Per quanto ne dicano alcuni “critici della domenica”, al presunto odio razziale Lovecraft sempre antepose l’orrore visceralmente provato in prima persona nei confronti dell’avvento del mondo moderno, l’impero delle macchine e della spersonalizzazione totale, in cui ogni individuo e le sue visioni più alte sono fagocitate e inserite in un quadro cosmico di tragedia universale, priva di alcuno sbocco superiore. E New York fu, ovviamente, innalzata a immagine della Nuova Babele, che fagocita le antiche tradizioni e le differenziazioni umane in un continuo, abietto rituale di spersonalizzazione, standardizzazione e disumanizzazione collettiva.
Il mondo senza dèi vide la nascita dell’uomo. Sul desolato campo di battaglia si alzò il vincitore stupefatto e si stampò in faccia un ingenuo ghigno trionfante: la guerra era forse vinta, gli odiati nemici sconfitti, l’uomo poteva finalmente uscire dalla sua tana e marciare sulla terra e sulle altre creature. Quale gioia per i popoli, ma quale tragedia per il mondo! Oggigiorno, al “Muro del Tempo” e al bivio della Storia, infranto l’ordine che con troppa leggerezza abbiamo dato per scontato, ci prepariamo a costruire nuovi paradigmi per il mondo che verrà.
L’universo di Villiers è ghiacciato e delirante, più ancora di quello di Sade: è un mondo ossessionato da fantasmi gotici ma modernizzati, attraversato da fulminanti capricci di stile. Definito da Verlaine «un poète absolu», venerato da Mallarmé e posto da Baudelaire allo stesso livello di Poe, Auguste de Villiers de l’Isle-Adam fu uno dei personaggi più iconici del decadentismo francese e del XIX secolo tutto.
Come il visionario regista di Toronto ha saputo cogliere e (far) visualizzare nelle sue pellicole gli elementi più oscuri e “titanici” dell’era post-moderna