Sulla concezione tradizionale dell’arte figurativa e sulla sua funzione sacrale

Come affermato da storici delle religioni come Coomaraswamy, Zimmer, Eliade e da esoteristi come GuΓ©non ed Evola, nelle societΓ  tradizionali ad ogni arte o scienza profana Γ¨ sempre corrisposta una β€œscienza sacra”, la quale aveva Β«un carattere organico-qualitativo e considerante la natura come un tutto, in una gerarchia di gradi di realtΓ  e di forme di esperienza, delle quali forme quella legata ai sensi fisici non Γ¨ che una particolareΒ». Esempi di questa concezione dell’arte si possono rinvenire nei bassorilievi dei tempi induisti, ma anche nelle rappresentazioni rupestri risalenti all’epoca dei Cromagnon.


di Marco Maculotti
originariamente pubblicato sul Daily Alchemist Magazine
copertina: bassorilievi di Māmallapuram, India

Fu Julius Evola a rilevare come anticamente, fin dall’epoca dei Cromagnon, l’arte figurativa fosse sempre stata caratterizzata dall’«inseparabilitΓ  dell’elemento naturalistico da una intenzione magicosimbolicaΒ» [1].Β Prendendo le fila da questa osservazione, vi Γ¨ subito da notare come nel mondo tradizionale l’arte non fu mai considerata fine a se stessa nΓ© fondata unicamente su concetti meramente esteriori quali bellezza o piacevolezza: al contrario, si puΓ² affermare che il fine principale dell’arte figurativa antica β€” come ad es. nel caso delle pitture rupestri rappresentanti scene di caccia β€” fu sempre di carattere magico-apotropaico.

In altri termini, tradizionalmente la raffigurazione pittorica ebbe lo scopo di concentrare l’attenzione β€œmagica” dei membri della societΓ  tribale, ad es. sulla preda che veniva dipinta. Questa convergenza di attenzione e volontΓ  da parte di tutti i consociati avrebbe condotto al risultato sperato, e veicolato dalla pittura: la cattura della selvaggina. Sempre Evola fa notare come [2]

Β«le arti antiche […] erano tradizionalmente β€œsacre” a particolari numi o eroi, sempre per ragioni analogiche, tanto da presentarsi come contenenti potenzialmente la possibilitΓ  di realizzare β€œritualmente”, cioΓ¨ nel valore di simbolo di una azione o significato trascendente, la varietΓ  dell’azione materialeΒ».

rivolta

E ciΓ² non vale solo per quanto riguarda la pittura: nell’esempio dei Cromagnon a cui abbiamo accennato, una funzione importantissima ebbe anche la danza rituale. Una visione per cosΓ¬ dire complementare del sacro e del profano β€” per come siamo soliti intenderli noi uomini moderni β€” sopravvisse a lungo: ancora in epoca classica, Luciano riferisce che i danzatori avevano conoscenza dei β€œsacri misteri”, ragion per cui non di rado venivano assimilati a dei sacerdoti.

Si deve dunque sottolineare come, nelle societΓ  tradizionali (e con ciΓ² intendiamo comprendere una fascia temporale della durata di diverse decine di millenni) ad ogni arte o scienza profana Γ¨ sempre corrisposta una β€œscienza sacra”, la quale aveva, per dirlo con Evola Β«un carattere organico-qualitativo e considerante la natura come un tutto, in una gerarchia di gradi di realtΓ  e di forme di esperienza, delle quali forme quella legata ai sensi fisici non Γ¨ che una particolareΒ» [3].

In questo senso Ananda K. Coomaraswamy potΓ© affermare che Β«religione e arte sono quindi nomi diversi per una stessa esperienza: un’intuizione della realtΓ  e dell’identità» [4]. Identificandosi con le figure non solo antropomorfe della pittura rupestre, ma altresΓ¬ anche e soprattutto con le rappresentazioni della preda (una renna, per esempio) i cacciatori Cromagnon si assicuravano il buon esito della spedizione: in tale operazione magico-apotropaica era essenziale l’identificazione con la situazione stessa, e quindi con tutti i fattori da cui ne sarebbe dipeso l’esito β€” i cacciatori cosΓ¬ come la preda.

032967e06c5b4e191fa1faa965405053_w600_h_mw_mh_cs_cx_cy

Si pensi anche alle prime forme mediterranee delle arti teatrali: da una parte esse avevano relazione con un antichissimo complesso di cerimoniali volti ad ottenere e a garantire la fertilitΓ  del mondo naturale (si puΓ² pensare a questo riguardo ai rituali del tipo dei Lupercalia, i quali dietro l’aspetto esteriore di pantomime veicolavano una funzione magica ben poco dissimile da quella che sottintendevano le danze e le pitture dei Cromagnon); dall’altra, se sfociarono nei β€œdrammi sacri” del tipo della tragedia (da τραγῳδία, lett. β€œcanto del capro”), la ragione con tutta probabilitΓ  Γ¨ da ricercarsi nelle loro origini.

LEGGI ANCHEΒ  Kawah Ijen: Inferno & Paradiso

Noi riteniamo infatti che il substrato da cui nacque l’ars teatrale mediterranea vada ricercato nell’ambito del Sacro, e segnatamente nelle iniziazioni e nelle adunate delle confraternite misteriche del mondo antico β€” quali le Dionisie e le Tesmoforie β€” oltre che nelle β€œmascherate” di fine anno e in altre ricorrenze tradizionali del calendario cosmico-agrario.

Lo stesso esoterista francese RenΓ© GuΓ©non ebbe modo di affermare che [5]

Β«tutte le arti alla loro origine sono essenzialmente simboliche e rituali, ed Γ¨ soltanto a causa di una degenerazione posteriore, in realtΓ  molto recente, che esse perdono questo loro carattere sacro per diventare alla fine il β€œgioco” puramente profano a cui si riducono presso i nostri contemporaneiΒ».

3d969fae0f65296ff05abcd3c17fb043_w_h_mw600_mh900_cs_cx_cy

⁂ ⁂ ⁂

Una visione sacrale dell’arte figurativa si trova forse ai suoi livelli piΓΉ elevati nell’India antica. A riguardo, sono centrali gli studi del giΓ  menzionato Coomaraswamy, per il quale il solo elemento essenziale dell’arte, nella concezione tradizionale indΓΉ, deve rintracciarsi in ciΓ² che gli indiani denominano rasa (β€œsapore”) [6].

Da questo termine deriva l’aggettivo rasavat (β€œdotato di rasa”), che si dice di quelle opere d’arte (figurative, poetiche, ecc.) che si ritengono in grado di suscitare una sensazione di contemplazione estatica che conduce a una sorta di partecipazione e comprensione istantanea da parte dell’osservatore: rāsāsvādava (β€œassaporamento del rasa”). Colui che di fronte ad un’opera d’arte sia in grado di connettersi con il suo significato piΓΉ intimo e trascendente viene detto rasika, vale a dire β€œcolui che gode del rasa”. CosΓ¬ scrive lo studioso anglo-cingalese [7]:

Β«L’assaporamento del rasa β€” la visione della bellezza β€” Γ¨ qualcosa che viene goduto, dice ViΕ›vanātha, β€œsoltanto da coloro che ne hanno la competenza”: e cita Dharmadatta, secondo cui β€œnel teatro coloro che sono privi di immaginazione sono come gli oggetti di legno, i muri e le pietre”».

Una definizione illuminante di cosa sia con esattezza il rasa ci viene data da ViΕ›vanātha nel Sāhitya Darpana: la natura di questa esperienza

«è pura, indivisibile, manifesta da sΓ©, composta in parti uguali di gioia e consapevolezza, libera dalla mescolanza con qualunque altra percezione, sorella gemella dell’esperienza mistica, e la sua stessa vita Γ¨ la meraviglia sovrasensibileΒ».

DanzaCosmica
Shiva Nataraja

Si tenga conto, come precisa Coomaraswamy, che nel pensiero induista la meraviglia Γ¨ definita come Β«una sorta di espansione della mente nellβ€™β€œammirazione”» [8]. Si tratta dunque di una concezione per cosΓ¬ dire elitaria della fruizione artistica: ancora piΓΉ che l’autore della medesima, il quale come sottolinea Coomaraswamy «è assorbito dal suo temaΒ» [9], centrale e fondamentale nell’esperienza della fruizione artistica Γ¨ il ruolo dell’osservatore, che si presenta in questo senso come vera e propria parte attiva dell’esperienza artistica. Difatti, continua l’Autore, l’elaborazione tecnica, il realismo e persino la bellezza in sΓ© non sono cause determinanti del rasa, essendo piuttosto determinante lo stato ricettivo del devoto osservatore [10].

A riprova di ciΓ², egli cita la massima di Śukrācārya secondo cui Β«le imperfezioni delle immagini vengono costantemente distrutte dal potere della virtΓΉ del devoto che ha il suo cuore sempre rivolto a DioΒ», vale a dire dalla sua capacitΓ  di assaporare il rasa, di connettersi ai livelli piΓΉ elevati e impersonali della creazione artistica. La bellezza non esiste senza la percezione: e tuttavia, secondo Coomaraswamy, Β«essa Γ¨ atemporale e, inoltre, sovrasensibile e trascendente la fisica, e la sola prova della sua realtΓ  va cercata nell’esperienzaΒ» [11]. Le parole dello studioso anglo-cingalese sono illuminanti anche per quanto riguarda la questione della predominanza dell’opera d’arte, vista come β€œveicolo” verso il rāsāsvādava, sull’artista stesso [12]:

Β«L’artista tradizionale si dedica in modo incondizionato al bene dell’opera. Il suo fare Γ¨ un rito, il cui celebrante esprime se stesso in maniera nΓ© intenzionale nΓ© consapevole. Le opere dell’arte tradizionale, cristiana, orientale o popolare non sono quasi mai contrassegnate da accidenti temporali ma prodotte in armonia con una concezione dominante del significato della vita, il cui obiettivo Γ¨ ben espresso nell’affermazione di San Paolo, β€œvivo autem iam non ego”; l’artista Γ¨ anonimo, e anche quando il suo nome Γ¨ registrato, ignoriamo quasi tutto dell’uomo. CiΓ² vale per le opere letterarie come di arte plastica. Nelle arti tradizionali la domanda che conta non Γ¨ mai: β€œChi ha detto?”, ma solo: β€œChe cosa Γ¨ stato detto?”, poichΓ© β€œtutto ciΓ² che Γ¨ vero, da chiunque sia stato detto, origina nello Spirito”».

887d2050afb1d38dc27c1a59576d30ad_w600_h_mw_mh_cs_cx_cy

⁂ ⁂ ⁂

LEGGI ANCHE  Dioniso allo specchio: la maschera, il Daimon e la metafisica dell'«altro-da-sé»

Per comprendere meglio lo β€œspirito” dell’arte figurativa indiana puΓ² essere utile consultare Miti e simboli dell’India dell’orientalista tedesco Heinrich Zimmer, testo che fornisce un’interpretazione e una visione generale dei principali miti e dΓ¨i del pantheon induista, con un occhio di riguardo alla dimensione artistica β€” complice un vasto appendice di fotografie e illustrazioni. CosΓ¬, ad es., il bassorilievo raffigurante Indra re degli dΓ¨i, assiso sul gigantesco elefante Airāvata, localizzato in una grotta-monastero buddhista del II secolo a.C. presso Bhājā, fornisce a Zimmer l’occasione di esporre la rappresentazione della concezione induista della Māyā nell’arte figurativa [13]:

Β«Le figure emergono dalla roccia e ne ricoprono la superficie in sottili strati ondulati, simili a increspature di una sostanza nebulosa, cosicchΓ©, sebbene scolpite nella roccia viva, danno l’impressione di una sorta di miraggio. La sostanza della pietra sembra aver assunto i contorni vagamente evanescenti di un’emanazione. È come se la roccia anonima, informe e indifferenziata fosse in procinto di trasformarsi in forme individualizzate e animate. L’idea fondamentale della māyā si trova cosΓ¬ riflessa in questo stile. Esso rappresenta l’apparire di forme viventi da un’informe sostanza originaria; illustra il carattere fenomenico, simile a un miraggio, di ogni esistenza, terrena o divinaΒ».

La medesima tecnica figurativa si puΓ² ritrovare nel bassorilievo, eseguito direttamente nella nuda roccia presso Māmallapuram, raffigurante la β€œdiscesa celeste del Gange”, datato all’inizio del VII secolo d.C. Le figure, sebbene differenziate e caratterizzate, non sono definite nei minimi particolari, bensΓ¬ appaiono piuttosto come proveniente da un’unica fonte, il Gange celeste appunto, immagine della perenne (fonte di) creazione divina, da cui traggono vita e forma. Rileva Zimmer [14]:

Β«Trascurando i tratti e i dettagli minuti, quest’opera d’arte mira a rendere gli atteggiamenti, i movimenti tipici o le posizioni di riposo degli esseri che raffigura. Insiste sull’affinitΓ  fondamentale di tutte le creature. Tutte hanno origine da quell’unico serbatoio di vita e vengono tenute in vita sui loro diversi piani, celesti o terreni, da quell’unica energia vitale. Questa Γ¨ un’arte ispirata dalla visione monistica della vita che appare ovunque nella filosofia e nel mito indΓΉ. Ogni cosa Γ¨ viva. L’intero universo Γ¨ vivo: variano solo i gradi della vita. Ogni cosa procede dalla divina sostanza-e-energia-vitale come una trasformazione temporanea. Tutto fa parte dello spiegamento universale della māyā di DioΒ».

a69de769880f61f0137be29b1e73bfef
Indra sull’elefante Airavata nella grotta-monastero di Bhājā (II sec. d.C)

⁂ ⁂ ⁂

Dopo aver speso molte parole sull’opera d’arte in sΓ© e sul ruolo dell’osservatore, sarΓ  bene ora dire qualcosa anche sul ruolo tradizionale dell’artista. Si potrebbe cominciare col dire che colui il quale, mediante il suo lavoro, sia in grado di conferire un significato superiore alla materia Γ¨ paragonabile all’eroe che si addentra nel mondo infero, β€œfondo originario” jΓΌngeriano di tutte le cose: la β€œfonte del Gange celeste”.

Come un novello Orfeo, l’artista compie una catabasi dentro i recessi della sua coscienza, per risalire poi trasformato, in seguito a una rivelazione che egli tenterΓ  di rappresentare in modo figurativo. La trasformazione della materia che ne consegue sarΓ  β€” appunto β€” solo una conseguenza della sua esperienza primaria, ma fungerΓ  anche da veicolo attraverso il quale altri potranno sperimentare la medesima esperienza sacrale. In questo senso Mircea Eliade rilevΓ² come [15]

Β«l’artista non si comporta in maniera passiva nei riguardi del Cosmo nΓ© verso l’inconscio. Senza dircelo, forse senza saperlo, l’artista penetra, talvolta pericolosamente, nelle profonditΓ  del mondo e della propria psiche […] assistiamo a uno sforzo disperato dell’artista per liberarsi della β€œsuperficie” delle cose e penetrare nella materia allo scopo di svelarne le strutture ultime. Abolire le forme e i volumi, discendere all’interno della sostanza, svelarne le modalitΓ  segrete o larvali non sono, per l’artista, delle operazioni intraprese in vista di una conoscenza obiettiva, ma delle avventure provocate dal suo desiderio di cogliere il senso profondo del suo universo plasticoΒ».

18308645_10211793488206181_1027660283_n
Shiva dal triplice volto, grotte di Elephanta

Da questa prospettiva, si potrebbe affermare che l’artista che sappia compiere questa descensus ad infera oltre che ad un novello Orfeo sia anche paragonabile a un alchimista, ossessionato dal mistero della trasmutazione della materia grezza in oro. Certo concordiamo con Eliade, quando afferma che [16]

Β«in certi casi, il comportamento dell’artista verso la materia ritrova e ricupera una religiositΓ  di tipo estremamente arcaico, scomparsa da millenni nel mondo occidentale […] La ierofanizzazione della materia, cioΓ¨ la scoperta del sacro manifestato attraverso la sostanza, caratterizza ciΓ² che si chiama la β€œreligiositΓ  cosmica”, il tipo di esperienza religiosa che ha dominato il mondo fino al giudaismo e che Γ¨ ancora vivo nelle societΓ  β€œprimitive” e asiaticheΒ».

Tramite tale sacralizzazione della sostanza, l’artista ha la possibilitΓ  di tramutare alchemicamente la nuda materia grezza in qualcosa dotato di una forma che prima che essere fisica Γ¨ innanzitutto ideale, visualizzata ed anzi esperita ad un livello per cosΓ¬ dire β€œsottile”. Tale forma infatti altro non Γ¨ se non l’esteriorizzazione di una esperienza avuta in altri reami, che l’artista in questo piano della realtΓ  tenta arditamente di imprimere sulla materia, conferendole una forma.

LEGGI ANCHEΒ  Il futurismo esoterico dei Cosmisti russi

30223634374

Chi sappia compiere ciΓ², in ultima analisi, vive lui stesso indubbiamente un’esperienza di rāsāsvādava durante la creazione stessa dell’opera artistica, fase ultima del procedimento creativo per il cui tramite chiunque sia in grado di connettersi allo stesso livello a cui Γ¨ asceso l’artista nel momento della creazione avrΓ  anche l’opportunitΓ  di sperimentare la medesima esperienza sacrale.

In questo senso, l’opera d’arte tradizionalmente fu una sorta di portale per l’ascensione a livelli piΓΉ puri ed elevati, e certamente sovrapersonali, di coscienza: e questo β€” come abbiamo visto β€” vale sia per l’osservatore che per l’artista. CiΓ² non interessa soltanto l’arte pittorica o statuaria, ma anche quella architettonica. Come ebbe modo di rilevare Ernst JΓΌnger nel suo diario (agosto 1965), meditando sul β€œcelarsi del divino” e sulla funzione dei templi nel mondo odierno,

Β«non Γ¨ tanto l’incontro con gli dΓ¨i a contare, ma ciΓ² che si concentra in loro o dietro di loro. Gli antenati dello scintoismo sono lΓ¬, sui dipinti o sulle tavolette; l’aspetto e il nome si fondono: il cammino che spalancano conduce ad ampissime distanze. È solo a quel punto che risulta indifferente il fatto che ci si trovi di fronte a una fotografia, a un’incisione qualsiasi o a un capolavoro. I templi sono portali e accessiΒ».

Ernst_Juenger_inSG
Ernst JΓΌnger

Note:

[1] Julius Evola, Rivolta contro il mondo moderno (Mediterranee, Roma, 1984), p. 136

[2] Ivi, p. 137

[3] Ivi, p. 134

[4] Ananda K. Coomaraswamy, La danza di Śiva (Adelphi, Milano, 2011), p. 71

[5] RenΓ© GuΓ©non, Il regno della quantitΓ  e i segni dei tempi (Adelphi, Milano), p. 179

[6] Coomaraswamy, La danza di Śiva, p. 62

[7] Ivi, p. 66

[8] Ivi, p. 70, nota 4

[9] Ivi, p. 54

[10] Ivi, pp. 67-68

[11] Ivi, p. 71

[12] Ananda K. Coomaraswamy, β€œVeritΓ  e universalitΓ  della filosofia cristiana e orientale dell’arte”, in La filosofia dell’arte cristiana e orientale (Abscondita, Milano, 2005), p. 47

[13] Heinrich Zimmer, Miti e simboli dell’India (Adelphi, Milano, 2012), p. 57

[14] Ivi, p. 111

[15] Mircea Eliade, β€œLa permanenza del sacro nell’arte contemporanea”, in Spezzare il tetto della casa. La creativitΓ  e i suoi simboli (Jaca Book, Milano, 2016), p. 21

[16] Ibidem

[17] Ernst JΓΌnger, Siebzig verweht (Klett-Cotta, Stuttgart, 1980). Traduzione di Andrea Scarabelli


4 commenti su β€œSulla concezione tradizionale dell’arte figurativa e sulla sua funzione sacrale”

Rispondi

Scopri di piΓΉ da π€π—πˆπ’ ֎ πŒπ”ππƒπˆ

Abbonati ora per continuare a leggere e avere accesso all'archivio completo.

Continua a leggere