Dallβanalisi delle due figure mitologiche del Puer Aeternus e della Kore nei misteri demetrici di Eleusi, negli studi dello storico delle religioni ungherese KΓ‘roly KerΓ©nyi e nei commenti a questi di Carl Gustav Jung, emerge lβimportanza del carattere βoriginarioβ e βfondativoβ del mito greco, lβenigmatico nesso tra lβessere e il non-essere, quello tra la vita, lβamore e la morte che ci permettono di esprimere attraverso relazioni simboliche un processo cosmico in cui lβesistenza dellβuomo sia prossima alla realtΓ .
di Davide Simonato
tratto dallβelaborato di laurea βLβimmagine dellβuomo nelle opere di Walter F. Otto, KΓ‘roly KerΓ©nyi e Mircea Eliadeβ, 2014-15
copertina: Frederick Leighton, βIl ritorno di Persefoneβ
Il problema del non-essere secondo la visione religiosa dei greci era il tema del saggio posto come epilogo a Religione Antica, nel quale KΓ‘roly KerΓ©nyi si spingeva al confronto con alcune delle posizioni piΓΉ interessanti della filosofia contemporanea. Allβidea nichilistica della morte intesa come un vuoto nulla, veniva contrapposta quella propria dellβantichitΓ , secondo la quale essa era invece inclusa allβinterno dellβorizzonte vitale, come limite che nellβoscuritΓ custodisce il principio della vita [1].
Γ difficile allora non leggere i due successivi saggi di KerΓ©nyi come la logica prosecuzione di un discorso che, dopo quella simbolica conclusione, non sembrava essere destinato a proseguire. Incentrati sulla figura mitologica rispettivamente del bambino divino e della fanciulla divina, questi scritti diverranno celebri grazie alla loro successiva raccolta in volume, che comprende due ampli commenti di Carl Gustav Jung (1875-1961) [2] sugli archetipi psicologici corrispondenti. Al centro degli studi contenuti nel libro, che non si accordano in alcun modo allβaltisonante titolo, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia [3], vi Γ¨ la figura dellβUrkind, il fanciullo originario, analizzato tanto nel suo aspetto maschile quanto in quello femminile, ma soprattutto, come afferma KerΓ©nyi al termine del primo contributo, quale βeterno Indeterminatoβ [4].
Il fanciullo infatti, giΓ nato eppure ancora in bilico fra la forma differenziata e terrestre e la figura eternamente indeterminata, ondeggiante sulle acque, Γ¨ lβemblema dello stato di passaggio tra essere e non-essere. Collocato fra i due regni, piΓΉ vicino ancora allβAldilΓ che allβAldiquΓ , esso partecipa di quei βmodelliβ in cui non Γ¨ difficile riconoscere i simboli primordiali, gli archetipi [5]. Lβarchetipo ha per KerΓ©nyi la funzione di integrare il termine βumanoβ nel momento in cui lβuso tradizionale ne ha fatto unβespressione troppo vaga e generica. Riappare sotto altra forma il bisogno di recuperare il flusso vitale dellβesperienza vissuta e dei concreti valori umani, i modelli di condizioni eterne dellβesistenza [6].

La simbologia acquatica, caratteristica peculiare del mitologema del fanciullo, ritorna costantemente anche nelle pagine dellβIntroduzione di KerΓ©nyi, intitolata Origine e fondazione della mitologia, importante momento di riflessione teorica. Bisognerebbe prendere e bere la pura acqua della sorgente perchΓ© questa ci compenetrasse e potenziasse le nostre latenti velleitΓ mitologiche.
Eppure, anche qui cβΓ¨ ancora molto che separa la bocca dallβorlo del calice. [β¦] Noi abbiamo perduto lβaccesso immediato alle realtΓ del mondo spirituale β ed a questo appartiene tutto ciΓ² che vi Γ¨ di autenticamente mitologico β anche a causa del nostro spirito scientifico fin troppo pronto ad aiutarci e fin troppo ricco di mezzi sussidiari. Esso ci aveva spiegato la bevanda nel calice, in modo che noi, meglio dei bravi bevitori antichi, sapevamo giΓ in anticipo ciΓ² che cβera dentro. [β¦] Noi ci dobbiamo domandare se lβimmediatezza dellβesperienza e del piacere di fronte alla mitologia ci Γ¨ ancora in generale possibile [7].
Come scriveva citando un verso de I sonetti a Orfeo di Rilke, βColui che si spande come una sorgente, viene conosciuto dalla conoscenzaβ [8]. Per quanto la finalitΓ dichiarata sia proprio quella di trovare lβaccesso alle realtΓ della mitologia, dove si trova questa sorgente? Il passo rilkiano citato proseguiva cosΓ¬: βe lo guida estasiato allβopera serena / cui lβinizio Γ¨ una fine, spesso, e la fine inizioβΒ [9]. KerΓ©nyi si mostra fiducioso della possibilitΓ di cogliere i significati dellβopera, in questo caso mitologica, grazie alla compenetrazione tra soggetto conoscente ed oggetto: lβunico modo sembra essere quello di lasciar parlare i mitologemi β non potendoli piΓΉ vivere β e prestare loro semplicemente ascolto. Infatti βla mitologia, come la testa recisa di Orfeo, continua a cantare anche dopo la sua morte, anche a lunga distanza dal tempo della sua morteβ [10]. CosΓ¬ come la vita dellβuomo antico ritrovava la propria espressione e il proprio senso immergendosi nei modelli del passato,
La mitologia chiarisce se stessa e tutto quanto vi è nel mondo non perché essa sia stata inventata per spiegare, bensì perché essa ha la facoltà di chiarire [11].
I miti non spiegherebbero niente, in nessun senso, e mai: essi fissano un precedente che Γ¨ ideale e garanzia del proseguimento [12].
Lo scopo dei mitologemi sarebbe appunto quello di giustificare il mondo riportandolo al proprio fondamento, alle αΌΟΟΞ±α½·, gli elementi primordiali, vitali ed inesauribili. La mitologia racconta sempre delle origini e ciΓ² che Γ¨ originario: per il narratore di miti questo equivaleva alla veritΓ . In quale fondamento si ritrova lβuomo, la sua identitΓ mitica per eccellenza, il punto di unitΓ attorno al quale e a partire dal quale costruisce il proprio avvenire?
I due mitologemi [β¦] servono ad indicarci attraverso le immagini del divenire umano e vegetale la strada su cui avviene la Β«fondazioneΒ» quale cammino alle αΌΟΟΞ±α½· per rifare poi con noi la strada del suo esplicarsi in quelle immagini. Figurativamente si puΓ² parlare di unβimmersione in noi stessi, che porta al vivo germe della nostra totalitΓ . [β¦]
Il Β«fondareΒ» mitologico [β¦] ha questo di paradossale: chi si ritira cosΓ¬ in sΓ©, si apre. O anche viceversa: lβessere aperto al mondo, caratteristica dellβuomo antico, pone questo sul suo proprio fondamento e gli fa riconoscere nella propria origine [β¦] lβorigine per eccellenza. Nellβimmagine di un fanciullo divino, del primogenito dei primordi in cui per la prima volta si Γ¨ verificata unβΒ«origineΒ», le mitologie non parlano del prodursi di un essere umano, ma di quello dellβuniverso divino o dβun dio universale. [β¦] Γ il mondo che parla dellβorigine nelle immagini che scaturiscono. Colui che in quella sommersione ha raggiunto il proprio fondamento, Β«fondaΒ» il suo mondo [13].
Al mito delle origini corrisponde infatti un atto di altrettanto valore religioso e spirituale: la fondazione. Vivere il mito Γ¨ come rifarsi alle proprie βoriginiβ, ai propri elementi costitutivi e riorganizzarli sempre nuovamente. Come scriveva Jung a proposito del mandala, in un passo riportato da KerΓ©nyi al termine di una breve disamina dei miti di fondazione,
Β«Cose di questo genere non si inventano: esse devono riaffiorare sempre dalle profonditΓ dellβoblio per esprimere gli estremi barlumi della coscienza e le piΓΉ alte intuizioni dello spirito, e fondere in questo modo lβunicitΓ della coscienza del presente con il passato primordiale della vitaΒ» [14].

La ricerca dellβorigine non puΓ² che risolversi nel raccontare i modi di apparizione della medesima idea mitologica. Tramite una rassegna dei molteplici miti concernenti le grandi figure del fanciullo divino di varie mitologie β Apollo, Hermes, Dioniso, Giove, il dio dei Voguli, il Kullervo del Kalevala β con una vasta conoscenza di analogie e parallelismi nel campo etnologico, il primo saggio [15] persegue lβobiettivo di mostrare come questi presentino dei tratti cosΓ¬ profondamente comuni da risultare come variazioni di un unico motivo: la forma infantile e atemporale del giovane quale pienezza di vita e di senso [16].
Lo scritto di KerΓ©nyi, evidenziando la natura tipica del mitologema, dava lβoccasione a Jung di confermare la natura βarchetipicaβ dello stesso, riprodotta nella sua struttura essenziale in situazioni storico-geografiche cosΓ¬ diverse. Jung aveva infatti denominato βarchetipiβ (Archetypen) i contenuti dellβinconscio collettivo, le immagine appartenenti allβintera umanitΓ , e lβindagine presentata dallo studioso ungherese poteva facilmente essere accostata alle sue conclusioni riguardanti lβesistenza di elementi strutturali mitopoietici [17]. Lβindagine di Jung, arricchendosi di suggestioni che puntano decisamente verso altre direzioni, persegue comunque scopi ben diversi da quello di confermare i risultati di KerΓ©nyi [18].
Lo studio complementare dedicato a Kore indaga lβaspetto femminile del mitologema [19]: la divina fanciulla dei primordi contiene in sΓ©, in forma involuta, le figure che piΓΉ tardi assumeranno i nomi e le forme di Persefone, Hekate e Demeter. Questa divinitΓ che Γ¨ nascita, parto e morte allo stesso tempo, esistenza duratura e indistruttibile, esprime nella sua figura sia lβapertura al mondo che il racchiudersi in sΓ©. Ad Eleusi si ritorna dunque al tema allegorico della linea divisoria che separa essere e non-essere. Kore e Persefone esprimono le due forme di esistenza femminile al loro estremo:
in un equilibrio in cui una di queste forme di esistenza (la fanciulla presso la madre), appare come vita, lβaltra (la fanciulla presso lβuomo) come morte. Madre e figlia formano qui unβunitΓ di vita in una situazione-limite: unβunitΓ di natura che porta in sΓ©, ugualmente per natura, la possibilitΓ di spezzarsi [20].

Si alterna dunque la Kore, considerata unicamente sotto il suo aspetto piΓΉ umano, ossia un essere che allβapice della vita inviolata cade vittima del destino, a Persefone, che rappresenta un destino che nel compimento significa morte e nella morte regalitΓ [21]. Dopo la fanciulla e la sposa, la madre in lutto Demeter completa la triade di figure femminili, introducendo lβidea chiave dellβintero mitologema della fanciulla: la rinascita.
Entrare nella figura di Demeter, vale a dire essere perseguitati, derubati, anzi rubati, non comprendere ma adirarsi e rattristarsi, ma poi riavere e rinascere: che altro significa questo se non attuare lβidea piΓΉ ampia dellβessere vivo, del destino dei mortali? Che cosa rimane qui per la figura di Persefone? Indubbiamente ciΓ² che, oltre alla drammaticitΓ senza fine del nascere e del morire, Γ¨ inerente alla struttura degli esseri vivi: precisamente lβunicitΓ (Einmaligkeit) del singolo essere, e la sua appartenenza alla non-esistenza. UnicitΓ e non-esistenza β non concepite filosoficamente, bensΓ¬ viste in figure o, per essere piΓΉ esatti, lβultima vista nellβamorfo, nel regno di Hades. Γ lΓ¬ che regna Persefone β lβeterna-unica caduta nella non-esistenza [22].
Ancora una volta lβestrema attualitΓ delle figure mitologiche trova la sua giustificazione nella capacitΓ di esprimere attraverso relazioni simboliche un processo cosmico in cui lβesistenza dellβuomo sia prossima alla realtΓ . Lβesperienza del culto Γ¨ infatti al tempo stesso sia universale che singolare: lβevento vissuto porta il segno del divino e come tale viene raffigurato, per quanto esprima lβenigmatico nesso tra la vita, lβamore e la morte. Lβiniziato non temeva di vivere tale paradosso. Γ noto il rapporto che i misteri eleusini intrattenevano con i culti agrari e piΓΉ in generale con il ciclo della vita organica, e la conclusione del saggio ribadisce con forza questa unione tra il destino individuale e il mondo.
Il Greco era cosciente non tanto dellβΒ«abissoΒ» β lβΒ«abisso del semeΒ» β che gli si apriva in se stesso, quanto dellβesistenza in cui quellβabisso sfociava. La Β«serie infinitaΒ» significava qui appunto esistenza infinita: Β«esistenzaΒ» semplicemente. Si viveva questa, lβesistenza quasi come seme del seme, quale esperienza propria. Il sapere intorno a questa non diveniva pensiero discorsivo o parola. [β¦] Contemplazione e contemplato, sapere ed essere, qui come anche altrove nel modo di pensare ed esistere dei Greci, si fondono in unitΓ [23].
Un sapere senza parole esprimerebbe nel modo piΓΉ eloquente la consapevolezza del proprio destino, proprio perchΓ© lo scopo perseguito non Γ¨ formare unβopinione intorno ad un oggetto, ma giungere al suo stesso piano. Elevarsi al livello dei fenomeni accettando di mettere in discussione i principi prestabiliti Γ¨ il compromesso per conoscere le possibilitΓ di esistenza umana esplicate nelle figure mitologiche.

Note:
[1] Karl KerΓ©nyi, Religione Antica, cit., Lβidea religiosa del non-essere [ed. or. Die religiΓΆse Idee des Nichtseins, 1940], pp. 171-191. Lβultima edizione, da cui citiamo, colloca invece il saggio al centro del libro.
[2] Sul rapporto con Jung e la psicologia si veda Aldo Magris, op. cit., pp. 87 sgg. Sulla vicenda di questa pubblicazione in comune Γ¨ importante qui segnalare come i lavori di KerΓ©nyi precedano i suoi contatti con Jung. Viene ugualmente da domandarsi se la vicinanza a Jung in qualche modo segua la stessa necessitΓ di Mann nel suo confronto con Freud.
[3] Carl G. Jung β KΓ‘roly KerΓ©nyi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Torino, Bollati Boringhieri, 1972 [ed. or. EinfΓΌhrung in das Wesen der Mythologie, 1941]. Il titolo italiano stona pure con quanto scrive KerΓ©nyi nelle prime righe dellβIntroduzione (si veda infra): una piΓΉ corretta traduzione sarebbe Introduzione allβessenza della mitologia.
[4] Cfr. Ivi, p. 106.
[5] Cfr. Furio Jesi, Letteratura e mito, Torino, Einaudi, 1981, p. 149.
[6] Cfr. Aldo Magris, op. cit, pp. 112-113.
[7] Carl G. Jung β KΓ‘roly KerΓ©nyi, op. cit., Introduzione, pp. 13-14. Lo scritto si estende per le pp. 11-43.
[8] Cfr. Ivi, p. 17. βWer sich als Quelle ergieΓt, den erkennt die Erkennung.β
[9] βUnd sie fuhrt ihn entzΓΌckt durch das heiter Geschaffne, / das mit Anfang oft schlieΓt und mit Ende beginnt.β Die Sonette an Orpheus, Zweiter Teil, XII, in Rainer Maria Rilke, Poesie (1907-1926), a cura di Andreina Lavagetto, Torino, Einaudi, 2000, pp. 376-379.
[10] Carl G. Jung β KΓ‘roly KerΓ©nyi, op. cit., p. 17.
[11] Ivi, p. 18.
[12] Ivi, p. 20
[13] Ivi, pp. 23-24.
[14] Ivi, p. 30. Corsivo suo.
[15] Ivi, Il fanciullo divino, pp. 45-106 [ed. or. Zum Urkind-Mythologem, 1938].
[16] Si veda anche Angelo Brelich, Recensione a C. G. Jung β K. KerΓ©nyi, EinfΓΌrung in das Wesen der Mythologie, Β«Studi e Materiali di Storia delle Religioni, XVIII, 1942, pp. 115-116.
[17] Chiarisco qui con una nota il concetto di archetipo secondo la concezione di Jung. Partendo dallβanalisi dei sogni e delle psicosi dei suoi pazienti, Jung riscontrΓ² come certe immagini, concetti e situazioni presentassero innumerevoli connessioni, che non trovavano confronto se non nelle associazioni di idee mitologiche. Esclusa lβipotesi che si trattasse di cognizioni dimenticate, Jung pervenne alla supposizione che queste fossero reviviscenze autoctone indipendenti dalla tradizione. A differenza di Freud, che riteneva lβinconscio un contenitore vuoto alla nascita, riempito man mano di materiale psichico inaccettabile dalla coscienza, per Jung lβinconscio personale contiene giΓ delle βforme a prioriβ, che fanno parte del cosiddetto βinconscio collettivoβ, e che permettono di trascendere da se stessi, attraverso la funzione simbolica. Alcuni simboli hanno una ricorrenza universale, che rimanda allβesistenza di quelli che Jung chiama archetipi, cioΓ¨ letteralmente modelli (come sottolinea lo stesso Jung lβespressione archetipo Γ¨ la parafrasi esplicativa dellβeidos platonico e si trova giΓ in Filone dβAlessandria con riferimento allβimmagine di Dio nellβuomo). Gli archetipi non sono idee, ma possibilitΓ di rappresentazioni, ossia disposizioni a riprodurre forme e immagini virtuali, tipiche del mondo e della vita, le quali corrispondono alle esperienze compiute dallβumanitΓ nello sviluppo della coscienza. Essi si trasmettono ereditariamente e rappresentano una sorta di memoria dellβumanitΓ , sedimentata nellβinconscio collettivo, e quindi presente in tutti i popoli, senza alcuna distinzione di tempo e luogo. Gli archetipi lasciano le loro tracce nei miti, nelle favole e nei sogni, che contrariamente a quanto pensava Freud, non sono appagamento di desideri puramente individuali legati alla sessualitΓ infantile, ma espressioni dellβinconscio collettivo. Gli archetipi non si presentano mai allβanalisi allo stato puro, ma attraverso loro manifestazioni in simboli: ogni individuo li avverte come bisogni e li puΓ² esprimere in modo storicamente variabile, secondo le diverse situazioni etniche, nazionali o familiari. In tal modo, lβinconscio collettivo, attraverso gli archetipi, puΓ² condizionare e dirigere la condotta dellβindividuo nei suoi rapporti col mondo, inducendolo a ripetere esperienze collettive.
Si vedano gli studi contenuti in Carl Gustav Jung, Opere, 9. I. Gli archetipi e lβinconscio collettivo, Torino, Boringhieri, 1980.
[18] Jung interpreta il fanciullo come simbolo della fase infantile ed embrionale dello sviluppo della psiche collettiva. Nella Kore invece leggerΓ la figura del Β«Sé» e lβΒ«animaΒ», lβelemento femminile presente anche nella personalitΓ maschile.
[19] Carl G. Jung β KΓ‘roly KerΓ©nyi, op. cit., Kore, pp. 149-220 [ed. or. Kore. Vom Mythologem des gΓΆttlichen MΓ€dchens, 1939].
[20] Ivi, p. 160.
[21] Cfr. Ivi, p. 162.
[22] Ivi, pp. 180-181.
[23] Ivi, pp. 218-219.
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