Omero, Eraclito e l’enigma dei pidocchi

L’indovinello dei pidocchi posto a Omero dai ragazzini figli di pescatori, e ripreso dopo due secoli e mezzo da Eraclito, ci consente una riflessione sulla valenza dell’Enigma nell’antica Ellade.


di Daniele Capuano
immagine: Wyeth, “Ulysses and the Sirens”, 1929


« Ogni esiliato è un Ulisse, in cammino verso Itaca. Ogni esistenza reale riproduce l’Odissea. La strada verso Itaca, verso il centro. Sapevo tutto questo da molto tempo. Ciò che scopro all’improvviso, è che è offerta l’opportunità di diventare un novello Ulisse a qualunque esiliato (proprio perché è stato condannato dagli “dei”, vale a dire dalle potenze che decidono dei destini storici, terrestri). Ma per rendersene conto l’esiliato dev’essere capace di penetrare il senso nascosto del suo errare, e d’intenderlo come una lunga serie di prove iniziatiche (volute dagli “dei”) e come altrettanti ostacoli sulla strada che lo riporta a casa (verso il centro). Questo significa: vedere dei segni, dei significati nascosti, dei simboli, nelle sofferenze, nelle depressioni, negli inaridimenti di tutti i giorni. Vederli e leggerli anche se non ci sono; se li si vede, si può costruire una struttura e leggere un messaggio nello scorrere amorfo delle cose e nel flusso monotono dei fatti storici. »
Mircea Eliade, “Journal”, 1 gennaio 1960

L’enigma-griphos non è un indovinello, come l’oracolo non è una predizione. Questo errore di prospettiva nei confronti dell’oracolo apollineo avvolge il postulante in un’ombra tragica, non dissimile da quella di chi ‘esprime desideri’ nelle storie di magia: chi giudica sarà giudicato, la lettura contratta dell’io ricade sull’io come destino.

L’indovinello viene risolto, dissolto: si arriva ad un punto fisso, ad un oggetto, l’oggetto conclude e placa la ricerca. Ma una risposta non può mai chiudere l’orizzonte aperto da una domanda autentica: perché la domanda autentica è il ritorno a se stessa dell’esclamazione originaria. Il punto esclamativo, asse del cosmo, si curva in questione, queste, si ripiega, assume la forma misterica del pastorale.

L’enigma non mira a far emergere un oggetto fra i molti, ma a dissolvere tutti gli oggetti: per questo non può essere risolto-dissolto. L’enigma fa emergere il conoscitore oltre ogni conosciuto. È la domanda «Chi sono io?» dell’asceta vedantico, che confuta ogni identificazione errata, pela via ogni scorza dell’io [1]; è la domanda «Che cos’è?» dell’erotica torpedine ateniese, Socrate, che non produce altra conoscenza (come nell’interpretazione aristotelica, e forse già platonica), ma riconduce al terriccio umido dell’ignoranza, a quel thaumazein-stupore che ci svela stupidi come thaumata, marionette, le marionette degli dèi-bambini [2].

L’enigma non nasconde un segreto, ma porge un mistero – una iniziazione.

Omero, dopo aver cantato le vite e le morti gloriose e tristi degli eroi, ultimo lembo dell’età del mito, istmo tra il ciclo delle metamorfosi umano-divine e quello della Storia solo umana – passeggiava solitario su un bagnasciuga, lembo tra la terra del noto e il mare dell’ignoto, quando si avvide, lui cieco, che dei ragazzini, figli di pescatori, erano intenti ad un gioco che sembrava divertirli in modo insolito [3]. Il vecchio sapiente chiese loro, in tono svagato ma non indifferente, cosa stessero facendo: i piccoli pescatori non risposero con affabilità, ma proponendo un enigma, ovvero lanciando ostilmente una sfida. Avvezzi alle insidie del mare, lasciarono il più grande degli aedi su una barchetta, tra i flutti, guidato solo dalla sua visione interiore. L’enigma era:

« Ciò che abbiamo visto e preso, lo lasciamo andare; ciò che non abbiamo né visto né preso, lo portiamo. »

Omero, l’“ostaggio”, ricordò, con un sorriso impercettibile, le parole del Lossia, Apollo l’Obliquo: alla domanda sulla patria, aveva risposto: «La patria di tua madre è Ios, ma tu guardati dall’enigma dei ragazzi».

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Sono davvero ragazzi gli dèi, aveva pensato. Giocano sulla scacchiera del tempo, dei cicli, in modo irresponsabile: eppure ogni loro mossa è saggezza. Cercò di fissare lo sguardo del cuore sulla caligine diffusa da quelle poche, puerili parole, e attese che ne uscisse un volto, un’immagine, un lampo di riconoscimento, un oggetto con una forma e un nome: quel nome, emesso dal fiato, sarebbe stato l’arma della vittoria, la parata che avrebbe fatto rimbalzare il colpo contro gli sfidanti sfrontati. Non importava che fossero dei ragazzetti, dei figli di pescatori, senza un briciolo di quel prestigio che – sempre più spesso senza vera sostanza di luce (e chi più di lui poteva vederlo?) – aureolava i troni dei signori nelle cui aule aveva cantato, celebrando le bronzee gesta dei loro antenati famosi. Un enigma è un duello all’ultimo sangue, ed è il dio obliquo a provocarci, comunque e sempre.

L’oggetto, l’arma tanto attesa, non emerse dalla nebbia. Omero, che era rimasto in piedi, appoggiato al suo bordone, si sedette sulla sabbia bagnata e si afferrò la testa antica tra le mani. I monelli capirono che era un segno di resa. Lo avevano gabbato: si stavano spidocchiando a vicenda, tra motti salaci. Era quella la “soluzione” dell’enigma. Si udì un risolino soffocato, nient’altro. Omero, colui che aveva trovato il ritmo, il polso di Odisseo, il “multiverso” (polytropos), colui che aveva educato il respiro dei Greci con il suo esametro, trasmutando la confusione di mille battaglie e di mille sogni e incubi da marinai in un serto d’alloro scuro e perfetto, crollò in se stesso, nel suo buio: e tutti dissero che morì.

The Odyssey - Departure from the land of the Cyclops. 1859-83. Friedrich Preller
Friedrich Preller, “The Odyssey: Departure from the land of the Cyclops”, 1859-83.

Due secoli e mezzo dopo la sua morte – se si crede alle fantasie dei poeti come lui, beninteso – un altro sapiente, uno sdegnoso aristocratico di Efeso, iniziato ai misteri di Artemide, la sdegnosa, manifestò più volte, scandalosamente, il suo disprezzo per il maestro degli Elleni. In un suo detto lo accomunava ad Archiloco: sia l’aedo cieco della grandezza eroica, che allenava la Grecia, ne plasmava la lena, con i suoi fluenti e ricchi esametri, sia il sapido forgiatore di giambi, il cantore dell’uomo ferreo, comico e tragico, che prendeva forma nel contrasto con le statue sospese, con i catasterismi del mito e dell’epica – avrebbero dovuto essere frustati e cacciati dai giochi, i giochi delle Muse, come gli atleti scorretti che partono prima del segnale (fr. DK B 42). All’impazienza giambica di Archiloco corrispondeva, in Omero, un’impazienza più sottile – più vicina alle radici della conoscenza e dell’ignoranza, le radici dello specifico male umano.

Pareva, all’efesino, che l’errore di Omero fosse simile a quello di Edipo, Piedigonfi, il re degli sventurati: il tebano aveva sciolto l’enigma della Sfinge, ma senza sentire cosa gli profetizzava; aveva ancor prima ascoltato l’oracolo del Lossia, ma senza percepire l’enigma che gli porgeva [4]. Gettandosi subito nell’azione, sulla base di quel che aveva compreso, si era vincolato al tragico, ovvero – così pensava Eraclito – alla scoria ardente dell’iniziazione: avrebbe percorso tutte le tappe della liberazione, ma patendole come eventi esterni, colpi del destino; sarebbe diventato l’Uno-Tutto suo malgrado, alla luce accecante del sole, non nelle tenebre stillanti di una cripta, alla presenza discreta ed essenziale di un mistagogo. E dopo sarebbe diventato cieco, come Omero. Ma la cecità di Edipo si sarebbe aperta, nel tempo, durante il lungo pellegrinaggio con la figlia-sorella Antigone, alla luce sacrificale fino ad allora negata, e che poteva essere offerta solo allo spettatore del teatro – quel rito di Dioniso che proprio negli anni di Eraclito iniziava a prender forma sotto il sole ambiguo della polis, tagliando (almeno in apparenza) il cordone ombelicale dei mysteria.

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Anche Omero aveva cercato di risolvere l’enigma dei ragazzi con l’impazienza dell’atleta che scatta prima del segnale. Quei ragazzi, quei paides, erano gli dèi: e il loro griphos non era uno scrigno in cui si nascondeva una parola, un oggetto – ma una lama che il vecchio poeta avrebbe potuto volgere ad arma del suo trionfo solo usandola contro di sé. Scrisse Eraclito, in uno dei passi del suo poema dedicato alla lunare cacciatrice, Artemide l’Orsa, la sdegnosa [5]:

« Gli uomini si ingannano, relativamente alla conoscenza delle cose manifeste, in modo simile a Omero, che venne ad essere il più sapiente di tutti gli Elleni. Infatti lo ingannarono dei ragazzi che uccidevano pidocchi, dicendo: “Le cose che abbiamo visto e preso, le lasciamo andare; le cose che non abbiamo né visto né preso, le portiamo. » (fr. DK B 56).

L’enigma dei paides, di quei paides che giocano il gioco ordinato e incomprensibile dell’aion, del tempo ciclico [6], riguardava sì i pidocchi (phtheirai), ma come immagine di altro: «le cose che abbiamo visto e preso», i molteplici oggetti della nostra percezione, esperienza, conoscenza – le lasciamo andare, le perdiamo; sono relative ad un soggetto, una volta sperimentate fuggono, sfuggono, scompaiono; «le cose che non abbiamo né visto né preso», il soggetto stesso che ha conosciuto – e lasciato andare – le prime (ed è un soggetto plurale, se è quello vero, perché è tutti i soggetti, tutti i conoscitori), lo portiamo in noi, su di noi.

Non possiamo conoscere il conoscitore: solo “portarlo”, e manifestarlo nella conoscenza di ciò che sfugge indefinitamente – nel gesto, da gerere, portare, della conoscenza come manifestazione, come aurora eterna.

Il duro sapiente artemideo della Ionia, nella sua cella che non era né la cripta di un mysterion né la piazza della polis, scrisse (per tutti e per nessuno) che così, «in modo simile a Omero», fanno tutti gli uomini: Omero, che «venne ad essere il più sapiente degli Elleni», era ignorante come l’everyman, quanto all’essenziale; e l’everyman, l’uomo in quanto uomo, l’uomo ordinario, il “mortale”, ne sa quanto Omero. Omero era un cieco che guidava altri ciechi: il maestro dei non-iniziati, degli uomini intrappolati nelle loro passioni, nella loro insipienza.

Se Omero avesse sentito il gabbo perfido e gentile dei giovanissimi pescatori, il tragicomico della sua morte (la sconfitta in una sfida sapienziale, a base di pidocchi, lanciata da ragazzetti ignoranti) sarebbe divenuto il tragicomico di una morte-in-vita, di una gnosis che l’avrebbe reso davvero, come indica la tradizione (che Eraclito contestava), cieco perché veggente, e viceversa: avrebbe riso e gridato, perché ciò che conosciamo, non lo siamo, e ciò che siamo, non lo conosciamo. Ma perché non possiamo conoscerlo, non perché potremmo conoscerlo: non c’è un indovinello da sciogliere, c’è un mondo intero da dissolvere, da confutare, riconducendolo alla sua scaturigine, ricreandolo da ciò che portiamo e non vediamo né afferriamo.

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I pescatori hanno allestito la scena con la sagacia consueta agli dèi iniziatori: i pidocchi, i parassiti, sono phtheirai, da phtheiro, distruggere-corrompere; i principi divini, i conoscitori, nascosti in noi, ci consumano, ci succhiano il sangue: l’illimitato perdersi-dileguare delle cose conosciute trova un punto di equilibrio, una scaturigine, un limite, nell’inconoscibile conoscitore che portiamo in/su di noi. Iniziato è chi salda questo ciclo, chi unisce la vita e la morte, il dileguare e il permanere, il conosciuto e il conoscente. Omero non è stato in grado di farlo, ed è morto secondo la lettera, invece che secondo lo spirito.

Il saettatore, lo sciamano iperboreo, Apollo, aveva detto all’aedo che Ios era la patria di sua madre: ma che doveva guardarsi dall’enigma dei ragazzi. Ritornare nella patria è sempre morire, letteralmente, spiritualmente, o entrambe le cose: la forma di quella morte era un enigma. Com’è giusto, trattandosi di un sapiente, di un sophòs. Tuttavia, è lecito un sospetto, che forse arrise ad Eraclito: forse quello che ci appare il suo sdegno, la sua biliosa austerità, era spesso un sorriso da kouros arcaico, non un ghigno da senex pessimista moderno.

Omero aveva consegnato al tempo degli uomini il kleos, la memoria sonora e fantastica, del tempo degli eroi: aveva plasmato una cultura sulle rovine fumanti di una guerra infame, i cui contendenti sembravano avvolti dallo sguardo amplissimo della morte, che pareggia, concilia, distilla tristezza e luce di crepuscolo. Tutto era compimento e presagio, fraternità profonda e destino aristocratico: e lui stesso, l’Ostaggio, forse sapeva che le ceneri di Troia avevano già ceduto l’embrione della Fenice, del vinto invincibile, dell’oro alchemico di due età – Roma.

Dopo questa impresa, Omero doveva morire – ovvero essere iniziato ad una saggezza più alta: la saggezza che distrugge e riassorbe lo spettacolo del tempo nella tenebra lucente del Cuore, nella veggenza cieca che vede l’uno nei molti e i molti nell’uno; la sophia che sa ridere e fremere davanti ai cercatori di pidocchi.

Lawrence Alma-Tadema, “A Reading from Homer” (1885)
Lawrence Alma-Tadema, “A Reading from Homer”, 1885.

Note:

[1] Nan Yar? (Cfr Ramana Maharshi, Be As You Are. The Teachings of Shri Ramana Maharshi, ed. D. Godman, Penguin, 1985).

[2] Cfr A. K. Coomaraswamy, Spiritual Paternity and the Puppet Complex, in “Psychiatry”, VIII, 1945, rist. in A. K. Coomaraswamy, The Bugbear of Literacy, 1947.

[3] Ps. Plutarchus, De vita et poesi Homeri IV

[4] DK B 93: «Il Signore, il cui oracolo è a Delfi, non dice (leghei) né nasconde (kryptei), ma fa segni (sēmainei)». La parola oracolare apollinea, dunque, non è un logos (leghei), un riflesso lunare come quello di Artemide (di Eraclito?), né la sua assenza, ma un tertium in quanto sēma, un “segno” come il corpo orfico-platonico. La parola apollinea è un mutus liber, è geroglifica, è un corpo che si mostra. Il segno si “porta” (verbo pherein nel frammento sull’enigma dei pidocchi), geritur.

[5] Diogene Laerzio (Vitae Philosophorum IX. 1.) dice che Eraclito si ritirava (anachōrēsas) nell’Artemision e giocava agli astragali coi ragazzi (ancora loro!); informa inoltre che vi depositò (anethēke, “dedicò-consacrò”) il suo ‘libro’. Secondo Teofrasto la scrittura aforistica sarebbe legata al temperamento melanconico dell’autore.

[6] Il più famoso dei lampeggiamenti eraclitei: DK B, «Il ciclo [aiōn, l’eternità dispiegata come totalità del tempo] è un fanciullo che gioca [pais paizōn, cioè che si comporta come un fanciullo] a scacchi [pesseuōn: il gioco oracolare per eccellenza]: la reggenza sacerdotale [quella del basileus era una magistratura di tipo sacerdotale: Eraclito stesso lo fu, per motivi di ghenos] di un fanciullo».   


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