Devozione: il tramonto degli idoli e il sentiero del Waldgänger

Il mondo senza dèi vide la nascita dell’uomo. Sul desolato campo di battaglia si alzò il vincitore stupefatto e si stampò in faccia un ingenuo ghigno trionfante: la guerra era forse vinta, gli odiati nemici sconfitti, l’uomo poteva finalmente uscire dalla sua tana e marciare sulla terra e sulle altre creature. Quale gioia per i popoli, ma quale tragedia per il mondo! Oggigiorno, al “Muro del Tempo” e al bivio della Storia, infranto l’ordine che con troppa leggerezza abbiamo dato per scontato, ci prepariamo a costruire nuovi paradigmi per il mondo che verrà.


di Lorenzo Toro
copertina: Adolf Kosárek, “Mountain Landscape in the Storm”

Sul grigio presepe del nostro mondo svettano ciminiere, megalopoli, elettrodotti. Sull’antica fertilità osannata dai poeti di tutte le epoche è sceso un tetro velo luttuoso, sintomo di malattia. Dallo scenario desolante di un mondo dissanguato dalla vita si alza un fetore funereo, che annuncia la necessità di porsi nuovi problemi e di cercare nuove soluzioni. L’uomo contemporaneo trova la sua croce lì dove smarrisce se stesso, e davanti a sé vede coincidere e fondersi in un’unica via il sentiero della sua salvezza e quello della sua missione: all’illusione subentra la tragedia, alla tragedia la consapevolezza ed alla consapevolezza, in giorni migliori, la redenzione.

L’antropocene è intimamente legato alla desolazione, probabilmente molto più di quanto in precedenza qualsiasi epoca geologica non lo sia stata col paesaggio di essa caratteristico, e questo fenomeno ci appare in tutta la sua chiarezza nel momento in cui ci spingiamo a considerare la rapidità delle trasformazioni avvenute successivamente alla rivoluzione industriale o l’inquietante omogeneità dei paesaggi che ricoprono l’intera superficie terrestre. Noi, le privilegiate vittime di questo carnefice planetario, nel momento in cui acquisiamo una consapevolezza adeguata della nostra condizione ci rileghiamo nel ruolo senza tempo del viandante medievale, del germanico Waldgänger jüngeriano, del “ramingo” tolkieniano: in bilico tra sopravvivenza e crociata, il privilegio concessoci dalla Storia è quello di trovarci in una fase del nostro sviluppo dove la nebbia, per chi si dimostra in grado di volgere lo sguardo verso l’alto, si dirada e il male che ci affligge ci appare nitidamente davanti, prendendo le fattezze di un avversario affamato ed insaziabile.

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Carlos Palma Cruchaga

L’impagabile pregio delle epoche di crisi risiede, infatti, nel dare alle coscienze la possibilità di una scelta assoluta, nel concederci di scorgere sempre più lucidamente spiragli di un mondo autentico che, in quanto tale, si mostra ai nostri occhi mortali come un campo di battaglia, dove la decisione del singolo come della comunità ha carattere inequivocabile ed effetti determinanti. La nostra è, quindi, un’era della Scelta. Sul ciglio del baratro viene meno anche l’illusoria convinzione di potersi sottrarre al proprio ruolo, al suono del corno da guerra. Dove c’è crisi, disillusione e paura crescono probabilmente, in un primo momento, anche più coraggio e consapevolezza; tuttavia saranno in ben pochi, se saranno, a non avvertire il pericolo nell’aria pestilenziale.

All’individuazione della risposta alla domanda definitiva bisogna però provvedere con un metodo adeguato, la cui ricerca non può che passare per un attento scandagliamento della storia del pensiero e, quindi, della civiltà che con esso nasce. Quale panorama ci appare davanti? La nostra scienza si è presa la briga, negli ultimi secoli, di imbastire un raffinato apparato concettuale fondato su razionalità, causalità ed utilitarismo. In un mondo in cui cresceva il bisogno di far circolare merci e conoscenze, la rivoluzione scientifica si affacciò sulle città come il raggio luminoso di un sole provvidenziale. La macchina del progresso, nutrendosi di spazi e materia, si mise in moto, accelerando lo sviluppo della singolarità umana fino ad un radioso futuro di innovazione ed oblio: da Galileo alle intelligenze artificiali il passo fu probabilmente breve, e lo scarto fra le due tappe dello sviluppo di natura esclusivamente quantitativa.

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Maksymilian Novak-Zemplinsk, “Spatium”, 2005

Ora, nel momento della crisi, le civiltà danno di loro stesse e del mondo narrazioni e rappresentazioni diverse e sempre dipendenti dalla natura dell’ideologia dominante: come si riflette questo fenomeno, l’atrofizzarsi della cultura umana in un presuntuoso groviglio di circuiti calcolanti, sulla percezione diffusa della crisi? E, più nel particolare, quali conseguenze si riversano nella concezione che l’uomo ha dell’ecosistema e dei suoi disequilibri, dell’ecologia e degli ecologismi (che altro non sono che le “scienze della crisi”)?

È più che evidente che l’apparato teorico con cui la nostra cultura si è ritrovata ad affrontare l’arrivo sulla soglia del baratro si è dimostrato ampiamente inadeguato: all’avvicinarsi di orizzonti sempre più oscuri il genere umano rivela la sua totale incapacità di porre in discussione i fondamenti della propria civiltà, radicati saldamente in un terreno umido di antropocentrismo e suprematismo. Il collasso giunge quindi alle porte di una città nel caos, incapace di prendere decisioni e scelte, che alla minaccia di un assedio reagisce con l’opulenza e lo spreco di risorse. Bisogna quindi, per non arrendersi alla ricerca di un punto cieco nello schieramento che ci consenta la fuga, forgiare nuove armi e reagire con nuovo vigore all’offesa. La prospettiva che ci si dischiude impone di considerare nuove vie e tentare nuovi approcci: perde del tutto di senso ogni tentativo di riforma del mondo che segua percorsi parziali ed ottimisti, e che legga il futuro della specie e del mondo intero in uno scenario non dissimile da quello del pianeta civilizzato e sottomesso.

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Guillaume Van der Hecht, “Ruins of the Castle of Kenilworth”, 1851

Purtroppo, ogni ecologia (ossia, nell’epoca che viviamo, ogni scienza del rimedio e della possibilità di vie d’uscita dalla crisi) che parte da presupposti “umani”, antropocentrici e “conservazionisti”, trova il suo destino nel dramma del naufragio: gli eventi recenti, che di certo non lasciano ben sperare, mettono in risalto come ogni forma di cura prestata nei confronti del mondo e dell’ecosistema che si basi sul bilanciamento degli interessi, che si ponga nei termini di “convenienza” e “compromesso” e che inserisca quindi nell’equazione del proprio rapporto con la Natura appassita e morente una variabile ulteriore (quella della preservazione della civilizzazione umana così com’è oggi) non possa che scontrarsi dolorosamente con la realtà, vedendo strappatasi di dosso il sottile velo d’apparenza che le impediva di essere riconosciuta come l’intelligente costruzione di una determinata categoria di persone nell’atto della tutela dei propri interessi.

Cosa, quindi, si manifesta come essenziale in un periodo come questo, segnato intimamente da crolli, decadenza e tragedia? È facile intuire come, a bordo di una nave che segue una direzione suicida, non resti che un’immediata variazione di rotta; le coscienze si ritrovano non davanti ad un bivio, bensì al cospetto di un tornante, in una galleria buia: in questione non è la direzione da prendere, quanto piuttosto la nostra capacità di deviare prima dell’impatto con la parete del tunnel.

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Hermann Herzog, “St. John the Evangelist Episcopal Church, Dingmans Ferry”, 1888

Se l’assetto della civiltà umana deve cambiare, se a trasfigurare deve essere il paradigma alla base del nostro modo di essere e di pensare, all’altare della Storia devono venire sacrificati quei presupposti teorici, pratici, culturali e psicologici che hanno condotto l’uomo alla perdizione ed alla conseguente distruzione del mondo. Si tratta né più né meno che di una deviazione: vecchie strade vengono abbandonate ed antichi sentieri nascosti dall’incuria, ai margini del selciato, vengono nuovamente riscoperti, tra il fiume rumoroso e la gelida foresta.

Viene meno, per la nostra e l’altrui sopravvivenza, la possibilità di salvare la civiltà dell’utile, della merce, del mezzo, dell’uomo padrone di tutto ciò su cui è in grado di estendersi il suo sguardo; sorge invece, dietro quegli orizzonti che ci sono familiari, una misteriosa stella d’argento, la promessa della fine e della rinascita: il nuovo mondo ci viene promesso infatti come oggetto di una profezia, come dono divino, a suggellamento di un patto. Alle belle considerazioni, ai compromessi e agli interessi dovremmo forse, quindi, sostituire una nuova forma di relazione con la natura minacciata dal collasso, la nostra casa in fiamme: questo nuovo rapporto potrebbe prendere le sembianze di un patto, e il nostro atteggiamento personale in tutto questo mutare forma e sostanza fino a rigenerarsi e a riconfigurarsi come una forma di devozione, di profondissimo e solidissimo abbandono ad un’idea, ad un qualcosa infinitamente ed incomprensibilmente più grande di noi.

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Jenna Kass, “Devotional”, 2013

Devozione è probabilmente il termine chiave per esprimere la variazione di rotta precedentemente prospettata, così come la nuova configurazione etica/culturale/spirituale da ricercarsi per poter resistere all’onda anomala di quel declino epocale del quale la catastrofe ecologica è l’espressione più evidente. È ad una divinità che dobbiamo protezione incondizionata e sacra gratitudine, e la Natura è divinità nel senso più concreto in quanto insieme di ogni possibilità, di ogni potenzialità dell’esistente. Davanti ad essa sfumano, fino a scomparire, i calcoli, le considerazioni, gli interessi, tutto quel groviglio di seducenti menzogne che avvolge la limpida verità che i nostri occhi ancora bambini sono impossibilitati a riconoscere: il nostro pianeta è in pericolo, la nostra terra e tutte le terre del mondo sono minacciate.

L’inadeguatezza del pensiero ad oggi dominante, il quale ci convince che la salvaguardia del nostro mondo e dell’ordine da esso rappresentato siano scelte da soppesare, da mediare, da considerare in un’equazione più ampia che porti sul tavolo altri fattori contraddittori (lo sviluppo, il progresso, il benessere), si manifesta spavaldamente a chi si rende capace di comprendere, e lo fa in tutte le diverse sfaccettature del prisma della società umana. La via che si apre (o, meglio, il sentiero che si rivela) è, dunque, quella dell’adesione incondizionata, dell’univocità, della missione; al di là di ogni argomento politico, di ogni considerazione mondana (e ben al di sopra di essi, ad una distanza incalcolabile da qualsiasi sistema di pensiero che abbia tra i propri strumenti la bilancia ed il peso, gli arnesi del mercante), si trova la dedizione cieca, la consapevolezza pre-razionale che il bene esiste e che il nostro insindacabile dovere consiste nel difenderlo.

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Ludwig Dettmann, “Near the Water Lilies in the Marsh”

Ogni devastazione trae forza, infatti, dal temporeggiamento, dalla discordia, dalla necessità di mediazioni e giustificazioni esterne, indebolendo il fronte avversario e facendo breccia nelle mura della natura incolume grazie alla forza del potere politico e, ovviamente, economico: chi, invece, potrà sindacare su di una scelta così decisa, radicalissima quanto ingiustificabile? Chi potrà opporsi ad un “sì” senza “perché”, un “sì” che trae la sua forza da antichissimi archetipi e da forze, quelle “naturali”, extra-storiche ed eterne? Chi avrebbe il coraggio di mettere bocca sull’amore di un uomo per i propri genitori o per i propri figli, o di un individuo qualsiasi per la sua terra? È in una dimensione diversa (quella del “tempio”, piuttosto che quella del “mercato” in cui ci troviamo ora) che vanno cercati i presupposti per una nuova ecologia, per un’ecologia devota e devozionale.

La missione e la dedizione, così come la cura e l’amore, non sono elementi del tutto estranei alla nostra esperienza storica. Sull’altopiano della nostra memoria spuntano rompendo il gelo i fiori senza tempo del nostro passato, le immagini del culto di coloro che ci hanno preceduto: nel momento dello sconforto la speranza è nella possibilità di comprendere il rapporto radicalmente diverso dei nostri progenitori con il mondo circostante, l’innata capacità di comprendersi come parte di un ordine immutabile, l’ossequioso rispetto per il suo equilibrio.

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Jules Bastien-Lepage, “The Grape Harvest, 1880

Non fraintendiamoci, non è di certo questa la sede per una legittimazione dell’ordine costituito o dei rapporti di forza esistenti (tutto il contrario, piuttosto)! Dovremmo tentare di lasciare da parte i simboli esteriori del culto dei nostri antenati (la croce, i santi, le madonne, i signori, per intenderci), al fine di concentrare tutta la nostra attenzione sulla nuda natura dell’evento, sull’atto stesso dell’adorazione, del rispetto, sull’immagine degli occhi lucidi del contadino analfabeta sconvolto e tormentato dallo stupor mundi.

Per cosa sacrificare la nostra anima? C’è qualcosa per la quale ne valga la pena, e che allo stesso tempo richieda un tale martirio? La risposta ad un quesito del genere dovrebbe assediare le menti di tutti gli uomini che attraversano tempi bui come questi. Per la salvezza di noi stessi e dei templi sui quali si regge il mondo alcuni idoli devono crollare, permettendo al sole che sorgerà domani di vedere davanti a sé un mondo restaurato: nessuno dovrà averne paura, nonostante le promesse di catastrofe, poiché al tramonto degli idoli muoiono civiltà intere, ma montagne ed alberi rinascono ogni giorno.

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Johan Christian Dahl, “Norwegian Landscape with a Rainbow”

È un cambio di paradigma ciò di cui l’avvenire ha bisogno: i tumulti interni alla storia in corso, generati dall’insostenibilità della civiltà moderna, si manifestano in tutti i livelli della nostra esistenza, dalla crisi di identità personale alla politica. Siamo minacciati fin nella segretezza del nostro spazio intimo, e a risentirne sono i nostri sentimenti, le nostre emozioni e le nostre speranze turbate e corrotte: il dramma è, con ogni probabilità, da rintracciarsi nel momento in cui l’antica gioia della vita si atrofizza, decomponendosi in tante piccole gioie nella vita.

È bene, però, ricordare come la speranza, nella sua irriducibile semplicità, ci circondi: ad occhio attento ed umile, spogliato dalla tracotanza caratteristica dell’uomo del progresso, non sfuggiranno le promesse di gioia sussurrate tra gole strettissime e gorgoglii di torrenti, tra immense vette di roccia nuda e fresche gemme primaverili.

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Charlotta Piepenhagenová, “Horské Jezírko”

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