Gunung Padang: la “Montagna di Luce” giavanese, tra (fanta)archeologia e folklore

Siamo andati sull’isola di Giava, in Indonesia, per visitare il Gunung Padang, enigmatico sito archeologico che alcuni hanno definito «la più antica piramide al mondo». Dalla teoria “Out of Sunda” alle recenti rilevazioni con il metodo del carbonio-14, cercheremo di dare una collocazione storica alla “Montagna di Luce”, tra (fanta)archeologia e folklore.


di Marco Maculotti

Si è fatto un gran parlare, in questi ultimi anni, del sito archeologico del Gunung Padang (letteralmente, «Montagna di Luce»), situato nel villaggio di Karyamukti, a 25 km a Sud-Est rispetto alla città di Cianjur, nella provincia di Giava occidentale. A renderlo così noto è stato in primo luogo il ricercatore e prolifico scrittore Graham Hancock, oltre ad una pletora di studiosi sia indonesiani che internazionali che hanno appoggiato le teorie più fantascientifiche sul sito, adducendo per il Gunung Padang una vetustità di più di 20.000 anni e definendolo — alquanto erroneamente, come vedremo — «la più antica struttura piramidale al mondo».

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Foto dell’Autore. Tutte le fotografie di questo reportage sono da considerarsi di proprietà esclusiva di A X I S  m u n d i

Tra verità e mistificazioni, il sito ha attirato anche l’attenzione dell’allora presidente indonesiano Susilo Bambang Yudhoyono, il quale ne ha finanziato gli scavi e le ricerche scientifiche e lo ha visitato personalmente, complimentandosi con gli archeologi per il lavoro svolto; ha inoltre preso una posizione netta, che alcuni hanno interpretato come fortemente nazionalista, appoggiando l’ipotesi del Gunung Padang come «piramide più antica al mondo». Ma fino a che punto le teorie pseudo-scientifiche di Hancock & co. e l’orgoglio patrio sundanese ridestato da questa scoperta possono essere presi seriamente?

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Le analisi al carbonio-14 e le datazioni

Sviluppandosi su una serie di cinque terrazze successive, una rettangolare e le altre di forma trapezoidale, il sito occupa una superficie approssimativa di 3.000 metri quadrati, che ne fanno il più vasto sito megalitico di tutto il Sud-Est asiatico. Le cinque terrazze si raggiungono tramite una scalinata centrale, edificata con un numero eccezionale di blocchi di andesite di forma prismatica (i gradini sono esattamente 370, per una lunghezza complessiva di 110 metri e con un’inclinazione di 45 gradi), gli stessi che sono stati utilizzati per edificare le terrazze stesse, alcuni dei quali superano i 600 chili.

Non sorprende, quindi, che i sundanesi dichiarino quindi il Gunung Padang il sito archeologico più imponente dei Mari Meridionali. Ma quale età si può riconoscere obiettivamente alla sua edificazione? A questa domanda si è tentato di dare una risposta con le investigazioni del 2012, condotte da un team coordinato dal geologo indonesiano Danny Hilman Natawidjaja del Centro Indonesiano di Ricerca per le GeoTecnologie, con il plauso del presidente Yudhoyono.

A queste operazioni recenti si devono i rilevamenti con il metodo del carbonio-14, che hanno fornito per la terrazza più elevata una datazione di circa 5.000 anni. Un’età già impressionante, che viene tuttavia messa in ombra dalle datazioni degli strati inferiori: la seconda terrazza è stata datata a 7.000 anni fa, la terza 12.000, la quarta 17.000 e per il quinto ed ultimo livello si registra una vetustità di addirittura 24.000 anni! Per dare al lettore un’idea approssimativa, in base a questa teoria il Gunung Padang sarebbe 12.000 anni più antico del sito cerimoniale di Göbekli Tepe e la sua costruzione ebbe inizio quasi 20.000 anni prima di quella di Stonehenge e delle piramidi egizie!

Tutto ciò ovviamente contrasta fortemente con la visione accademica concernente la diffusione della “civiltà” e dell’uomo stesso nel Pacifico, che fino a poco tempo fa si riteneva giunto in quest’area solo pochi millenni orsono. Nondimeno le rilevazioni scientifiche del sito sembrerebbero confermare teorie “altre”, come quelle teosofiche che inquadrano la storia dell’umanità all’interno di una successione di cicli cosmici terminati in apocalittici cataclismi (l’area geografica indonesiana è stata spesso connessa da teosofi e ricercatori indipendenti al mitico continente sommerso di Mu/Lemuriao come quella dell’esploratore norvegese Thor Heyerdahl, che a metà del secolo scorso teorizzò l’esistenza di una civiltà oceanica e talassocratica altamente evoluta in grado, migliaia di anni fa, di portare la propria cultura — incentrata sulla navigazione, l’agricoltura e il megalitismo — da una parte all’altra dei due oceani, Atlantico e Pacifico.

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Una chiave di lettura meno “fantastica”

Si vedrà tuttavia che, per quanto certe ipotesi possano sembrare stuzzicanti, in ultima analisi raramente sono supportate da riscontri effettivi, perlomeno per quanto riguarda il Gunung Padang.

Pur essendo infatti reale ed indubitabile il carattere artificiale della disposizione dei blocchi prismatici di andesite nei cinque livelli del sito, non ci vuole molto a comprendere come questi non siano stati modellati da mano umana, ma costituiscano appunto blocchi naturali, di origine vulcanica, che gli antichi abitanti di questa area si sono limitati a disporre secondo le esigenze architettoniche e rituali; in questo si può avvicinare il Gunung Padang a un altro enigmatico sito archeologico del Pacifico, il Nan Madol a Pohnpei, in Micronesia, egualmente realizzato con blocchi prismatici di andesite.

Le datazioni ottenute dalle operazioni del 2012, quindi, sarebbero da riferirsi all’età geologica della pietra vulcanica utilizzata per l’edificazione del sito, e non — come invece Hancock & co. lascerebbero intendere — ai ben più recenti periodi di costruzione. Inoltre, bisogna sottolineare come l’opera dell’uomo si sia limitata a modellare la morfologia di una collina (ovviamente di origine naturale) già esistente, e non comprenda —  come lasciano intendere i ricercatori più fantasiosi — l’erezione di una struttura piramidale stricto sensu.

In altri termini, il basalto colonnare che si forma naturalmente (si veda ad es. il «Selciato del Gigante» in Irlanda del Nord o alcuni esempi simili in Islanda) sul Gunung Padang è stato utilizzato come materiale da costruzione ed è stato disposto secondo un piano architettonico: ma ciò non consente di legittimare né la definizione affibiata al complesso megalitico di «piramide più antica del mondo», né di attribuirgli un’età calcolabile nell’ordine delle decine di migliaia di anni.

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Dai Teosofi all’ipotesi «Out of Sunda»

Immergendoci ulteriormente nelle teorie ascrivibili al filone che è stato denominato di «archeologia eretica» (o fantarcheologia), si deve in primo luogo rilevare come i primi “semi” si possano rinvenire già all’inizio del secolo scorso — dunque ben prima di Hancock e dei suoi epigoni più recenti — con il saggio del teosofo C.W. Leadbeater (1854 — 1934) intitolato The Occult History of Java (pubblicato postumo nel 1951), una sorta di “minestrone” in cui, poco dopo aver dichiarato di volersi attenere agli studi archeologici e storici in merito, tosto si accinge a propinare al lettore una «storia occulta» dell’isola che, pur appoggiandosi talvolta a tradizioni realmente esistenti, se ne discosta in maniera del tutto arbitraria per corroborare la sua fantasiosa ipotesi di lavoro.

Pur non spingendosi ancora ad ipotizzare un’edificazione del sito risalente a decine di migliaia di anni fa come faranno in seguito altri, Leadbeater teorizzò una «invasione atlantidea» verso il 2.000 a.C., che avrebbe portato con sé i culti più abietti e le pratiche più sanguinarie, fra cui i famigerati sacrifici umani che si ritrovano negli studi etnografici degli ultimi secoli un po’ in tutto il Pacifico. A questa invasione ne sarebbero seguire altre di segno “contrario”, vale a dire foriere di una religiosità di tipo opposto, uranico-celeste: e queste ultime sarebbero da inquadrare nel quadro storico ben più ampio delle colonizzazioni degli «Arya» provenienti dal subcontinente indiano, la prima delle quali sembra essersi verificata intorno al 1.200 a.C., per poi giungere fino a quella del 700 d.C. della Dinastia Sailendra, cui si deve l’edificazione del complesso templare del Borobudur, il sito sacro buddhista più imponente del mondo.

Bisognerà comunque attendere la fine del Novecento per imbattersi nelle prime datazioni realmente eclatanti, come quella proposta dal medico e genetista Stephen Oppenheimer in Eden in the East. The Drowned Continent of Southeast Asia (1998). Quest’ultimo avanzò l’ipotesi che il vero Eden si trovasse molto più a Est rispetto al bacino mediorientale, e precisamente in una terra emersa che egli chiamò Sundaland (la denominazione e le linee-guida di questa ipotesi sono del biologo Desmond Sydney Johnson e risalgono al 1964), parzialmente inabissatasi circa 12.000 anni fa a causa di eventi cataclismatici (probabilmente di natura vulcanica).

Effettivamente, in mezzo alle tante ipotesi prive di fondamento, si deve riconoscere che i geologi stessi hanno individuato, al termine dell’ultima era glaciale (circa 10.000 a.C.) un innalzamento improvviso di circa 120 metri del livello del mare cui è seguita la separazione delle isole di Giava e Sumatra e del Borneo, precedentemente unite in un’unica terra emersa che comprendeva anche quello che oggi si presenta come l’arcipelago filippino, nonché la penisola malesiana e il Sud dell’Indocina. Secondo Oppenheimer da questo evento cataclismatico partì la dispersione dell’originaria popolazione di Sunda in tutto il Sud-Est asiatico e nel Pacifico, una teoria da lui denominata «Out of Sunda».

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Non ci volle molto perché una pletora di ricercatori più o meno accreditati rintracciasse nella mitica Sundaland l’Atlantide platonica: tra questi il geologo statunitense Robert Schoch (Voyages of the Pyramid Builders, 2003), il già menzionato Danny Natawidjaja (Plato Never Lies: Atlantis is in Indonesia, 2013), l’ingegnere idraulico indonesiano Dhani Irwanto (Atlantis: the Lost City is in the Java Sea, 2015), Zia Abbas (Atlantis: the Final Solution, 2002), William Lauritzen e Arysio Nunes dos Santos (Atlantis: the Lost Continent Finally Found).

Si tratta per lo più di mistificazioni fondate su mezze verità, come spesso avviene quando questo o l’altro autore ritiene di riconoscere in una terra più o meno prossima al rispettivo luogo di nascita la mitica Atlantide platonica. Ipotesi, queste, che diventano ancora più paradossali quando, come in questo caso, la mitica isola inabissata viene localizzata in un’area geografica del tutto avulsa dalle indicazioni geografiche del racconto del sacerdote di Sais a Solone, per come riportato da Platone nel Timeo e nel Crizia.

È comunque curioso che Irwanto localizzi il mitico Giardino dell’Eden sulla leggendaria isola di Taprobane, nel Kilimantan in Indonesia; un’isola menzionata anche da Deslisle de Sales nel XVIII secolo, il quale citò una fonte anonima secondo cui Atlantide si trovava a Taprobane, considerata al tempo però ubicata nel Ceylon (l’odierno Sri Lanka).

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La diffusione del megalitismo nel Sud-Est Asiatico

Ma allora che età si può riconoscere al Gunung Padang? Alcuni archeologi accademici, pur respingendo risolutamente le ipotesi più fantascientifiche di cui sopra, tendono a confermare una certa vetustità del sito, inquadrando la sua edificazione nell’ambito cronologico della rivoluzione neolitica, durante la quale sarebbero apparsi in tutto l’arcipelago indonesiano (Sumatra, Giava, Nias, ecc.), nonché più in generale nel Sud-Est asiatico (Vietnam, Laos) i primi siti megalitici: si parlerebbe dunque di un’epoca inquadrabile tra 10.000 e 4.000 anni fa.

Altri invece, fra cui V.L. Pérez Garcia, lo credono risalente all’età dei metalli, che nel Sud-Est asiatico si ha a partire dal 500 a.C., fino circa al 1.000 della nostra era. Pérez Garcia fa risalire l’edificazione del sito a un periodo «paleometallico» o età del bronzo-ferro, durante il quale sull’isola di Giava si praticava un culto di tipo animista.

Il fulcro delle pratiche cultuali era costituito dalla venerazione degli spiriti degli Antenati che si riteneva abitassero le cime dei monti e delle colline, che di conseguenza erano considerati sacri — credenze confermate anche in altre aree limitrofe, quali le isole di Timor e Sumba, dove peraltro la tradizione megalitica funeraria si è mantenuta in vita fino ai nostri giorni. Proprio agli spiriti degli Antenati dimoranti su queste vette, si sarebbero offerti sacrifici rituali anche umani, più recentemente di bufali d’acqua (animale che nella tradizione sundanese, indonesiana e più in generale Sud-Est asiatica presenta forti valenze psicopompe).

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Pérez Garcia, a conferma delle sue teorie, provvede a fornire un lungo elenco di siti preistorici giavanesi inquadrabili, come il Gunung Padang, nel novero dei cosiddetti punden berundak, vale a dire terrazze di terra e pietra di aspetto piramidale, a scaloni:

Concretamente es en Java Occidental, la región de Gunung Padang, donde abundan más las estructuras del tipo punden berundak: Kosala, Arca Domas (Rangkasbitung) y Lebak Sibedug / Cibedug (Citorek, Bayah), con 5, 13 y 11 terrazas respectivamente, en la provincia de Banten; Lembah Duhur, Pasir Ciranjar y Bukit Kasur (regencia de Cianjur), con 5 terrazas cada una; Hululingga, con 3 terrazas, y Gunung Gentong (regencia de Kuningan), con 6 terrazas; Pasir Lulumpang (Cimareme), Pasir Tanjung, Pasir Gantung, Pasir Luhur, Pasir Asteria, Pasir Tengah, Pasir Kolecer, Pasir Kairapayung y Cangkuang (regencia de Garut), con 13, 13, 9, 12, 11, 15, 15, 15, 11 y 3 terrazas respectivamente; Gunung Susuru (Kertabumi, regencia de Ciamis), Pangguyangan (Sukabumi) con 7 terrazas; Tampo- mas I y II (regencia de Sumedang), con 7 y 3 terrazas. Como ejemplos de terrazas megalíticas de Java Oriental podemos citar Gunung Penanggungan (regencia de Mojokerto), Gunung Argopuro (regencia de Bondowoso), Gunung Arjuno y Gunung Ringgit (regencia de Situbondo). Para terminar añadiremos el sitio de Pugung Raharjo, situado en el sur de Sumatra (regencia de Lampung meridional), justo al otro lado del estrecho de Sonda.

Pérez Garcia reputa tutti questi punden berundak alla stregua di centri rituali dove per secoli sarebbero stati compiuti sacrifici umani nell’ambito del culto degli Antenati. Pur presentando una indiscutibile eterogeneità, alcuni di essi — oltre alla tipica struttura piramidale a scaloni, ottenuta mediante la lavorazione artificiale di un colle naturale — sono disseminati dai “fatidici” pilastri prismatici di andesite che abbiamo già avuto modo di ritrovare, oltre che sul Gunung Padang, anche in quello micronesiano di Nan Madol.

All’elenco sopra riportato va inoltre aggiunta una lista di costruzioni simili, edificate probabilmente in tempi più recenti rispetto a quelle giavanesi, nell’area dei Mari del Sud comprendente le Hawaii, la Nuova Zelanda, Tahiti, Society Islands, Samoa, Tonga «e molte altre isole di questa estesa area dell’oceano Pacifico». Nel novero di questi siti archeologici l’autore include anche le marae polinesiane, piattaforme megalitiche rialzate, anch’esse teatro all’interno del complesso di pratiche cultuali delle popolazioni native di sacrifici umani officiati verso gli spiriti degli Antenati/eroi culturali ricordati nelle saghe epiche e folkloriche.

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Diffusione del megalitismo nell’arcipelago indonesiano.

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Credenze del folklore sundanese

Proprio per questo vogliamo concludere questo nostro viaggio nei meandri dell’«enigma Gunung Padang» interpellando — dopo aver sentito l’opinioni di geologi, scienziati, teosofi e archeologi — la voce del folklore locale. A questo proposito abbiamo domandato alla guida che ci ha accompagnato nella visita al sito archeologico: «Cosa tramandano le tradizioni popolari sulla quanto mai enigmatica “Montagna di Luce”?». 

La risposta non si è fatta attendere: come in molte altre parti dell’Indonesia o più in generale del Sud-Est Asiatico, anche nel caso del Gunung Padang le leggende attribuiscono l’erezione del sito megalitico all’operato di esseri mitici e sovrannaturali, che lo avrebbero completato in una sola notte. L’edificazione del sito in analisi in questa sede sarebbe stata condotta dal mitico re Siliwangi, personaggio dell’epica popolare che presenta tutti i crismi di eroe culturale del folklore sundanese. Ma credenze simili esistono, come detto, in un’area geografica molto più vasta, e si ritrovano, nella stessa Giava, persino nelle cronache mitiche riguardanti la costruzione del complesso templare induista di Prambanan, risalente al 850 d.C.. 

Nei quattro scatti dello slideshow qui sopra sono apprezzabili alcuni significativi dettagli riguardanti la lavorazione e il trattamento delle pietra di origine vulcanica da cui il sito è composto. In alcuni scatti sono visibili fessure perfettamente circolari che si possono individuare su numerosi dei blocchi prismatici presenti nel sito. Ancora più bizzarri sono i “segni” impressi in altri megaliti di andesite: alcuni ricordano — a parere della guida locale — l’ “impronta” di una zampa felina, mentre altri sarebbero da interpretare come “solchi” lasciati da dita umane.

Se l’archeologia accademica non osa pronunciarsi su tali stranezze, il folklore locale ne conserva ancora oggi memoria: la guida riporta la credenza che furono lasciati anticamente dal re Siliwangi e dalla sua “gente”, menzionando inoltre la capacità attribuita a suddetti eroi mitici di tramutarsi in felini e di rendere la roccia malleabile a loro piacimento. Leggende molto simili, curiosamente, si ritrovano dalla parte opposta dell’oceano Pacifico, sulla costa che dal Perù sale verso il Messico; si pensi, ad es., alle divinità “demoniche” degli Olmechi o delle culture di San Agustín (Colombia) e dei Chavín (Perù), tutte contraddistinte da tratti ibridi fra l’umano e il felino, nonché ai miti andini riguardanti l’edificazione “magica”, da parte di stirpe gigantesche e pre-umane (i cosiddetti «Gentili»), dei più impressionanti siti megalitici del Sudamerica. 

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Metamorfosi feline nel Sud-Est Asiatico

Credenze che ricordano quelle giavanesi sugli antenati mitici in grado di tramutarsi “magicamente” in felino si ritrovano anche nel subcontinente indiano, segnatamente fra i Kondh dell’Orissa, e nelle regioni del Meghalaya e dell’Assam occidentale (tribù Naga, Khasi e Garo). Nella suddetta area geografica, essi sono considerati i garanti dell’ordine socio-religioso a livello locale, nonché manifestazioni viventi di insigni antenati e di operatori del sacro defunti, e al tempo stesso divinità in qualche misura “demoniche” dimoranti all’interno della foresta. Sebbene Francesco Brighenti riporti l’ipotesi che connette questi culti e credenze all’influenza shivaita (ma anche a quella tantrica), sembra che generalmente (e soprattutto presso i Kondh) le cosiddette «tigri mannare» si ritrovino in convegni capitanati da Darni Penu, la dea della terra, ai cui comandi essi rispondono direttamente.

Ad ogni modo, l’ambito funzionale degli individui cui si riconosce questa capacità metamorfica è considerato essere quello sacrale, a fianco di sciamani e guaritori, e dunque ben lungi dal poter essere considerato esclusivamente negativo (idem nella tradizione sundanese, dove gli «uomini-tigre» sono considerati eroi culturali ed antenati mitici cui vanno resi grandi onori). Secondo una testimonianza collazionata sul campo dal Brighenti [Metamorfosi feline dei vivi e dei morti fra i Kondh dell’Orissa, p. 18],

« A livello individuale, un kradi mliva è destinato ad essere tale per volontà degli spiriti delle colline, soru penu, ma in origine, al momento della creazione del mondo, fu Darni Penu stessa che stabilì che ci dovessero essere uomini investiti dall’autorità sacerdotale e del potere magico-religioso ad essa inerente, uomini o donne dotati di poteri sciamanici e medianici, divinatori, guaritori, ed infine persone predestinate a sviluppare la facoltà della trasformazione in felino. »

Meno incoraggianti sono le credenze ascrivibili alla tradizione dei Garo del Meghalaya, dove queste entità ibride sono denominate matchadu e considerate maligne, anche per via delle supposte abitudini cannibaliche. Il folklore garo ricorda inoltre «l’epica lotta intrapresa contro i matchadu dagli antichi eroi che guidarono la tribù nelle sue attuali aree di insediamento nelle Garo Hills» [F. Brighenti, Credenze tradizionali nelle tigri mannare nel Meghalaya e nell’Assam occidentale, pp. 5-6]. Anche secondo le leggende garo gli «uomini-tigre» professerebbero una sorta di culto matriarcale nei confronti di «un essere immortale di sesso femminile, chiamato Durokma o Dorokma», o più semplicemente con l’appellativo di Matchama, «Madre-Tigre». Il luogo principale del suo culto era una grotta situata sulla collina di Koasi nelle Garo Hills, [p.7]

« […] ricoperta di enormi massi e sede di un cruento culto sacrificale garo fino al 1860 circa, quando il luogo venne ‘sconsacrato’ ad opera di un gruppo di Garo convertitisi al cristianesimo. »

Dal canto loro i Khasi, gruppo etnico di lingua austroasiatica stanziato nello stato indiano del Meghalaya, ritengono che i mitici esseri ibridi «a dispetto delle loro gesta a volte alquanto sanguinarie, usassero il loro potere soltanto per scopi buoni e nobili», e pertanto li venerano alla stregua di veri e propri eroi [p. 17].

Non di rado in queste testimonianze si trovano accenni al megalitismo o più in generale alla pietra, vista come oggetto in correlazione con la capacità teriomorfa: in alcune storie tradizionali khasi uno dei metodi per ottenere la metamorfosi sarebbe quello di strofinare il proprio corpo contro una speciale roccia, mentre nella tradizione kondh si ritiene talvolta che gli «uomini-tigre» siano spiriti dimoranti nei megaliti issati sui colli all’esterno del villaggio. Secondo i Bhoi-Khasi le «tigri mannare», dimoranti in «un mondo parallelo ben distinto da quello degli uomini», il cosiddetto ram-ia, si darebbero convegno presso dei «circoli di pietre situate nel folto della foresta» [pp. 19-20].

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L’analisi operata dal Brighenti sulle credenze nell’area indiana delle cosiddette «tigri mannare» è assolutamente degna di plauso e mette bene in risalto il substrato cultuale e culturale sciamanico sui cui si è innestato poi nei secoli il folklore: si parla di viaggi extracorporei, di patti con entità spirituali, di metamorfosi, di banchetti cannibalici che ricordano quelli dei Sabba del Medioevo europeo, dell’esistenza di un «mondo dei sogni e delle ombre» e di altre dimensioni “sottili” cui l’anima dell’estatico può fare visita.

Pur non potendo trattare a dovere l’argomento in questa sede, è importante sottolineare che, pur essendo spesso ascrivibili al mondo spirituale e “sottile”, non meno raramente questi «uomini-tigre» sembrano essere persone in carne e ossa, il più delle volte membri di confraternite iniziatiche che hanno un proprio corrispettivo anche nell’antica Europa (si pensi ai Luperci romani, ai Berserker e Úlfheðinn nordici, o ancora ai «lupi mannari» livoni, ai taltos ungheresi, ai kresnik istriani, ai calusari romeni, ecc.), nonché in altre aree geografiche (gli «uomini leopardo» dell’Africa nera).

Nondimeno — e qui concludiamo — la metamorfosi nella forma di tigre si può considerare caratteristica del Sud-Est asiatico: oltre alle già menzionate regioni del subcontinente indiano, essa si ritrova nella tradizione birmana e  in quella malese, in Thailandia come in Cambogia e Vietnam; e ovviamente nell’arcipelago indonesiano, sull’isola di Giava, dove svetta immobile, silente forse da millenni, il Gunung Padang, la «Montagna di Luce» che negli ultimi anni ha fatto tanto sognare (forse un po’ troppo ad occhi aperti) i sundanesi, dagli addetti ai lavori fino ai presidenti stessi.

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L’Autore presso il Gunung Padang, agosto 2018

Bibliografia:


4 commenti su “Gunung Padang: la “Montagna di Luce” giavanese, tra (fanta)archeologia e folklore

  1. Buongiorno, senza prendere una posizione in uno o nell’altro senso, ci sono peró alcuni temi che andrebbero approfonditi dal punto di vista tecnico, per poter screditare il lavoro del geologo Natawidjaja. Le tecniche di rilevamento, siano esse elettriche o sismiche, permettono di rilevare con certezza la presenza di vuoti e di distinguere i complessi rocciosi sani da quelli superficiali e dai materiali di riporto, di origine antropica. Quindi la ricostruzione geometrica della “piramide” dovrebbe essere alquanto oggettiva, cosí come la presenza di camere vuote e tunnel al suo interno. Come screditare il risultato ottenuto da strumentazioni di utilizzo diffuso e altamente affidabili?
    Per quanto riguarda le datazioni, da quanto ne so io, esse vengono fatte scavando a diverse profonditá e cercando resti antropici, che contegono carbonio (di solito si cercano resti di focolari). Questo metodo non ha nulla a che fare con la datazione delle rocce, che ovviamente non contengono C (esclusi casi particolare quali la grafite o simili). Quindi quanto avete scritto ha poco senso a mio parere: “Le datazioni ottenute dalle operazioni del 2012, quindi, sarebbero da riferirsi all’età geologica della pietra vulcanica utilizzata per l’edificazione del sito, e non — come invece Hancock & co. lascerebbero intendere — ai ben più recenti periodi di costruzione”. Non si data un basalto con il C14! E poi la roccia avrebbe tutta la stessa etá e non varierebbe con la profonditá (questo per natura genetica delle colonne basaltiche).
    Qui per arrivare ad una risposta si tratterebbe di analizzare in modo congiunto dei reperti considerati attendibili.
    In sintesi:
    – il geologo per primo afferma che le rocce usate sono naturali, sono evidenti basalti a struttura colonnare
    – il fatto che siano tutti di dimensioni simili peró, indica una loro parziale lavorazione
    – la loro disposizione e di origine antropica senza dubbio
    – la classificazione della struttura in piramide s.s. o no, dovrebbe essere facile in base ai risultati dei rilevamenti geognostici, in base ai volumi di rimodellamento della collina (qualcuno dovrá stabilire il limite per poterla considerare piramide)
    – sono stati trovati dei vuoti a profonditá che indicherebbero una grande rimodellazione della collina, ma non vengono esplorate. Lí si potrebbero trovare tutte le risposte

    Insomma, ben lungi dallo sposare teorie atlantidee, ma non mi sembra che si sia data una risposta chiara a tutto.
    Cordiali Saluti

  2. Concordo col commento precedente, la datazione di 20000 anni non è certo stata fatta sull’ andesite, ma sul c14

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