“Oltre il Reale”: per una Metafisica del Fantastico

Quella della narrazione nasce come pratica profondamente sacra: nel raccontar-si e nel raccontare il mondo, l’uomo lo ricrea e lo rifonda continuamente, poiché «non vive più in un universo soltanto fisico, ma in un universo simbolico. Il linguaggio, il mito, l’arte e la religione fanno parte di questo universo, sono i fili che costituiscono il tessuto simbolico, l’aggrovigliata trama dell’umana esperienza». La narrazione diventa così ben presto la chiave per le innumerevoli porte del Mistero, per un relazionarsi tra dimensioni diverse eppure autenticamente reali.


di Claudia Stanghellini
copertina: Marco Sabbatani (“Oltre il reale”, GoG Edizioni, Roma 2020)

Ultimamente si sente spesso parlare di Homo Economicus e Homo Consumens, quasi mai di Homo Narrator. Eppure, secondo il noto paleontologo Stephen Jay Gould, sarebbe proprio questa la formula più adatta a esprimere la struttura antropologica dell’essere umano. Anche lo storico Yuval Noah Harari è di questo avviso e individua nello sviluppo linguistico unico che ha caratterizzato l’evoluzione dei Sapiens tra i 70.000 a 30.000 anni fa (Rivoluzione cognitiva) il fattore discriminante che ha consentito a questa specie di prevalere su tutte le altre allora esistenti [1]:

« Ogni animale sa comunicare […] solo i Sapiens sono in grado di parlare di intere categorie di cose che non hanno mai visto, toccato o odorato. Leggende, miti, dei e religioni comparvero per la prima volta con la Rivoluzione cognitiva. In precedenza molti animali e molte specie umane erano in grado di dire: “Attento! Un leone!”. Grazie alla Rivoluzione cognitiva, Homo sapiens acquisì la capacità di dire: “Il leone è lo spirito guardiano della nostra tribù”. »

In queste poche righe Harari ha il merito di fornirci un altro interessante suggerimento, ossia che il carattere narrativo della nostra struttura antropologica si intreccia a doppio filo con quello religioso. Quella della narrazione nasce infatti come pratica profondamente sacra — o di senso, se vogliamo attingere ad un milieu dal gusto più contemporaneo. Nel momento stesso della sua nascita, ciascun essere umano, senza eccezioni, viene rivestito della tradizione che lo ha preceduto e si scopre parte di una comunità e della sua narrazione collettiva. Nel raccontar-si e nel raccontare il mondo, egli lo ricrea e lo rifonda continuamente, poiché «non vive più in un universo soltanto fisico, ma in un universo simbolico. Il linguaggio, il mito, l’arte e la religione fanno parte di questo universo, sono i fili che costituiscono il tessuto simbolico, l’aggrovigliata trama dell’umana esperienza» [2].

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Sascha Schneider, “The Astral Man“, 1906

La narrazione diventa così ben presto la chiave per le innumerevoli porte del Mistero, per un relazionarsi tra dimensioni diverse eppure autenticamente reali. Questa è la ricchezza dell’essere umano: l’incapacità di accontentarsi dei brandelli sfilacciati del materico e un anelito costante alle alture, in direzione quella volta celeste che sussurra segreti; la danza del linguaggio che allarga i polmoni del pensiero, del logos, e dà vita al mythos: il racconto che si fa rito e rito sacro, attraverso il quale prendono colore nozioni e credenze e si umanizza l’alterità — potente e tenebrosa — della Natura e media il rapporto con il Trascendente.

Quanto possono suonare distanti questi concetti se misurati alla secolarizzazione della modernità? Se misurati a un mondo, quello occidentale, in cui l’ebbrezza del meraviglioso si è appiattita sui giochi di prestigio dell’innovazione tecnologica? Scrive Paul Ricoeur [3]:

« Oblio delle ierofanie, oblio dei Segni del Sacro, perdita dell’uomo stesso in quanto appartenente al Sacro. Questo oblio, lo sappiamo, è la contropartita del compito grandioso di nutrire gli uomini, di soddisfare i bisogni, soggiogando la natura attraverso una tecnica planetaria. È l’oscuro riconoscimento di questo oblio che ci spinge e incita a restaurare il linguaggio integrale […] Non siamo quindi animati dal rimpianto delle Atlantidi sprofondate, ma dalla speranza di ricreare il linguaggio. »

E animati proprio da questa speranza, vi sono stati uomini nel secolo scorso che non hanno temuto di fare rotta verso le remote regioni ai confini del Reale, solcando acque impervie e misteriose, pur di dar nuovamente vita a un linguaggio con cui il Mito potesse finalmente tornare a esprimersi. Capitani coraggiosi come Howard Phillips Lovecraft, Arthur Machen, Clark Ashton Smith, John Ronald Reuel Tolkien e Gustav Meyrink, che trovano a buon diritto cittadinanza nel volume Oltre il Reale, curato da Lorenzo Pennacchi ed edito da GOG edizioni.

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Alessandro Sicioldr, “Lunar Idols“, 2019

In un momento storico in cui il mythos, nella sua sacralità, è stato usurpato dai tanti miti parcellizzati che costellano le nostre galassie mediatiche e pubblicitarie; in cui le grandi narrazioni fondative hanno ceduto il passo alle ideologie del progresso e alla tecnologizzazione; in cui gli imprenditori di successo e le aziende hanno preso il posto degli eroi e dei padri fondatori, questa galleria di ritratti letterari del ‘900 fantastico costituisce un’autentica boccata d’aria fresca ed è tanto inattuale quanto l’opera dei personaggi che la abitano. Lo si comprende molto bene attraverso l’accurata disamina condotta da Adriano Monti Buzzetti nella sua postfazione al testo, che ripercorre la storia della narrativa fantastica moderna inquadrandola puntualmente dal punto di vista storico.

Con l’avvento della Rivoluzione scientifica, l’uomo vede progressivamente la Caduta di alcuni dei grandi miti occidentali: il pianeta Terra perde la sua centralità e viene relegato alle periferie dell’universo; la ricerca della verità da impresa epistemologica si vede declassata a velleità intellettuale; il capo della monarchia per diritto divino, garante dell’ordine e della pace sociale, cade sotto l’impietosa mannaia delle rivoluzioni; e con la scoperta dell’inconscio l’uomo si ritrova a non essere più padrone nemmeno a casa sua. Il moderno sperimenta così suo malgrado il paradosso di Zenone al pari di una pena infernale: più si approssima a svelare i segreti della Natura, più questa gli si sottrae prendendosi gioco di lui e rivelandone la microscopica miseria.

Di fronte al crollo delle grandi narrazioni si davano due possibilità di reazione: il rilancio per una grandiosa rifondazione o la rinuncia disfattistica nei confronti di ogni tipo di metafisica (trascendente). L’impotenza dell’uomo di fronte all’infinito spaziale e all’eternità temporale lo portano a muoversi nella direzione di un impoverimento del reale tout court. Per la prima volta nella storia viene tracciata una tanto netta quanto inderogabile linea di demarcazione tra ciò che dovrebbe essere reale e ciò che si presuppone non lo sia. Ciò fa sì che da quel momento in avanti per tutti quelli che non vogliano sottostare a un tale arbitrario imperativo metafisico, sia necessario tendere a un superamento del reale stesso, anziché a un ritorno alle proprie origini [4]:

« […] l’indagine generale sull’assoluto retrocedeva, mentre avanzavano baldanzose sul palcoscenico della conoscenza quelle particolari sui singoli problemi empiricamente verificabili. Il tutto proprio mentre, per un felice paradosso speculativo, l’insopprimibile aspirazione ad andare oltre le colonne d’Ercole di un’oggettività precodificata […] risorgeva nell’alveo di una nuova consapevolezza […] l’universo perduto delle leggende cambia definitivamente indirizzo: […] luogo della mente e del cuore da ricercare per l’appunto “oltre” quel Reale che l’ha estromesso. »

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Nikolaos Gyzis, “Behold the Celestial Bridegroom Cometh“, 1895

Ma chi quell’Oltre non lo ricerca lo nega con violenza e senza appello, profondendo le sue energie in un disperato tentativo di controllo e dominio su quei pochi frammenti di monolitica certezza che a stento custodisce nei palmi stretti: è l’illusione di potere conferita dalla tecnica. Con la manipolazione e, talvolta, il sovvertimento dell’ordine di Natura, la sua sacralità viene violata e gettata con noncuranza fra i muri bianchi e asettici di un laboratorio qualunque, dall’aria impregnata di prodotti disinfettanti e lattice. Ci si illude di aver annichilito il Mistero tra provette e siringhe, ma la verità è che con la sua sciatta negazione si perde quella relazionalità necessaria con l’Altrove che è insita nel DNA antropologico dell’essere umano; e nel tentativo di esorcizzare tutto ciò che non possa essere vagliato dall’oggettività del positivismo e del metodo scientifico, l’umanità si è preparata all’incontro con mostri ancora più tremendi [5]:

« Poeta del mondo post-copernicano, mitografo di atomi e molecole, Howard Phillips Lovecraft fu tra i pochi che riuscirono a guardare in faccia l’abisso aperto dalla dissoluzione della realtà operata dalla modernità. Forse risiede proprio qui la ragione del suo successo, si diceva, che sembra non diminuire con l’avvicendarsi dei decenni, nell’attesa che il Grande Cthulhu torni a reclamare la sua parte, quando le stelle saranno finalmente allineate. »

Il Grande Cthulhu di Lovecraft, presentatoci dall’abile penna di Andrea Scarabelli, altri non è che il Mistero panico rinnegato che si ripresenta all’uomo moderno senza che egli conosca più il linguaggio per relazionarvisi. È l’ombra dell’irrazionale che sorge alle spalle del lume scientista, pronto a travolgerlo e divorarlo. Senza mediazione con le forze oscure dell’Universo, lo scienziato moderno che le nega, si trova ad affrontare il peggiore degli incubi: il terrore puro del potente ignoto, di cui mai avrebbe sospettato l’esistenza e che si pone al di là di qualsiasi vano tentativo di controllo; un terrore che lui stesso è colpevole di scatenare ogniqualvolta, per l’ignoranza del Sacro, risveglia Cthulhu e approssima, con il suo agire, la fine del mondo conosciuto.

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Questa tanto amara quanto lucida consapevolezza attraversa come una lama anche i racconti di Clark Ashton Smith, amico e corrispondente di Lovecraft, di cui Francesco La Manno mette in luce lo spirito fortemente decadentista [6]:

« L’uomo tracotante che cade nell’hybris e si vuole porre in aperto conflitto con il Fato non potrà che soccombere miseramente. Ovviamente, questo fa rientrare Malygris nella categoria dell’eroe decadente che: “Non ha il possesso effettuale né della terra, anche se egli s’illude di attingere radici prima da nessun altro scoperte; né del cielo, anche se egli appunta su di esso il suo spirito veggente. Egli ritrova qualcosa della materia primigenia, sentendosi o rappresentandosi bruto nella potenza delle forze istintive; e del pari crede o finge di poter trapassare alla specie superiore, dell’angelo, di assumere sostanza e prerogativa divina”. »

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Louise Janin, “Atlantis, or the Coronation of Water and Fire”, 1951

Una fine tragica e senza appello per la vanità tecnocratica dell’uomo moderno? Non per J. R. R. Tolkien, che affonda la sua visione mitopoietica nel terreno fertile di un cattolicesimo profondo [7]:

« Pur nel peggior posto del mondo, si può continuare a sperare, perché le cose in principio sono state create buone, il male le ha soltanto contaminate. La missione di Frodo e dei suoi compagni è una spedizione in cui politica, estetica ed ecologica, si incontrano, dove il bello e il bene coincidono. »

Nell’escatologia arborea tolkeniana, la forza viva del creato è sorgente continua di rinnovamento e protagonista, nei panni degli Ent, nella lotta contro quella grigia macchina della morte che è Isengard. La Natura, come ben ci spiega Lorenzo Pennacchi, non è dunque nemica dell’uomo, bensì sua alleata, a patto che egli orienti la sua bussola etica nella direzione di un’armonia ecologica olistica, abbandonando le fredde logiche del controllo e della sopraffazione.

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Da qui in avanti, Oltre il Reale prosegue con la meticolosa e approfondita indagine di Marco Maculotti, che analizza la mitopoiesi dell’orrore in Arthur Machen, mentre Roberto Cecchetti ci immerge negli sguardi profondamente onirici di Gustav Meyrink, in un costante dialogo con autori esoterici del calibro di Jung e Guénon.

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In conclusione, tra divulgazione e approfondimento rigorosamente scientifico, Oltre il Reale si presenta come testo estremamente equilibrato nella forma, ma ardito nei contenuti, in cui figure ancora poco note, eppure di straordinaria levatura, del calibro di Smith, Machen e Meyrink trovano il loro posto accanto a quei grandi che hanno già ottenuto il loro giusto riconoscimento. Una felice alleanza, testimoniata anche dai ricchi scambi epistolari tra alcuni di questi autori, ampiamente valorizzata in questa sede e che rende Oltre il Reale, nonostante la diversa personalità autoriale dei collaboratori che hanno partecipato alla sua realizzazione, un lavoro fortemente unitario e dallo spirito corale. Particolarmente apprezzabile, dal punto di vista del metodo, è poi la scelta di favorire il dialogo continuo con gli autori trattati, in una dialettica narrativa tutto fuorché auto-referenziale. In definitiva, uno dei grandi meriti di questo libro è il farsi continuamente un passo indietro, l’invito instancabile al lettore a mettersi in viaggio nei mondi di quei «demiurghi dell’Immaginario», per dirla con Jacques Bergier, che hanno la pretesa, come per ogni opera letteraria, di voler parlare per sé.

Pluralità per stile, univocità nell’intento: un ritorno a ciò che sta Oltre il Reale, non come vaneggiamento o allucinazione estetica, ma come esigenza razionale di ristabilire una concezione aristotelica dell’essere (to on) che si dice in molti modi, che allarga le braccia ai grandi esclusi dall’univocismo moderno, relegati alle periferie ultime del pensiero [8]:

« Forse pensate che tutto ciò sia un’assurda stranezza. Ebbene, può darsi che sia strano, però è vero, e gli antichi sapevano cosa significava sollevare il velo. Lo chiamavano vedere il dio Pan. »

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Gustave Moreau, ”Pan” (dettaglio di ”Giove e Semele”, 1895

Note:

[1] Y. N. Harari, Sapiens. Da animali a dei, Bompiani, Milano 2019, pp. 31 ss.

[2] E. Cassirer, Saggio sull’uomo. Introduzione a una filosofia della cultura, Mimesis Edizioni, Milano 2011, p. 47.

[3] P. Ricoeur, Il simbolo dà a pensare, Morcelliana, Brescia 2018, pp. 8 ss.

[4] Adriano Monti Buzzetti, Oltre il Reale: La letteratura fantastica tra magia e modernità, pp. 191 ss.

[5] Andrea Scarabelli, Howard Phillips Lovecraft, Argonauta dell’Altrove, p. 43.

[6] Francesco La Manno, Clark Ashton Smith e il decadentismo, p. 65.

[7] Lorenzo Pennacchi, La visione ecologica di J. R. R. Tolkien, p. 96.

[8] Arthur Machen, Il Grande Dio Pan in Marco Maculotti, I Fair Ones, l’atavismo e la ‘regressione protoplasmatica’: la mitopoiesi panica di Arthur Machen, p. 121.


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