – e può essere vissuto secondo diverse dimensioni: e le sue, ora, erano diverse dalle mie.
Il gaudente Bartlett gli vaticina l’imminente scarcerazione, magheggiata in sordina dalla futura regina Elisabetta, e gli impartisce istruzioni circa l’attivazione del carbone che John, ancora in carcere, testa nelle notti seguenti — rigorosamente durante la luna calante come da prassi nella magia evocatoria isiaca — e alla prima occasione riscontrerà un inconsistente alone opalino stamparsi sulle superfici sfaccettate del cristallo. D’altronde ognuno ci vede ciò che vuole, o che può…
L’occasione fatidica — potremmo designarla karmica in quanto atto di magia “agente” e concretante nuovi inviluppi di destini venturi in sottotraccia coadiuvati da Bartlett Green — sopraggiunge allorquando John decide di sequestrare, giusto per qualche ora di “vacanza” dalle sue incombenze in una notte di luna calante a Mortlake (altro nomen omen geomantico connesso alle acque corrosive femminine) il presunto “doppio astrale” del corpo di Elisabetta al fine di poterlo amoreggiare impunemente a dispetto delle inibizioni imposte dall’arida consuetudine degli intrighi di corte, a cui pure Elisabetta sembra voler giocare ai danni di John; il quale, peraltro sollecitato sempre dai vaticini di Bartlett e votato alla consacrazione matrimoniale con Elisabetta, si cimenta nell’ardita scoperta dell’enigmatica Terra Verde, Grundland. Il paradiso mitico degli Iperborei al Polo Nord, l’ultima Thule dei Viventi al di là del Bene e del Male, ma che in realtà non potrà mai occupare una “grossolana” collocazione geografica nel nostro globo terracqueo. L’unica analogia intermediaria tra il “supernormale” e la dimensione fenomenica è il concetto nevralgico della Viriditas alchemica, il leitmotiv in tutte le fasi pregnanti del racconto.
Fase liminale successiva all’Albedo, e “intensiva” rispetto ad essa poiché prepotentemente protesa alla fonte somma della virtus, la lussureggiante potenza vegetativa, e quindi sessuale nel suo significato eminente, di Venere Ur-ania, l’autentica guardiana della soglia dei Misteri dell’Alta Magia Sexualis ove risulta preminente saper imbrigliare opportunamente la fluidità estuante dall’umidore esiziale congiunto alla linfa vitale: Linea viridis girat universa! (A. Crowley). A perfetto suggello di tale breve digressione alchemica, è icastico l’episodio onirico “lucido” di Dee, intriso di una frastornante connotazione “millenarista” da Giudizio Finale, avvenuto nell’altrettanto icastica data del 20 novembre 1582 come annota lui stesso partitamente nel diario:
D’un tratto, mentre stavo salendo la collina Gladhill, ebbi l’abbagliante evidenza di essere lo stesso Albero sulla collina; lungo il suo tronco che mi sembrò essere il mio midollo spinale, io ora cercavo di innalzarmi verso il cielo, mentre attraverso i suoi rami, come ramificazioni, divenute visibili esteriormente, dei miei nervi e delle mie vene, mi espandevo nell’aria. Ed io sentii le linfe e i moti del sangue e della gioia pulsare in quell’albero di vene e di nervi che avevo dinanzi e in esso mi sentivo cosciente, con un senso di orgoglio.
Il dettaglio però che rende memorabile la fatidica notte di Mortlake sta proprio in una dimenticanza letale da parte di John durante l’evocazione del “doppio”: l’aver smarrito l’arma rituale, il talismano che è la propria Volontà magicamente “canalizzata” nella punta della lancia del suo antenato Hoel Dhat. Sul piano spazio-temporale di Von Mueller, intanto, giunge da Lipotin la misteriosa intimazione di “orientare” l’astuccio d’argento in direzione del meridiano locale, e ciò ingenera scompiglio nello studio domestico che assieme all’intera dimora subisce una progressiva metamorfosi strutturale. È come se interiormente il mentale di Von Mueller stesse sull’orlo del cosiddetto “Pozzo di San Patrizio”:
Chi cade in questo baratro, non ha più bisogno di altra penitenza e se in lui vi è qualcosa che abbia qualità di oro schietto, esso sarà liberato dalle scorie e rivelato per la virtù della vampa della fornace, da una mattina all’altra. E allora molti scesero là dentro, ma ben di rado qualcuno ne ritornò. Poiché il fuoco del destino, a seconda della natura di ciascuno, purifica o distrugge.
Il viaggio nel folle rullo compressore del tempo che frantuma gli specchi delle identità è cominciato. Per la prima volta irrompe la “presenza” felina, con il suo inquietante “odor di pantera” così ipnotico, di Isais la Nera incarnata dall’avvenente signora abbigliata in damascato nero, dagli occhi fosforescenti e dai marcati tratti fisiognomici slavo-turanici: ecco a voi la principessa Assia Chotokalungin (anch’esso nomen omen, soprattutto dalla consistenza qabbalistica; difatti Assiah è il “piano materiale” a fondamento dell’Albero della Vita, e pertanto tale piano dimensionale della materia visibile rappresenta il Regno basale ove giace sepolta la Sposa in attesa dello squillo di tromba annunziante l’unio mystica trionfale con il suo Re prescelto). Ella è alla cerca di quella punta di lancia adoprata da John Dee, ovvero il phallo/logos, e che Von Mueller inizialmente non riesce a identificare con suo lancinante disappunto; nemmeno tramite l’ausilio di Lipotin che a tal proposito contribuisce soltanto a rimestare le acque mnesiche già torbide, esplicitando di avergli ceduto la lancia in questione in una precedente incarnazione, alludendo ovviamente a quella del russo Mascee coevo di Dee, e donandogli uno specchio fiorentino apparentemente di infimo valore, la cui superficie smeraldina di cristallo esercita una penetrante risonanza introspettiva, comparabile alla magica possanza sintonizzata da Dee tramite la smagliante superficie del dodecaedro di carbone agente sui proteiformi residuati subcoscienti nel magma astrale.
L’approdo dal Cile del tanto atteso amico di lunga durata Teodor Gaertner (nomen omen), ufficialmente chimico di professione, non funge affatto da diversivo distensivo per il mentale di Von Mueller già piuttosto provato dai recenti avvenimenti surreali e pertanto oramai sull’orlo del delirio psicotico irreversibile. Tutt’altro che diversivo, poiché Teodor si dimostra essere in realtà un’altra personalità ben più inquietante e ben lungi dal lontano, idilliaco ricordo d’amicizia che lo ritraeva in qualità di giovane e stimato chimico addetto alla botanica, infervorato dalla sua incrollabile professione di fede “positivista”. Allorquando impersonava il ruolo di primo assistente di Dee in qualità di Gardener non gli fu possibile potare in nuce le pericolose diramazioni isiache-demoniache che innerveranno il pellegrinaggio spiritista di Dee e del successivo assistente farmacista e magista Kelley. Ora si è votato a ricoprire il ruolo eminente di “giardiniere” (Gaertner per l’appunto), dall’alto della nuova veste mistica in presidium “escatologico” totalmente in supporto della santa missione di Von Mueller, che gli «ha fatto conoscere il modo di trattare le rose [la vulva resa angelica coppa d’intercessione] e di curare la loro superiore cultura. La mia arte [alchemica] è l’innesto. Il tuo amico era un ceppo sano: colui che ora tu hai dinanzi è il germoglio sorto dall’innesto. Nel ceppo, le fioriture selvagge sono sparite. L’essere che mia madre partorì è da tempo affogato nel mare del mutamento». E come non rimembrare l’ammonimento nel già menzionato episodio onirico ove appare l’Albero genealogico di Dee, su cui tra l’altro campeggia in cima il Bafometto androgino riconfigurato con il sembiante per metà di Elisabetta e per l’altra metà di un ancor ignoto venturo discendente Dee/Hoel Dhats:
Sciocco, ancor sempre tu non conosci Te stesso! Che cos’è il tempo? Che cos’è il mutamento? Anche dopo secoli Io sono: sono dopo cento tombe, e dopo cento resurrezioni! Osi alzar la mano contro l’Albero, tu che ne sei solo un ramo, una goccia della fonte che scorre ai tuoi piedi?
La visita di Teodor reca con sé un fascicolo di carte su cui è vergata proprio dalla mano del cugino John Roger Gladhill la testimonianza dell’incontro avvenuto con una soprannominata Lady Sissy, perfettamente coincidente con l’epigona Lady Chotokalungin, e puntualmente anch’ella è in cerca della tanto agognata punta di lancia che ora scopriamo essere stampata sul vecchio stemma familiare sin dal capostipite: lo slancio vir-ile intrepido che ha galvanizzato il loro ceppo nella “guerra occulta” protesa a colmare quella primeva voragine fagocitante, eppure l’unica forza motrice elevante, dell’eterno femminino antagonista però in eroticis. L’ulteriore avvicendamento eclatante al fianco di Von Mueller è stavolta la compagna femminile mancante nella sua solinga sussistenza, e rileva la nuova giovanissima domestica, la signorina Giovanna Fromm (nomen omen). Come per Von Mueller, il cognome teutonico cela ben altre origini Oltremanica. La frauelin Fromm sostiene che spesso sin da fanciulla coabitano nei suoi sogni delle vaghe reminiscenze pre-natali di un luogo a lei assai familiare, seppur mai visitato in quest’esistenza attuale, e che identifica confusamente con Richmond, un paesino rurale sperduto tra gli altipiani scozzesi. Codesto rimando geografico, tuttavia, s’impernia con alcune delle vicende amorose occorse tra John Dee ed Elisabetta proprio nel paesino di Richmond, però fuori Londra e nei pressi della residenza di Dee a Mortlake.
Un ulteriore tassello temporale che emerge è la palese “incarnazione” precedente della frauelin Fromm (in tedesco significante “pia devota”), la quale ricalca la personalità animica della giovane moglie di Dee ovvero Jane Fromont, di cui fin dal primo istante spicca l’apprensiva remissività e mestizia demetrica: la pallida escrescenza lunare femminea ancora subalterna al magistero del Sole e pertanto “vedova” di quella vivida impetuosità venusiana-isiaca detentrice della prerogativa sulfurea della dynamis. Il piano spazio-temporale di John Dee ritorna prepotentemente alla ribalta essendo il filo conduttore d’elezione nell’impianto metanarrativo improntato o forse solo inventato da Von Mueller, che in fondo è pur sempre lo scrittore del suo romanzo e come impone la “regola d’arte” deontologica del loro status spesso sono dei falsari geniali (sic!).
Il contraltare a Jane/Giovanna si profila nel già menzionato Edoardo Kelley, nella sua «statura larga e massiccia, non denotante una troppo nobile origine» e soprattutto «le cicatrici attorno ai fori delle orecchie dicevano che una tale mutilazione, probabile castigo per una qualche trasgressione alle leggi dello Stato», che Kelley medesimo confessa essere una falsificazione di documenti. I dettagli fisiognomici, inoltre, lo condannano senza appello: «un volto quasi senza mento, dalla fronte sfuggente, con un naso a becco che sporgeva in modo impertinente [vi sovviene in mente qualcuno!?]». Il suo sopraggiungere è in perfetta sincronicità con l’olocausto da parte di Dee del cristallo di carbone donatogli da Bartlett Green, e tale olocausto, impartitogli dalle prime comunicazioni con presunte entità angeliche luminose, avviene per mezzo del fuoco purificatore nel fornello al-chimico o athanòr da cui, guarda caso, si sprigiona un fumo verde privo di residuati cinerei quasi fosse il suggello di Isais la Nera, d’ora innanzi proseguente la contesa su canali sottili meno visibili e assai più perniciosi.
L’intento professato da Kelley appare in consonanza con i nobili propositi di Dee alla cerca anch’egli di quella leggendaria polvere di proiezione in grado di “imbalsamare” il nostro sfuggente doppio astrale/lunare, il soffio delle ossa che deve “precipitare” nella matrice coagulante propulsiva del Sale della Vita a cui si può demandare l’immortalità non della propria carcassa materica, bensì dell’impersonale e supremo “troncone” dell’Io in guisa di egemonikòn completamente assimilatosi alla virtualità invariabile auto-dominata della dynamis in germinazione inattenuata. Kelley reca con sé le due biglie d’avorio di Mascee che Dee aveva gettato dalla finestra più di trent’anni prima, proprio nel preciso istante della cattura espletata dagli emissari del Vescovo Bonner; con ciò riesce astutamente a circuire Dee poiché, come tutti gli avidi imbonitori “bruciatori di carbone”, con le polverine contenute nelle biglie, soprattutto quella del Leone Rosso (menstruum) è preminente per l’ardore della volontà e voluttà, materializza once d’oro e d’argento che risultano probanti immediati dei poteri trasmutativi inconsulti sino a cui Dee non è ancora giunto a padroneggiare.
Sull’onda dell’entusiasmo, Kelley persuade Dee che sia giunto il suo momento propizio per l’evocazione solenne del favoloso Angelo della Finestra d’Occidente ed essa viene effettuata la notte del 21 novembre giorno di presentazione di Maria Vergine. Il numero 21 allude al lamen il “Mondo” degli Arcani maggiori dei Tarocchi ove per l’appunto s’espone, pressoché integralmente nuda, una Vergine che in quanto Vir-agens (ovvero Vir-genitrix), in codesta sede “Pupilla” (Kòre), schiude uno squarcio visionario potentissimo sugli altri “multiversi” paralleli al nostro innescando l’appressarsi senza veli del Volto della viriditas nel suo pieno fulgore sconvolgente. L’attesa è febbrile come preludio di tale fulgore già operante nell’arrovellare le energie psichiche dei cinque partecipanti tra cui Jane. Luna piena rigorosamente su cielo asciutto. La stanza dell’evocazione, ubicata nella torre del castello di Mortlake (prossimità geomantica dell’acqua anch’essa attrattiva), è circondata da candelabri d’argento che sono magneti attrattivi, e vengono murate tutte le finestre tranne quella d’Occidente: la sede prediletta che è di pertinenza dell’elemento connettivo Aria. Al centro della stanza, nell’asse di congiunzione fra il macro e il microcosmo, è collocato un tavolo sagomato appositamente a forma di pentagramma con le due punte inferiori rispetto all’asse dirette verso Occidente al fine di imbrigliare la “presenza” astrale dell’angelo nell’angolo terrestre di Assiah.
La prima repentina apparizione è di una larva che assume subdolamente i contorni della defunta bambina appartenente a uno dei partecipanti di cui però è interessante rilevare i due colori oscillanti della sua veste setosa, ossia il verde che è ancillare al rosso, il connubio tra l’enérgeia (atto) e la dynamis (potenza) cristallizzato dall’alessandrite allusa nel racconto, emblematica pietra della transizione nell’Altrove. Ma poi giunge travolgente il Messaggero (àngelos) dalla Porta d’Occidente, dalle profondità marine crepuscolari del cosiddetto Regno Verde (Grundland), il cui sguardo paralizza Dee che cade in uno stato di quiescenza “limbica” a causa dell’elevatissimo potenziale magnetico emanato dalla fulgida radianza dell’Angelo Verde. Quest’ultimo elude, come farà in tutte le successive sedute evocative alquanto inconcludenti a tal proposito, la fatidica richiesta di Dee circa la consegna della miracolosa pietra di proiezione agognatissima, e ciò nondimeno reintegra ab origine la funzionalità di quel carbone maledetto di Bartlett Green che Dee aveva bruciato, ribadendo implicitamente di non essere il portatore dei decreti afferenti quella fattispecie di segreti superni.
I mesi si susseguono come un’insormontabile fardello sempre più nefasto a carico del povero Dee che in seguito all’incontro con l’Angelo Verde, e per il tramite della sua influenza aurica su Kelley, constata di essere vampirizzato a livello psichico e anche finanziario, poiché la costernazione derivante dai fallimenti persistenti nel conseguimento della Grande Opera logora in primis le sue facoltà psichiche e “spirituali”; a tacere sul conseguente dispendio di danaro devoluto in tale pratica estenuante di ricerca così totalizzante e al contempo appunto inconcludente di cui si profitta l’avvoltoio Kelley, che invece acquisisce per osmosi sempre più vigore psicofisico e prontezza nel commercio dia-bolico con l’Altrove. La stagnazione satura di nerezza a cui l’inesorabile concatenarsi degli eventi si è arenato è sommossa dall’inaspettato invito alla magica corte praghese da parte dell’imperatore Rodolfo II d’Asburgo che ovviamente Dee, seppur con qualche perplessità, non declina affatto, anche in virtù del fatto che ciò lo licenzia da tutte le incombenze, ufficiose o meno, con la regina Elisabetta; frattanto costei, distesa nella sua dorata avidità di supremazia in tutti i reami dell’esistente, compreso quello “spirituale”, non è rimasta indifferente ai bizzarri esperimenti alchemici ed evocatori da lui operati nella torre di Mortlake. Per eterogenesi dei fini essa viene incendiata dal popolino superstizioso appena dopo la partenza di Dee: “Igne Natura Renovatur Integra”, ovvero dalla catarsi del comburente igneo inestinguibile risorgerà l’autentica Fenice “bicipite”, detersa dalle ceneri di tutta la coltre di sozzura incrostatasi a cagione dell’infida influenza di Isais la Nera, ammantatesi nell’illusoria parvenza dell’Angelo Verde.
1583. Praga, palazzo reale Hradschin detto Belvedere. Rodolfo, non certo un pivello sprovveduto nell’indagine delle scienze occulte, ma per l’età avanzata nemmeno assurto a un elevato rango di dignificazione operativa, alla prima udienza pone in rodaggio l’abilità del tandem Dee-Kelley nel quintessenziare la tintura permanente in grado di mondare le impurità di bassa lega dei metalli vili, e trasmutarle nel sostrato propellente da cui estrarre il preziosissimo oro inossidabile. Il fine dell’esperimento è pragmaticamente materiale, per rimpinguare le casse del regno; eppure quella potente capacità magica dimostrata da Kelley in precedenza si rivela un “fuoco fatuo”, poiché il prodotto finale fuoriuscito dal crogiolo risulta essere soltanto argento, con ciò a controprova dell’inconsistente (mercuriale) autenticità dei dettami impartitegli dall’Angelo Verde sempre più assente e meno assertivo circa la trasmissione dei supremi segreti alchemici celati nel criptico grimoire facente parte del tesoro di San Dustano. Nella Praga qabbalista dell’epoca di Rodolfo non può di certo mancare l’incontro con il famigerato rabbino Loew, a cui l’affranto Dee mendica un briciolo di quella Sapienza millenaria e universale come ultimo viatico per “sbarcare il lunario”, e il responso quasi oracolare è il seguente:
La Pietra è una buona cosa. L’essenziale è però che la vostra preghiera colpisca l’orecchio di Dio. Una preghiera è il dardo lanciato contro l’orecchio di Dio! Se il dardo giunge a segno, la preghiera viene esaudita – deve essere esaudita – perché la preghiera è irresistibile… quando giunge a segno.*
*[e non come Adamo che fallì il bersaglio!]
In perfetta sincronia con tale conversazione provvidenziale, Dee si imbatte inoltre nell’emblematico “Pozzetto d’Oro” (cfr. quello di San Patrizio) «ove un bassorilievo di pietra raffigura Gesù vicino al pozzo insieme alla Samaritana. Sulla secchia del pozzo sta scritto: Deus est spiritus, Dio è spirito. Sì, Lui è lo spirito, non l’oro! L’oro lo brama Kelley, lo brama l’imperatore, l’oro…». E la reazione del rabbino quando Dee menziona l’Angelo Verde è a tal punto che «il rabbino viene preso da un folle accesso di risa. Sì, è un riso veramente folle, diverso da ogni riso umano; è come lo svolazzare dell’ibis egiziana quando si vede vicino una serpe velenosa». La Fontanella del vero Oro è la sorgiva limpidezza del ricettacolo animico lunare-speculare dentro l’antro del nostro Cuore-Cervello allorché il Fiat Lux dello “spirito” solare-demiurgico ne folgora la superficie; la quale, fecondata dal dardo della contemplazione e proiettata sul fondo ultimo dell’ordine naturale, innesca la “piena del Nilo” snodantesi attraverso le spire del serpente (kundalini/phallo), dormiente nell’incoscienza delle profondità ctonie, e sognante di librarsi in cielo con le ali dell’ibis (logos/semen) in incubazione.
Le tenaglia impugnata da una parte da Rodolfo e dall’altra dall’Inquisizione non pare allentare la morsa letale sul collo del malcapitato Dee, novello Isacco, e di sua moglie Jane ossessionata da tremende “visioni di fuoco”, oramai abbandonati alla deriva dallo squattrinato Kelley, lo scialacquatore delle “polverine” per egoiche cupidigie di ricchezze che mutano in sintonia con il ritmo altalenante delle apparizioni dell’Angelo Verde, i cui divisamenti incominciano a risultare imperscrutabili pure allo stesso Kelley. La remota risonanza di Isais la Nera, la “Madre delle Tenebre”, conduce John Dee nei sotterranei della dimora del dottore di corte Hajek, ove nel corso del tempo si è scavato un pozzo provocato dal prolungato riflusso dei vortici d’acqua del fiume Moldova. Dal suo baratro senza fondo, Isais gli si manifesta per la prima volta senza veli in tutta la sua conturbante e insormontabile malia felina nemmeno pareggiabile dall’ardore divoratore della dea leonessa Sekhmet, recando con sé lo specchio smeraldino che Lipotin ha donato a Von Mueller “a fondo perduto”.
Dee, mentre subodora quella raggelante folata d’ingordigia sanguinolenta così primordiale a cui si era consacrato Bartlett Green, è però paralizzato da una sacra mania sciolta da qualsiasi remora o affettività umana che lo approssima alla soglia della Morte, tanto che l’apparizione simultanea dell’Angelo Verde si riduce a una scialba emanazione di contorno priva di effetti, come già si è constatato nelle precedenti occasioni. Tuttavia non si scorge impunemente la nudità della Morte senza comportare un sacrificio umano, e in tale fatale avvenimento è la fidente Jane a immolarsi. Prima di gettarsi, apparentemente ad infinitum, nell’impercettibile corrente d’acqua verde tra le nere fauci infernali del pozzo, Jane deve consumare l’irripetibile hieròs gàmos (maithuna sessuale tantrico) non con il marito bensì in sua vece con Kelley, l’araldo della bestialità ctonia: l’infrazione della verginità coniugale è il contrassegno (“spirituale” e non “demoniaco”) che sancisce l’iniziazione, ovverosia il cambiamento di polarità della componente passiva lunare-speculare di Jane in attiva solare-demiurgica, estraentesi con opportune rettificazioni dal vigoroso caos elementare degli istinti belluini di Kelley. Il terminus ad quem dell’immolazione è il compimento su un piano superiore “celeste” dell’eterno femminino “dinamizzato” per la missione redentrice dell’Io maschile cristallizzato nel turgore della punta di lancia, epperò esso è in trepida attesa di quella propiziatoria spinta eiaculatoria verso l’alto nel Golgota che secreta l’ambrosia della beatitudine e della liberazione. O Devi, la liberazione senza la conoscenza della Shakti (potenza) è una semplice burla!
La costernazione così smisurata di un Dee oramai sull’orlo della tomba lo risospinge verso la terra natia, alle rovine post-incendio del suo laboratorio alchemico ubicato nella torre del castello di Mortlake. Ciò nonostante, pur nella lugubre cornice di uno dei tanti mattini brumosi senza avvenire e che preludia all’imminenza del suo estremo trapasso, spunta un fulgidissimo raggio aurorale che si plasma nella figura del fidente assistente Gardner, già asceso fra gli adepti dell’aurea catena dei magnifici Superiori Incogniti, come si constaterà in seguito. Egli, vestito di una lunga tunica di lino bianco con stampato sopra il magico vessillo dell’invincibile rosa aurea, dall’alto di tale solenne dignità conquistata consegna a Dee la punta di lancia, il “vademecum” per la più dolce perfezione aliena dalle deficienze del corpo materiale, che viene sepolto sotto un rigoglioso roveto aureo presso il cortile del castello trasfigurato in Gan Eden dalla novella “vestizione di gloria”. In conclusione dell’itinerario secolare inter-dimensionale si approda definitivamente al piano spazio-temporale di Von Mueller ove ha preso cominciamento. È proprio grazie alla frauelin Giovanna/Jane Fromm, in preda a una veemente isteria sensitiva quasi “medianica” dinnanzi all’enigmatico astuccio di Tula, che induce il barone a dischiuderlo e a esumare il dodecaedro maledetto di Bartlett Green contenutovi all’interno di un cuscinetto di raso verde. Esso si risintonizza inevitabilmente sull’asse del meridiano, lungo la direzione polare del Regno Verde; e come lo strofinamento (eufemismo erotico) della lampada ridesta il ginn, così il lisciare l’incisione del simbolo dell’eternità cinese (le acque) sulla superficie dell’astuccio d’argento suscita l’invadenza provocatoria della principessa russa Lady Chotokalungin, la quale getta l’insidioso quanto vellutato guanto di sfida al gonzo Von Mueller invitandolo in trasferta nella sua misteriosa reggia signorile fuori dalle mura cittadine.
L’accoglienza nella dimora lo estrania in un narcotico habitat esotico fuori dal tempo, sovraccarico di preziosissimi oggetti d’antiquariato perlopiù orientali, soprattutto dei busti militari e delle armi contundenti ad ogni parete, appena rischiarati da magici riverberi crepuscolari verdastri d’ignota collocazione e olezzanti il pungente “odor di pantera”. Il manufatto artistico che più impressiona il barone, memore dell’episodio di John Dee nel sotterraneo della dimora di Hajek, è una statua di Isais in un angolo dell’androne d’ingresso. Essa è scolpita nuda con le suadenti fattezze della smaliziata proprietaria nell’attrattiva selenite nera, è leontocefala come la furibonda dea della guerra Sekhmet ed è colta nell’atto di stringere con il poderoso mordente felino della mano sinistra uno specchio; con la destra invece dovrebbe stringere un’arma contundente che inizialmente non è presente, ma poi nel corso della surreale conversazione con Lady Chotokalungin si ri-materializza in una punta di lancia perfettamente combaciante anch’essa di selenite nera. Lady Chotokalungin lo intrattiene con una colta prolusione concernente il perentorio discrimine archetipico frapposto, da un lato, tra Isais la Nera o Venere pontide così sfrontata e procace nel beffeggiarsi degli umani in preda alla sua irresistibile potenza di graffiante antagonismo sessuale; però tale brutale potenza marziale può essere trasmutata in primizia se non è generativa. Dall’altro, invece, con la materna Iside egizia che ben più si attaglia al ruolo di custode lunare-demetrica della conservazione manifestativa illusoria nell’amorosa procreazione in primis animale e in secundis umana, essendo la nostra specie dotata della duttile e intangibile fiaccola intellettiva oltre il crasso urto mercuriale dei sensi eccitati che divincolano alla coriacea catena delle incarnazioni. Interessante quanto ella asserisce:
Lo specchio della dea non è affatto simbolo della vanità femminile, ma, per chi capisce, è simbolo dell’irrealtà di tutto ciò che è molteplicità umana, nell’anima come nel corpo. È un simbolo dell’errore che sta alla base di ogni istinto di riproduzione.
E ancora ella rivela magistralmente:
Spero di esser riuscita a mostrare che nel culto di Isais pontide l’essenziale era di mettere inesorabilmente alla prova la forza e l’incrollabilità della coscienza di sé del neofita, non è vero? A base di questa dottrina misteriosofica sta la grande idea, che il mezzo per redimere il mondo e per distruggere il Demiurgo [Dio personale creatore] non è il tradimento proprio a chi si abbandona all’eros animalmente procreatore, bensì solo l’odio dell’un sesso verso l’altro, odio che, del resto, costituisce lo stesso mistero della sessualità. L’attrazione che ogni uomo volgare è disposto a subire da parte del sesso opposto e che egli, con lo spregevole abbellimento di una menzogna, chiama l’amore, è l’esoso espediente di cui si serve il Demiurgo per tenere in vita l’eterna plebe della natura – ecco che cosa insegna la sapienza occulta del culto di Isais. Per questo l’amore è una cosa plebea; infatti l’amore priva sia l’uomo che la donna del sacro principio della loro individualità precipitandoli entrambi nella vertigine di un unione, dopo la quale, per la creatura, non vi è altro risveglio se non il rinascere in quel mondo inferiore [Assiah], da dove essa proviene e da dove essa sempre ritornerà. L’amore [generativo-lunare] è una cosa volgare; solo l’odio [non generativo-venusiano sulfureo] è nobile!
Prima di congedarsi Lady Chotokalungin mostra all’inebetito Von Mueller l’intero inventario della mastodontica armeria casalinga, e per l’appunto si scopre che l’unico oggetto mancante in essa è proprio la punta di lancia dell’antenato principe di Galles Roderico Hoel Dhat (“il Buono”, nomen omen), di cui ne espone una minuziosa catalogazione; e tra le specifiche spicca il fatto che sia forgiato con una lega d’oro e ferro meteorico, riconvertito poi in pugnale con un manico di fattura moresca riccamente incrostato di alessandrite, di berilli e di tre zaffiri persiani. Si allude, inoltre, ricollegandosi a Teodor Gaertner, al tema dei Superiori Incogniti assai diffuso nel campo d’indagine esoterica. Essi in tutte le tradizioni compongono un’invisibile congrega di anime “disincarnate”, ascese dalla vacuità presente nell’Abisso annichilatore delle aporie “dualiste” consustanziali alla molteplicità fenomenica, a granitica tutela della re-integrazione individuale degli umani più meritevoli per eredità karmiche eccellenti, e in codesta circostanza la congrega assume il nome emblematico di “Giardinieri” appartenenti alla razza degli Elfi Bianchi.
In tutta la variegata fauna del “piccolo popolo” di creature immaginifiche su altri universi paralleli, gli elfi rappresentano da sempre i detentori della cosiddetta magia bianca declinata, nel loro caso, a differenza degli gnomi grossolanamente aderenti all’ordine tellurico più elementare, alla distillazione della rugiada celeste, fertilizzante preferenziale del naturale rigoglio delle vir-tù a cui è deputata ogni creatura vivente, simbolicamente accostabile al meraviglioso florilegio di rose auree sbocciante durante l’Incantesimo del Venerdì Santo nel Monsalvat/Glad-hill da riconquistare. Lipotin rispunta invitandolo a un’insolita scampagnata con la sua fidanzata Giovanna e Lady Chotokalungin in un castello alle pendici di un monte, fino ad ora a lui sconosciuto, nominato Elsbethsteine, letteralmente “Sasso di Elisabetta” (allude proprio all’Elisabetta I regina d’Inghilterra), l’Engel-land o “Terra degli angeli” al tempo di Dee/Dhat, e tale sasso è alchemicamente la pietra vivente (lapsit exillis) che secerne la salvifica fonte d’acqua celeste di Mnemosyne: la Memoria siderea del nostro autentico Io profondo e assoluto che noi siamo stati e sempre saremo.
Da giorni su tale monte in corrispondenza del cortile del castello si sono attivati dei geyser, per l’appunto getti di vapore sulfureo, che analogicamente fanno riemergere la potenza radicale del menstruum: il nitro incandescente è pronto per far fluire in alto le acque verdi del Giordano deterse in sinergia con la simultanea canalizzazione organica degli impeti promiscui non più degradanti nell’inerzia coagulante degli inferi in stato vegetativo. Pertanto il risveglio di questi ultimi inediti fenomeni eruttivi sprona l’intera combriccola a recarsi più volte in perlustrazione. Alla prima occasione avviene l’incontro, grottesco e al contempo rivelatorio, all’interno dell’ennesima fatidica torre nel castello in rovina, con un vecchio presunto pazzo che asserisce di essere il giardiniere della regina Elisabetta, rimasto fedele alla sua mansione di curare il cortile interno dalle insidie oltre le mura. Nel suo farneticare sono celate delle perle sapienziali:
Voi lo sapete bene, giovane signora: la regina Elisabetta, quando tutti l’hanno creduta morta, è andata a cavallo a cercare il suo Sposo. La regina Elisabetta ha bevuto qui l’acqua della Fontana della Vita! Ed io l’attendo qui, come… mi è stato detto, da… Io l’ho vista partire a cavallo dell’Occidente, dove l’acqua è verde, per andare a prendere lo Sposo. Un giorno quando si udrà il rumore delle acque, ella sorgerà da terra. Sì, sì, io so che la Nemica vuole impedire le nozze della regina Elisabetta.
Poi consegna a Giovanna con nonchalance un pugnale, la punta di lancia dei Dee riconvertita, che corrisponde perfettamente proprio alle specifiche di quello mancante nel lungo catalogo della collezione posseduta da Lady Chotokalungin, la quale, con disappunto rabbioso, percepisce chiaramente di essere stata smascherata come la Nemica in cerca di esso per i suoi fini diabolici. Il secondo, e conclusivo, incontro con il giardiniere avviene solamente tra i due uomini Von Mueller e Lipotin, in assenza, non casuale, delle altre due controparti femminili, che contemporaneamente decidono di avventurarsi in auto verso un altro itinerario letale per entrambe, visto che muoiono in un incidente durante il tragitto. Il giardiniere li conduce nel cortile edenico del castello diroccato: pressoché è il medesimo del giardino presso il castello di Mortlake, già apparso in precedenza in concomitanza con la dipartita terrena di John Dee, e in particolare è impressionante la presenza del medesimo roveto di rose auree sotto il quale il giardiniere ha esumato il pugnale. Da un’emblematica “frattura” ad arco nelle mura, su cui il barone riconosce il simbolismo profetico di tre rose auree (bocciolo, semi-dischiusa, rosa sbocciata) a lui già vagamente note, s’adempie una parziale epifania: Jane/Giovanna, la Janua Vitae, coronata quale sua suprema Sophìa, è predisposta a farlo penetrare nell’altra metà dello specchio e conchiudere la perfezione auto-divinificante.
È un istante sospeso nell’illud tempus che squarcia la lineare consecutio temporum dell’ordinaria concatenazione dei pensieri sovrintesi, e mai direttamente escogitati, dal mentale razionale inferiore; indi per cui la personalità egoica di Von Mueller s’incrina sinanche a innescare il dissolvimento di qualsiasi discrimine tra realtà e illusione. Lipotin s’eclissa, assieme al giardiniere, mentre il doppio astrale di Lady Chotokalungin ritorna ossessivamente a visitarlo per tre giorni e tre notti, che oramai coincidono, nella propria dimora, cadente a pezzi in simbiosi metamorfica con il suo ego inferiore, mossa dal perfido proposito di sottrargli la punta di lancia di Hoel Dhat e di vanificare così per sempre il suo tentativo eroico di completare la liberazione dalle grinfie vampiriche di Isais la Nera.
Superata l’ordalia dell’estenuante veglia ininterrotta per codesti tre giorni (nascita-morte-rigenerazione), succulenti di assalti perpetrati attraverso gli stratagemmi sessuali più subdoli, che peraltro gli fanno acquisire lo “sguardo del drago”, ovvero l’assimilazione senza residuo nell’argento vivo delle acque verdi corrosive, al nostro barone spetta in sorte un’ultima impresa che gli viene impartita dall’amico Teodor Gaertner, adepto dell’Ordine degli Elfi Bianchi. Von Mueller si deve recare di notte nuovamente nel cortile del castello di Elsbethsteine, ma durante la luna piena, e non calante in cui operava sotto l’influsso isiaco, precisamente presso la “frattura” in seno alle mura di fronte al roseto. Oltre di esse, spunta una larva ibrida rassomigliante alla Signora Elsbethsteine/Elisabetta, sebbene in realtà, tramite il tempestivo soccorso del Bafometto che sancisce la definitiva coniuctio oppositorum, si riveli essere Isais la Nera la cui ira forsennata scatena un pandemonio pullulante di rettili e altre viscide creature infernali che sconquassano la Terra e il Firmamento.
È la palingenesi macrocosmica che revulsiona la scorza creativa delle caotiche brame irrisolte di quell’unico Testimone, l’Io superiore, ricomparso in tutta la catena di reincarnazioni individuali dal capostipite Hoel Dhat, a John Dee, a John Roger e infine a Von Mueller che appronta il suggello all’intera parabola terrestre, elevando l’Io all’edenico stadio primordiale dell’androginia fra la sua polarità maschile, il Re Von Mueller/Dee, e l’altra polarità femminile, la Regina Elisabetta, integralmente inter-compenetrantesi a vicenda senza più antagonismo. La totalità di codesto aggregato bi-univoco conserva pur sempre una dualità latente non ancora inglobatasi nell’Indifferenziato senza nome o forma oltre la plenitudine dell’Essere manifestativo; a quest’ultimo ulteriore e massimo stadio di immortalità effettiva, è assurta solamente la nostra Jane/Giovanna che ha dilacerato qualsiasi forma di dualità, integrata o meno, assimilandosi a quel Vuoto che è consustanziale all’Eterno Femminino.
Sciogliere ciò che è legato. Congiungere ciò che separato a mezzo dell’amore. L’amore trionferà attraverso l’odio. L’odio trionferà attraverso l’immagine. L’immagine trionferà attraverso il sapere. Il sapere trionferà attraverso il non-più-sapere: questa è la Pietra del Vuoto diamantino.