di Marco Maculotti
(articolo originariamente pubblicato su Lโora dโAria,
in data 13 febbraio 2017, e in questa sede rivisionato)
Vogliamo analizzare in questo saggio le credenze degli antichi Romani sulla valenza esoterica del sangue e, per esteso, quei concetti-chiave quali il genius, la gens, lโazione sacrificale (dal lat. sacer facere, โrendere sacroโ, โsacralizzareโ) e i culti domestici strettamente connessi allโambito familiare.ย Si cominci col dire che lโantica civiltร romana, cosรฌ come numerose altre culture tradizionali, vide nel sangue qualcosa di piรน del mero liquido ematico considerato dal punto di vista prettamente organico-materiale: si tendeva per cosรฌ dire a scorgere in esso un vettore delle potenze numinose, in quanto si riteneva che in esso scorresse lโereditร genetica (vale a dire della gens), definibile come lโinfluenza sottile del genius della stirpe che si riverbera di generazione in generazione.
Cosรฌ scrive Andrea Pasino nel suo recente studioย Sangue Discendenza Iniziazione [p.6]:
โIl sangue trasporta e trasmette geni e virtรน, ma, cosรฌ come esso รจ un semplice vettore fisico, esiste una realtร piรน sottile, un simbolo, una scintilla che silenziosamente agisce sul supporto fisico. Nella storia e nella pratica il sangue assurge esso stesso a oggetto di potere o di salvezza, senza badare al fatto che esso, forse, sia solo lโapparenza di ciรฒ che si deve comprendere e trasmettere. Il sangue quindi รจ forza vitale trasmessa e, con lo spegnersi della vita, tale forza si trasforma e sublima in unโaltra essenza, destinata a mondi piรน spirituali. Questa forza quindi non si spegne, anzi si perpetua. Cosรฌ come la forza della genealogia si perpetua di padre in figlio, allo stesso modo la forza sottile non si esaurisce, ma rimane per tutti coloro che, di quella stessa linea di sangue, fanno parte.โ
Questa tipologia cultuale รจ connessa, secondo Julius Evola [La tradizione di Roma, p.175]:
โโฆ allโantica consapevolezza romana delle forze mistiche del sangue e della razza, alla stirpe, cioรจ, considerata non soltanto nel suo aspetto corporeo e biologico, ma altresรฌ nel suo aspetto โmetafisicoโ e invisibile, ma non per questo โtrascendenteโ, nel ristretto significato dualistico venuto a prevalere per tale termine. Lโindividuo singolo, atomico, sradicato, non esisteโquando egli suppone un essere a sรฉ, sโillude nel modo piรน pietoso, chรฉ โsuoโ egli non puรฒ chiamare nemmeno lโultimo dei processi organici che condizionano la sua vita e la sua coscienza finita. Il singolo รจ parte di un gruppo, di una stirpe o gente. ร parte di una unitร organica, il cui veicolo piรน immediato รจ il sangue, e che si estende sia nello spazio, sia nel tempo. Questa unitร non รจ โnaturalisticaโ, non รจ determinata e chiamata a vita unicamente dai processi naturali, biologici e fisiologici. Tali processi ne costituiscono piuttosto il lato esteriore, la condizione necessaria ma non sufficiente. Vi รจ una โvitaโ della vita, forza mistica del sangue e della gente. Essa sussiste di lร dalle forze di vita dei singoli che in essa, alla morte, si dissolvono o che da essa, attraverso nuove nascite, sono donate: รจ quindi vitae mortisque locusโluogo che ricomprende vita e morte e che per ciรฒ stesso sta al di lร dallโuna e dallโaltra.โ
Una religiositร di tal guisa, come si puรฒ immaginare, ebbe poco da spartire con i culti pubblici dedicati alle divinitร piรน note, essendo piuttosto accostabile ai riti misterici dellโantichitร : si trattava infatti di una visione della vita e del Sacro antecedente la nascita dei grandi centri urbani e dellโImpero cosmopolita, derivante dal substrato piรน arcaico su cui potevano fondarsi i popoli latini prima dellโespansione dellโUrbe e dellโassurgere di Roma a Caput Mundi. Si trattava, in altre parole, di un complesso religioso di natura squisitamente pagana, volendo in tal senso riconnetterci allโetimologia stessa del termine โpaganoโ, derivante da pagus, โvillaggioโ. Era dunque un culto proprio di un villaggio, osservato da una cerchia di persone strettamente legate da caratteristiche genetiche (ovvero, erano appartenenti alla stessa gens) che svolgevano le proprie azioni allโinterno di una struttura sociale chiusa allโesterno.
Cosรฌ scrive Mircea Eliade riguardo il culto privato nellโantica Roma [Storia delle credenze e delle idee religiose v.II, p.120]:
โFino alla fine del paganesimo, il culto privatoโdiretto dal pater familiasโmantenne la sua autonomia e la sua importanza a fianco del culto pubblico โฆ A differenza del culto pubblico, che subรฌ continue modifiche, il culto domestico, compiuto attorno al focolare, non pare aver subรฌto sensibili cambiamenti durante i dodici secoli della storia romana. Si tratta, senza dubbio, di un sistema cultuale arcaico, in quanto esso รจ attestato presso altri popoli indoeuropei. Proprio come nellโIndia aria, anche a Roma il fuoco domestico costituiva il centro del culto โฆ il culto si rivolgeva ai Penati e ai Lari, personificazioni mitico-rituali degli antenati, e al genius, una specie di โdoppioโ che proteggeva lโindividuo.โ

Il Genius
Fra gli dรจi che si onoravano in questi riti domestici spiccavano i Patres (ovvero gli antenati primordiali), i Mani, i Lari, i Penati e, ovviamente, il Genius, considerato nume tutelare della stirpe incarnata nellโultimo capo o pater familias. Questโultimo, in altre parole, durante le funzioni sacerdotali del culto domestico, appariva agli altri membri della famiglia come il veicolo attraverso cui il Genius della stirpe si manifestava ai suoi discendenti: per il tramite del pater familias, il quale durante il rito era infuso dalla forza stessa del Genius, si riteneva possibile perpetuare la discendenza non solo da un punto di vista fisico-generativo, ma altresรฌ sottile, spirituale. E se gli uomini potevano affidarsi al proprio genius individuale, una sorta di angelo custode ante-litteram che seguiva lโindividuo durante tutta la vita (in tutto simile al โdoppio di luceโ del Sufismo iraniano) [cfr. Corbin, Lโuomo di Luce nel Sufismo iraniano], dal canto loro le donne erano tutelate dalle junones o giunones, controparte femminile del genio [Pasino, p.52].
Dai due termini deriva la corrispondente coppia divina formata da Giano e Giunone, o da Janus e Janua (Diana), vale a dire le divinitร delle porte di ingresso e di uscita da questo mondo. Secondo il parere autorevole di Georges Dumรฉzil [La religione romana arcaica, pp.315-316], che si ispira a Walter F. Otto, la coppia Genio (Giano)/Giunone รจ antichissima e originariamente rappresenta da una parte (genius) โla forza, il potere specifico del maschioโ e dallโaltra (junones) โla natura femminileโ e in particolar modo il parto. Il Genius รจ allora qui gignit, โcolui che generaโ. Prosegue lo studioso francese [p.317]:
โIl Genio compare in questo quadro non come dio della procreazione โฆ esso รจ โฆ la personalitร divinizzata di un uomo, quale venne al mondo, sorto da una serie di altri uomini ciascuno dei quali ebbe il suo Genio, e chiamato a mettere al mondo, attraverso i figli, unโaltra serie, ciascun termine della quale avrร pur esso il suo Genio. La consacrazione del letto nuziale al Genio del rappresentante attuale della serie, e lโomaggio reso al Genio da colei che รจ stata scelta per continuare la serie, non vanno intesi dal punto di vista sessuale, ma dal punto di vista della gens, della continuitร delle generazioni, che รจ quindi anche continuitร dei Genii.โ
Dal canto suo, Evola scrive che per Genius si intendeva distintamente la forza nascosta e divina che genera, un โpotere reale che agisce dietro alla generazione fisica, nellโunione dei sessi โฆ per cui il letto nuziale ebbe anche nome di lectus genialis (letto del genio) e ogni offesa alla sacritร del matrimonio patrizio e al sangue venne considerato come un delitto anzitutto di fronte al genius della stirpeโ [La tradizione di Roma, p.178].
Secondo R.B. Onians [Le origini del pensiero europeo, p.157], il genius era considerato originariamente lโanalogo della psyche, intesa come โspirito vitale attivo nella procreazione, dissociato ed estraneo rispetto allโio cosciente situato nel pettoโ: si riteneva infatti che esso risiedesse nel caput, al centro della fronte. Cosรฌ Orazio potรฉ affermare che esiste un genius โper ogni testa, un dio dal volto mutevoleโ. A ciรฒ si aggiunga la credenza secondo cui il genius si manifesta sotto forma di serpente, similmente alla psyche per i greci.
Di piรน: come si puรฒ leggere ne Lโesperienza del tempo dellโallieva jungiana Marie-Louise von Franz, per gli antichi Ellenici pure il termine aion originariamente indicava โil fluido vitale presente negli esseri viventi e, di conseguenza, la durata della loro vita e il destino ad essi assegnatoโ [p.10]. Si riteneva che tale fluido continuasse a esistere anche dopo la morte, assumendo la forma di un serpente. Devesi infine notare come, per gli antichi popoli mediterranei, il fluido vitale presente nellโintimo dellโuomo si manifestasse, oltre che nella forma serpentina, anche nei concetti di โfuocoโ (connesso al focolare domestico) e โsemeโ, inteso sia in senso naturalistico che come sperma maschile generatore. Avremo modo di analizzare meglio queste suggestioni nei prossimi paragrafi; per il momento si rende necessaria una breve analisi delle altre potenze numinose onorate allโinterno dei riti domestici e gentilizi dai primi Romani.

Mani, Lari, Penati
Le altre divinitร onorate durante i riti domestici sono generalmente considerate potenze numinose legate allโaldilร , al mondo dei trapassati. Tuttavia, se i Manes (lett.: gli โdรจi buoniโ) denotavano collettivamente la massa indistinta dei morti (concetto simile ai Pitรกrah del RigVeda) [Dumรฉzil, p.321], i Lares erano considerati piรน precisamente โgenรฎ e anime dei defuntiโ, vale a dire le anime di singoli individui, ormai deceduti, della gens, innalzati quasi a dรจi, e quindi adorati come numi tutelari legati allโesistenza dellโintera famiglia. Un ruolo simile dovettero rivestire anche i Patres, termine che molti studiosi considerano sinonimo di Lares.
Riguardo questi ultimi, Evola afferma [La tradizione di Roma, p.184] che il termine โLareโ deriva dallโetrusco lar (โprincipeโ o โcapoโ) e ciรฒ troverebbe riscontro in una tradizione diffusissima tra gli antichi che identifica i Lari agli Eroi, nel senso ellenico di semi-dรจi, โuomini che hanno trascesa la natura e sono stati fatti partecipi della indistruggibilitร degli Olimpiciโ (equivalenti agli Arya indo-iranici). Da qui, lโidea che ogni gens avrebbe onorato il rispettivo Lar familiaris nella figura mitica del proprio antenato mitico, principe (o principio) della stirpe.
Secondo una nota testimonianza di Macrobio (Saturnali, III, 4) i Lari erano โgli dรจi che ci fanno vivere: essi alimentano il nostro corpo e regolano la nostra animaโโuna definizione che, come avremo modo di vedere, ci consente di comprendere il motivo per cui sovente essi venissero confusi con i Penati. Tuttavia, i piรน antichi documenti sul culto dei Lari presentano, come si รจ giร detto, la divinitร al singolare nella denominazione Lar familiaris, padre unico e ideale di uno stesso ceppo. Evola [La tradizione di Roma, p.177] cita il parere di Saglio secondo cui tale denominazione โsignifica non che esso ha creato materialmente la razza in origine come avo, ma che รจ la ragione divina della sua esistenza e della sua durataโ. Il Lare della famiglia era dunque inizialmente padre (โprincipeโ) e radice (โprincipioโ) trascendente della famiglia e della gens, in ciรฒ confondendosi con il Genio, che perรฒ come abbiamo visto si riteneva incarnato unicamente nella persona del Pater familias attuale, che fungeva dunque da mediatore tra il mondo dei vivi (le persone vive che costituivano la gens) e quello dei morti (le anime degli antenati della stirpe che venivano onorate nei rituali domestici).
Con il passare dei secoli, il Lare progressivamente venne adibito a proteggere, piรน che altro, un luogo ben definito e tutti gli abitanti o lavoratori che si trovano in esso: cosรฌ il pater familias che giungeva nella sua uilla (vale a dire nella sua residenza di campagna) doveva โaver cura innanzitutto di salutare il Lar familiarisโ [Dumรฉzil, p.303]. Da argomenti di tal guisa, studiosi come Wissowa e Jordan giunsero ad affermare, contrariamente alle teorie tradizionali, che โnon ci sono Lari di persone nรฉ di gruppi di persone โฆ [ma] la rappresentazione dei Lari รจ sempre collegata a un luogoโ [Dumรฉzil, p.304]; epperรฒ questa, come abbiamo avuto modo di vedere, รจ una concezione assai tarda del Lare, inizialmente considerato come un singolo nume. Tale cambiamento di prospettiva si verificรฒ solo nella Roma imperiale, in seguito alla nascita di una concezione finanche nazionale dei Lari, da cui la predisposizione dei nuovi culti ai Lares militares e ai Lares publici, e infine di quello ai Lari degli Imperatori: Lares Augusti. Si finรฌ per ritenere il Lare una sorta di โforza mistica della stirpe imperialeโ, fluido sovraumano miticamente incarnato dai vari โsemi-dรจi che han fondata la cittร e stabilito lโimpero universaleโ [Evola, La tradizione di Roma, p.182].
Secondo Georges Dumรฉzil [La religione romana arcaica, p.302], i Lari si distinguevano dai Penati (coi quali con il passare del tempo finirono quasi col confondersi) in quanto, mentre questi ultimi si configuravano come โi protettori del padrone e dei suoi parentiโ, i primi proteggevano indistintamente tutta la popolazione libera o servile e tutta la famiglia intesa in senso allargato, da cui la denominazione Lar familiaris. Personalmente, siamo del parere che anche questa concezione di Lares sia spuria e tarda, lontana dal concetto tradizionale di Lar come โprincipeโ e โprincipioโ della stirpe.
Per quanto concerne i Penati, devesi notare come tali entitร facciano derivare il proprio nome dal penus, luogo della casa in cui venivano conservate le riserve per lโanno [Pasino, p.55]: erano insomma divinitร della terza funzione, quella della fertilitร e dellโabbondanza, e a questo proposito si possono annoverare tra i primi Penati divinitร quali Giove, Vesta per la semina, oltre a Cerere e i giร menzionati Giano e Giunone per la falciatura, e infine Marte agreste (vale a dire Marte nella sua funzione di difensore dei confini dei campi) per tutte le preghiere lustrali di protezione [Pasino, p.56]. Tuttavia, a parere di Dumรฉzil [La religione romana arcaica, p.311], รจ probabile che originariamente penus fosse inteso come โla parte piรน intima, il fondoโ: di conseguenza gli dรจi Penati non veglierebbero solo sulla conservazione e sullโabbondanza delle provviste, ma in generale sul benessere della casa e dei suoi abitanti, per cosรฌ dire sul โfondo originarioโ della stirpe. Si puรฒ dunque notare come la fortuna (nel senso latino di โsorteโ) di una gens, nonchรฉ la sua stessa esistenza, sembrerebbe essere connessa nel pensiero romano da una parte con le anime dei defunti appartenenti a quella stirpe o per esteso ai luoghi in cui tale gens abita, e dallโaltra da una serie di divinitร tutelari dei lavori agricoli e quindi, in ultima analisiโessendo la societร latina delle origini fondata sullโagricoltura e sullโallevamentoโ, della ricchezza e dellโabbondanza della gens stessa.
A ciรฒ si aggiunga, per concludere, la credenza nel fatto che altre anime dei trapassati della gens che non avevano raggiunto la perfezione olimpico-eroica e che pure non si confondevano con la massa indistinta dei Mani, in virtรน di una vita scellerata o di una morte traumatica, erano destinate a diventare Larvae e Lemuri. Anche per queste โanime dannateโ i Romani predisponevano rituali di carattere infero-ctonio per placarne gli appetiti post-mortem e per tenere il loro influsso negativo lontano dai membri viventi della stirpe.

Culto dei morti e culto dei vivi
Ma cโรจ di piรน. Come afferma Pasino [pp.140-141]:
โTroviamo la necessitร , da parte dei popoli latini, di radicare in tempi ancora piรน remoti la tradizione del culto dei Penati negli scritti di Virgilio in cui si fa ben notare come esso provenisse in realtร dalla tradizione stessa della casa di Enea. Il culto famigliare dei Mani, Lari e Penati era una pratica riservata ai soli appartenenti alla famiglia, ancor oggi si sa poco di come si svolgevano: ogni famiglia era gelosa dei propri segreti. Gli appartenenti alla famiglia erano, per cosรฌ dire, iniziati, e potevano partecipare e presiedere a tutti i riti. Il pater familias, normalmente dirigeva i lavori e ne tramandava la pratica ai figli โฆ Lโingresso a tali culti avveniva quindi per nascita (discendenza diretta di sangue), per adozione o per matrimonio (si entrava a fare parte di una famiglia diversa dalla propria). Ciascuno di questi metodi dava la possibilitร di essere โfigliโ e quindi consanguinei, discendenti e, al contempo, iniziati ai culti familiari.โ
Si puรฒ dunque notare come in realtร il culto dedicato ai morti della propria stirpe (che siano Mani, Lari o altri) sia solo una faccia della medaglia, lโaltra faccia essendo un โculto dei viviโ, o meglio una sacralizzazione del legame genetico che univa tutti gli appartenenti, ancora in vita, di una medesima gens, i quali rinnovavano in riti di tal guisa la potenza generativa della propria gens, o meglio del Genius della propria stirpe o del Lar familiaris. Rifacciamoci ancora una volta a Pasino, che scrive [p.148]:
โQueste entitร venerate si identificano come coloro che mantengono vivo il legame tra il capostipite della famiglia ed i suoi discendenti, una sorta di pneuma, di sottile energia che pulsa nel sangue dei discendenti. In questo caso il culto famigliare diviene, a tutti gli effetti, una ricerca, con lโausilio di rituali esoterici, della parte divina che รจ ben nascosta dentro di noi.โ
Allโinterno di una visione religiosa di questo tipo, di massima importanza era il simbolo del fuoco, o per meglio dire del focolare centrale della casa, rappresentante al tempo stesso la โfiammaโ (vale a dire la potenza sottile, il pneuma) inestinguibile della stirpe, che si onorava nel nume del Genius o del Lar familiaris, e lโomphalos stesso della casa che durante i riti assurge a vero e proprio tempio, lโAxis mundi che regge i tre mondi, quelle degli dรจi uranico-superni, quello dei vivi e quello dei morti e delle divinitร infero-ctonie. Nella fase successiva della storia della civiltร romana, in cui guadagnarono importanza i culti pubblici a discapito di quelli privati, tale fuoco eterno, la cui fiamma era mantenuta perennemente accesa dalle Vestali del tempio di Vesta, venne considerato come pneuma della stirpe romana per esteso.
Sul mistero del fuoco di Vesta, vogliamo citare il parere autorevole di Guido de Giorgio, che nella sua nota opera La tradizione romana affermava [p.246]:
โLa โfissitร โ tradizionale implica โฆ lโinesauribilitร delle applicazioni poichรฉ la veritร divina รจ un punto verso cui tendono infinite vie per il carattere suo universale che implica la totalitร dei raggiungimenti. Se il Tempio di Vesta rappresenta la staticitร tradizionale, il fuoco che vi fiammeggia in molteplici spirali di luce, significa appunto lโintegrazione attiva, dinamica che ciascuno di noi dovrebbe compiere nel proprio cuore purificato da tutte le scorie umane e combaciante col ritmo dellโuniversalitร eternamente creativa. Il fuoco dunque rappresenta quello che potremmo chiamare dinamismo tradizionale, cioรจ il lavoro efficace che lโuomo deve compiere per realizzare le formule apparentemente statiche e monotone che sono espresse dal complesso tradizionale. La tradizione si applica a tutti indistintamente, essa dunque deve assumere una formulazione priva di qualsiasi carattere personale; ma ciascuno ha da assimilare per proprio conto la formula, destarla col fuoco interiore, farne un veicolo di trasfigurazione, un lampeggiamento progressivo che sโinnalza dalla sfera umana a quella divina per restituire lโuomo alla sua vera destinazione che รจ il cielo.โ
Nella fase arcaica della civiltร romana, il focolare domestico โsensibilizzava e simboleggiavaโ la โpresenzaโ del Genio, del Lare, dei Penati e dei Mani: era dunque simbolo della โfiamma sacra della stirpeโ, la quale โdoveva ardere ininterrottamente nel centro delle case patrizie, nel tempio posto nellโatrium, luogo ove il pater familias celebrava i riti e in cui si raccoglievano i vari componenti del gruppo domestico o gentilizioโ [Evola, La tradizione di Roma, p.179].
Cosรฌ dunque, come gli antichi Indiani dei Veda adoravano Agni, i Romani delle origini onoravano il fuoco nel suo aspetto piรน elevato, olimpico, luminoso, e al tempo stesso vedevano in esso non una realtร meramente โtrascendenteโ nel senso dei monoteismi semitici, ma al contrario lo consideravano immagine immanente di un principio superiore, metafisico, per mezzo del quale essi vivevano lโappartenenza a una stirpe come unโelezione sacra: come una โchiamataโ del Genius della gens. Scrive ancora Evola [La tradizione di Roma, p.180]:
โQuesto ente del fuoco appariva il naturale intermediario fra il mondo umano e lโordine sovrannaturale. Partendo dallโidea dellโunitร , realizzata nel sangue e nella razza, del singolo con una forza che, come il genio o il lare, era giร piรน che fisica, lโuomo antico fu convinto della possibilitร reale di influire, appunto per questa via, sul proprio destino e di far sรฌ che alle sue forze ed azioni fosse dโausilio una influenza trascendente che, attraverso il mistero del sangue e della razza cui si apparteneva, riti speciali dovevano propiziare e nobilitare. ร un carattere specifico del culto delle piรน antiche societร arie il suo antiuniversalismo. Lโuomo antico non si rivolgeva ad un Dio in generale, Dio di tutti gli uomini e di tutte le razze, ma al Dio della sua stirpe, anzi della sua gente e della sua famiglia.โ
Da quanto detto, si puรฒ ora comprendere pienamente il significato del sacrificio offerto, mediante il focolare domestico, agli dรจi Lari, Penati e al Genius della stirpe. Abbiamo giร sottolineato in apertura come il significato latino di โsacrificareโ implichi il compimento di unโazione, sostenuta da una precisa consapevolezza verso il significato occulto della medesima, in virtรน della quale lโazione viene elevata a un piano piรน sottile di quello prettamente esteriore. Per mezzo del gesto esemplare previsto dal rito, e soprattutto grazie ad una giusta e cosciente attitudine verso il numinoso (la pietas latina), il momento veniva letteralmente โreso sacroโ: la potenza divina del Genius o del Lar familiaris poteva allora discendere nella domus e fluire liberamente dal focolare a tutti i partecipanti al rito. In questo senso, riconosciamo nella dottrina del sacrificio romana la medesima concezione degli Indiani dei Veda, per i quali, secondo la lezione di Ananda Coomaraswamy [La dottrina del sacrificio, p.187]:
โIl Sacrificio assicura la circolazione perpetua della โCorrente dโAbbondanzaโ โฆ : il nutrimento raggiunge gli Dรจi per mezzo del fumo dellโofferta nel fuoco, il nostro nutrimento ridiscende dal cielo con la pioggia, e cosรฌ via fino a noi grazie alle piante e al bestiame, cosรฌ che il Sacrificante e la sua gente non moriranno in miseria. Dโaltro canto, il beneficio supremo ottenuto dal sacrificante, che sulla terra ha ottenuto una vita lunga e sana, รจ la deificazione e unโimmortalitร assoluta. Questa distinzione tra ricchezze temporali ed eterne corrisponde a quella nettamente tracciata dai Brรขhmana, tra il mero compimento o patronato dei riti, e la loro comprensione. Il semplice partecipante non ottiene che il frutto immediato, mentre il Conoscente โฆ ottiene contemporaneamente i due fini dellโoperazione (karma, vrata).โ

Fides, Dharma, Anamnesi
Vogliamo concludere questo saggio con un excursus che ci sembra pertinente. Ritorniamo nuovamente a Julius Evola, che nella sua opera piรน nota, prendendo le fila dalle antiche concezioni dei Romani e di altri popoli tradizionali, giunse a mettere in relazione i culti gentilizi di cui abbiamo trattato in questa sede con quelli propri, a Roma antica cosรฌ come ad esempio nellโantica India e Cina, alle differenti caste. A suo parere [Rivolta contro il mondo moderno, cap.XIV, p.124]:
โLe caste, nellโordine di una tradizione viva, rappresentavano, per cosรฌ dire, il โluogoโ naturale dellโunitร quaggiรน di volontร e vocazioni affini; e la regolare, chiusa, trasmissione ereditaria preparava un gruppo omogeneo dโinclinazioni propizieโorganico-vitali ed anche psichicheโin vista dello sviluppo regolare, da parte dei singoli, di dette determinazioni o disposizioni prenatali sul piano dellโesistenza umana. Dalla casta il singolo non โricevevaโ la propria naturaโla casta gli dava piuttosto il modo di riconoscere o โricordareโ la propria natura e la propria volontร , offrendogli in pari tempo una specie di occulto patrimonio legato al sangue per poter realizzare armonicamente questโultima.โ
Parafrasando il filosofo romano, la libertร dellโuomo antico consisteva nel โpotersi ricongiungere al tronco piรน profondo della propria volontร , avente relazione col mistero della propria โformaโ esistenzialeโ [Rivolta, p.125]. โIn realtร โcontinuaย Evolaโquel che corrisponde alla nascita e allโelemento fisico di un essere, riflette ciรฒ che puรฒ dirsi, in senso geometrico, la risultante delle varie forze o tendenze in giuoco nella sua nascita: riflette cioรจ la direzione della forza piรน forteโ [pp. 125-126]. Questa concezione tradizionale, che si ritrova nella dottrina platonica dellโanamnesi e in quella norrena, contenuta nellโEdda e nella Vรถlupsรก, della โFonte di Mรญmirโ, si ritrova pure nelle due massime greche โConosci te stessoโ (col suo supplemento: โNulla di superfluoโ) e โSii te stessoโ.
Il concetto di fides, vale a dire โfedeltร al proprio essereโ, รจ lโequivalente del vedico dharma, derivante dalla radice indoeuropea dr (โsostenereโ, โportare o tenere in altoโ). Tale idea arcaica che la perfezione dellโesistenza umana non si misuri con un criterio prettamente materiale o utilitaristico, e neppure con una valutazione morale stricto sensu, ma che piuttosto consista nel realizzare compiutamente e attivamente la propria natura, il proprio dharma o, per usare la terminologia degli antichi ellenici, il proprio telos, รจ presente anche in Platone, Aristotele e Plotino, il quale insegnava: โOccorre che ciascuno sia ciascuno, che le azioni nostre siano nostre, che le azioni di ciascuno gli appartengano, quali esse pur sianoโ. ร dunque pienamente appurato come questa concezione dellโesistenza umana รจ propria di tutte le tradizioni indoeuropee, dagli Indo-Arรฎ agli Ellenici, dai Romani ai Norreni.
Tale concezione si potrebbe riassumere con due formule usate da Evola: โscoprire la dominante in sรฉโ e โfedeltร al proprio essereโ. Cosรฌ disquisisce il filosofo romano a riguardoย inย Rivolta contro il mondo modernoย [pp.126-127]:
โScoprire โฆ la โdominanteโ in sรฉ sulla traccia della propria forma e della propria casta, e volerla, trasformarla cioรจ in un imperativo etico e, piรน oltre, attuarla โritualmenteโ in fedeltร onde distruggere tutto ciรฒ che vincola alla terra come istinto, motivi edonistici, valutazioni materialiโtale รจ il fondamento dellโanzidetta concezione โฆ Ogni specie di funzione e di attivitร appariva in egual modoโe soltantoโcome punto di partenza per una elevazione in senso diverso, verticale, non nellโordine temporale ma in quello spirituale. Ognuno nella propria casta, nella fedeltร alla propria casta, nella fedeltร alla propria natura, nellโobbedienza non ad una morale generale, ma alla propria morale, alla morale della propria casta, sotto tale riguardo aveva la stessa dignitร e la stessa puritร di un altro: un servoโรงรปdraโpari a quella di un re.โ
In ultima analisi, alla luce di quanto detto, desideriamo concludere citando un pensiero alquanto condivisibile di Pasino [p.130], riconoscendo con lui che:
โIl vero furto perpetrato dalla scienza e dalla religione โฆ รจ proprio questo: aver derubato il popolo di un culto privato, lโunico e vero culto rappresentante un rapporto diretto tra Dio e Uomo, lโunico che affermasse la divinitร nellโuomoโ.

Bibliografia:
- Ananda K. Coomaraswamy, La dottrina del sacrificio (Luni, Milano, 2015).
- Henry Corbin, Lโuomo di Luce nel Sufismo Iraniano (Mediterranee, Roma, 1988).
- Georges Dumรฉzil, La religione romana arcaica (Rizzoli, Milano, 1977).
- Mircea Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose volume II (Sansoni, Firenze, 1980).
- Guido de Giorgio, La tradizione romana (Mediterranee, Roma, 1989).
- Julius Evola, Rivolta contro il mondo moderno (Mediterranee, Roma, 1969).
- Julius Evola, La tradizione di Roma (AR, 1977).
- Marie-Louise von Franz, Lโesperienza del tempo (Teadue, Milano, 1997).
- Rosalind B. Onians, Le origini del pensiero europeo (Adelphi, Milano, 2011).
- Andrea Pasino, Sangue Discendenza Iniziazione (Psiche2, Torino, 2014).
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