Da “L’invasione degli ultracorpi” a “La Cosa”: l’infezione, la possessione e la disumanizzazione

Come superbamente sottolineato da Thomas Ligotti, “Invasion of the Body Snatchers” di Don Siegel (ma ancora di più il remake di Philip Kaufman) e “The Thing” di John Carpenter trasportano sul grande schermo uno dei fantasmi più perturbanti della nostra epoca, che potremmo definire il triplice «spettro della disumanizzazione»: disumanizzazione della specie umana a causa dell’azione invasiva di un agente alieno; disumanizzazione della collettività umana nei confronti dei propri simili; disumanizzazione dell’individuo umano nel suo aspetto più intimo.


di Marco Maculotti
copertina: poster di “Invasion of the Body Snatchers” (“Terrore dallo Spazio profondo”), 1978

La vicenda di Invasion of the Body Snatchers (film di Don Siegel, uscito nei cinema nel 1956) è nota, e il remake del 1978 di Philip Kaufman la riprende pedissequamente. Elizabeth (Brooke Adams) confida all’amico Matthew (Donald Sutherland), ispettore igienico nei ristoranti di San Francisco, che da qualche giorno suo marito appare improvvisamente cambiato, come se fosse un’altra persona; nel frattempo in tutta la città emergono testimonianze simili. La vicenda diventa sempre più strana quando Jack e Nancy, due loro amici, rinvengono nella sauna pubblica dove quest’ultima lavora uno strano essere, simile ad un cadavere ma incompleto come un feto, cosparso su tutto il corpo da una strana peluria bianca.

Non ci vorrà molto a capire che la città è invasa da creature aliene le quali, sviluppandosi da un fiore e maturando in un baccello, assumono le sembianze dei loro bersagli umani dopo averli “assorbiti”, per poi sostituirsi a loro. È questo, come sottolinea Thomas Ligotti, «il motivo ricorrente dell’orrore sovrannaturale», che noi possiamo ritrovare anche in molti film di David Cronenberg, in Village of the Damned di Wolf Rilla (1960) e, come vedremo più avanti, ne La Cosa di John Carpenter [1]:

« qualcosa di terribile nella sua essenza arriva e avanza le sue pretese come un azionista nella nostra realtà, o in quella che noi pensiamo sia la nostra realtà esclusiva. »

Nondimeno, rispetto all’originale il remake di Kaufman trasportava la vicenda da una piccola cittadina degli States rurali a San Francisco, simbolo par excellence della grande metropoli della Nuova America post-rivoluzione culturale (e sessuale), con l’intento dichiarato di aumentare la prospettiva babelica e spersonalizzante della vicenda. In questo modo, pur mantenendo un messaggio critico verso la dimensione politica e comunitaria statunitense, rispetto alla pellicola originale il remake sposta il bersaglio dal maccartismo/comunismo all’individualismo/apparizionismo dell’epoca post-nixoniana e post-fordiana di fine anni Settanta. Il mondo, davanti alle cineprese di Hollywood non meno che nella vita reale, si avviava a essere sempre più inquadrabile come mera rappresentazione teatrale, in cui l’individuo assurgeva sempre più beatamente a maschera attoriale: gli hippies erano “maturati” e nel giro di una decade si erano tramutati in yuppies; dall’essere si passava all’esistere, dal comprendere al mero apparire.

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In altre parole, Kaufman sembra voler dimostrare come sia possibile assistere in uno schiocco di dita a un simile improvviso quanto incoerente abbandono di ideali e sentimenti fino a poco tempo prima considerati imprescindibili, a favore di un individualismo sfrenato ed egoista. Argomenti piuttosto attuali al momento in cui scriviamo, in cui il terrore della circolazione di un virus i cui effetti non sono ancora del tutto conosciuti — favorito dall’ambiguità e dalla contraddittorietà dei provvedimenti politici adottati allo scopo di governarne la diffusione — sembra tirare fuori il peggio delle masse, sempre più alla deriva in un naufragio che prima che comportamentale o culturale è ontologico, specchio dei nostri tempi.

In Terrore dallo spazio profondo, uscito nei cinema ormai più di quarant’anni fa, questa disumanizzazione dell’individuo (e delle masse, che altro non sono in fondo se non agglomerati di individui) emerge su più livelli: in primo luogo, ovviamente, a un livello meramente «fantascientico» o «sovrannaturale», nell’espediente narrativo delle persone «possedute» dagli ultracorpi provenienti dallo spazio siderale, e di conseguenza ormai private della loro umanità, vuoti simulacri che, pur presentandosi apparentemente identici a prima che avvenisse la trasformazione, di umano non presentano più alcunché. Come rileva Thomas Ligotti, sottolineando gli elementi perturbanti dell’Invasione degli ultracorpi nella sua opera saggistica La cospirazione contro la razza umana [2]:

« Che cosa viene a fare il potere alieno sul nostro pianeta? Viene a protrarre la sopravvivenza della sua specie ricreandola a nostra immagine. Ci basti perciò sapere questo riguardo alla sua meccanica e alle sue intenzioni: è uguale a noi, a parte che minaccia di rimpiazzare la sopravvivenza e la riproduzione della nostra specie con la sopravvivenza e la riproduzione della sua. La metodologia di questo potere alieno consiste nel creare nostri duplicati mentre dormiamo, impedendoci di risvegliarci nei panni di noi stessi, trasformandoci in un tipo di essere completamente diverso. »

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Si noti bene questa peculiarità della «possessione aliena», che magistralmente Ligotti sottolinea: l’ultracorpo, sebbene «non deriv[i] dal mondo umano ma da sfere estranee ed enigmatiche», si adegua alla nostra specie, al punto di rinunciare al proprio corpo (che apparentemente non possiede neppure, come un vero e proprio virus) per prendere possesso del nostro. Persino gli scopi ultimi del parassita alieno non differiscono granché, in ultima analisi, rispetto a quelli della razza umana: sopravvive e riprodursi; se serve, anche a discapito di qualunque forma di vita si trovi in sua competizione per la sopravvivenza e la riproduzione.

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E qui veniamo a un secondo livello di lettura, osservabile anche nella situazione che ci troviamo a vivere in questi giorni: da un’altra prospettiva la disumanizzazione dell’umanità avviene a un livello non fantascientifico, ma meramente sociologico: una volta che la psicosi inizia a diffondersi, nessun individuo si fida più del suo prossimo, arrivando a sospettare persino di mogli e mariti, genitori e fratelli: nei casi di emergenza si conferma come non mai che homo homini lupus. Anche dopo la trasformazione in ultracorpi, non viene meno questo istinto delatore: al punto che gli umani ormai posseduti dal virus alieno segnalano ai propri simili quelli che ancora sono immuni alla trasmutazione, emettendo grida repellenti e indicando i malcapitati con gli occhi fuori dalle orbite, per procedere talvolta a veri e propri linciaggi [3].

In più, a maggior ragione in una grande metropoli come San Francisco, ciascuno è virtualmente un estraneo agli occhi degli altri e nessuno è veramente in grado di riconoscere i sottili cambiamenti interiori che avvengono nelle persone che camminano per strada a pochi metri le une dalle altre: ultracorpi o meno, siamo diventati tutti estranei a noi stessi, l’uno con l’altro e noi stessi con noi stessi. Ecco una ragione tra le tante che rende il remake del ’78 ancora più terrificante (e realistico, nonché attuale) rispetto all’originale degli anni Cinquanta. Diamo ancora una volta la parola a Ligotti, che così continua la sua analisi del film [4]:

« Per via di queste trasformazioni, chi è caduto vittima degli ultracorpi è roso da due dubbi spaventosi. Il primo è che chiunque altro potrebbe non essere ciò che sembra: umano. L’altro è che egli stesso, addormentandosi, rischia la trasformazione. »

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Analizzata in chiave sociologica oltre che fantascientifica, la vicenda narrata ne L’invasione degli ultracorpi assume una nuova valenza ancora più raccapricciante per chi sappia leggere tra le righe: si colora di fosche tinte diventando l’allegoria di un periodo dominato non solo dall’individualismo, dall’alienazione e dall’arrivismo ma anche dalla paranoia, dalla demonizzazione del nemico e dalle teorie cospirazionistiche, nonché dal diffondersi di visioni apocalittiche e di sette e di gruppi estremisti che fanno dell’irrazionalità assoluta il loro stesso manifesto — lo stesso anno in cui Terrore dallo Spazio profondo uscì nelle sale si verificò l’allucinante suicidio collettivo di Jonestown, senza dimenticare gli assassini politici che funestarono l’intera decade ’70. 

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E tuttavia nell’ordito narrativo dell’Invasione degli ultracorpi — nel remake di Kaufman ancora più che nell’originale — si può individuare anche un terzo livello di livello, anch’esso doverosamente sottolineato da Ligotti. Infatti, se prima che avvenga la trasformazione in ultracorpo gli umani sembrano lottare con tutta la forza e  la determinazione che hanno per mantenere la propria umanità, che sola li contraddistingue dai consociati già «infetti», una volta che essa è avvenuta non viene vissuta così male dai «posseduti», che anzi sono grati di aver rinunciato alla propria umanità in cambio dell’eterna pace dei sensi che attende chi voglia spogliarsi del proprio essere più intimo o, per dirla con altre parole, della propria anima. Si tratterebbe dunque — parafrasiamo noi — di un moderno aggiornamento del topos della «cessione dell’anima» a una forza demoniaca [5]:

« A differenza del vampiro o dello zombie, stati di esistenza tutt’altro che desiderabili, la trasformazione in ultracorpi — che malgrado compaiano al plurale nel titolo del film somigliano più a elementi di un alveare che a entità uniche e individuabili — non sembra così male, sul piano oggettivo. Una volta assorbiti dal potere alieno i convertiti perdono le proprie qualità umane eccetto una: la soddisfazione, o felicità, se preferite. Nella loro esistenza diventano quietisti […]. È un destino peggiore della morte: la trasformazione in cui smetti di essere te stesso. È meglio morire che vivere integrati, anche se quella integrata è una vita di calma permanente e rassicurante, non più vulnerabile allo spavento e al disgusto. »

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Virus o non virus, invasione aliena o meno, Terrore dallo spazio profondo sembra così, in ultima analisi, prospettare un’eventualità che, pur essendo tecnicamente inquadrabile come del tutto umana, appare ancora più terrificante della rinuncia della nostra peculiare umanità in virtù dell’assorbimento in qualcosa di non-umano: vale a dire la speculare rinuncia alle emozioni, alle passioni e alle differenze che ci rendono realmente umani, in cambio di una adesione incondizionata a un sistema super-individuale e unipolare, in cui l’anelito a un asettico nirvana si risolve in fin dei conto nel non emozionarsi più, non più amare e nemmeno odiare: non pensare con la propria mente, né tantomeno opporsi ai soprusi e a ciò che, umanamente, non consideriamo accettabile.

In una scena topica del remake di Kaufman, un amico del protagonista ormai «posseduto» dalla protoplasmatica forza aliena invita il suddetto Matthew a rinunciare a ciò che lo contraddistingue in quanto essere umano, per diventare a tutti gli effetti uno di loro, unica «cittadinanza» che sarà permessa nel mondo che verrà, in cui ogni decisione verrà presa dalla informe Mente super-individuale dell’ultracorpo che, invisibile, governerà psichicamente l’intero alveare formato dagli esseri umani ormai «alienati»: «Non c’è più bisogno di odio o di amore», gli dice per convincerlo, fissandolo negli occhi con un sorriso ormai privo di ogni umanità. «Non fossilizzarti in concetti superati: stiamo evolvendo in una nuova forma di vita».

Questo terzo livello di lettura appare, nel momento in cui scriviamo, se possibile ancora più pregnante e attuale del secondo: in un mondo in cui tutte le opinioni sono etichettate, catalogate sotto forma di slogan e dicotomizzate il più possibile — processo, questo, che conduce inevitabilmente a una banalizzazione carnevalesca e a un appiattimento forzato di qualunque visione e opinione, per quanto lecita e degna di interesse essa possa essere –, la disumanizzazione dell’intero consorzio umano e la sua abdicazione nel pensare e nel formarsi delle opinioni degne di tal nome, delegandole a un’Autorità granitica e super-individuale, appare sempre più paurosamente simile a quella, esposta secondo una prospettiva fantascientifica, della pellicola di Kaufman.

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Una scena di “Terrore dallo Spazio profondo”, 1978

A questo riguardo, Ligotti estende la sua analisi a un altro imprescindibile film di quegli anni, anch’essa ascrivibile al filone dell’«orrore sovrannaturale»: The Thing di John Carpenter, uscito nel 1982. Anch’esso, similmente all‘Invasione degli ultracorpi, si rivela un eccellente vettore dei tre piani di lettura riguardanti quello che potremmo definire il triplice «spettro della disumanizzazione», che abbiamo trattato con riguardo al film di Kaufman: disumanizzazione della specie umana a causa dell’azione invasiva di un agente alieno; disumanizzazione della collettività umana nei confronti dei propri simili; disumanizzazione dell’individuo umano nel suo aspetto più intimo.

Lasciamo dunque, in conclusione di queste nostre brevi osservazioni che oggi appaiono così attuali, la parola conclusiva a Thomas Ligotti [6]:

« Nel suo schema ontologico, “La Cosa” di John Carpenter somiglia molto all’“Invasione degli ultracorpi”. Le motivazioni della Cosa sono le stesse: sopravvivere e riprodursi. Soltanto il metodo è diverso, e il risultato è un perturbante di grado tutto sommato maggiore. Poiché la creatura protagonista del film è in grado di riplasmarsi con le sembianze di qualunque forma di vita, i personaggi non possono mai distinguere chi è una “cosa” da chi non lo è, dato che la vittima della trasformazione conserva il suo aspetto, i suoi ricordi e il suo modo di comportarsi anche dopo che nell’essenza è diventata una mostruosità perturbante venuta da un altro mondo. Questa situazione porta i membri della stazione di ricerca antartica […] a dubitare dell’identità dei compagni: chi è una Cosa, e chi l’individuo di sempre? Naturalmente, quelli della stazione si dedicano a reprimere qualsiasi coscienza di essere “cosa”, così come chi assiste a un attacco epilettico si dedica al pensiero di non essere un insieme di parti fatte come sono fatte, un processo a orologeria anziché un essere immutabile la cui essenza non cambia.

Attraverso l’isolamento (togliendosi dalla testa questa possibilità) il testimone conserva la sensazione di essere un’entità idealizzata, integra e indivisa, non un meccanismo, una marionetta umana che non si riconosce tale. Può inoltre distrarsi dalle notizie sconvolgenti riguardo agli esseri umani guardando un film nel quale i personaggi sono vittime di un destino perturbante che però non può affatto verificarsi nella vita reale, essendo rappresentato sotto forma di invasione giunta da “sfere estranee ed enigmatiche” che lo spettatore considera avulse dal nostro mondo, il mondo dove sappiamo chi siamo noi e chi sono gli altri: membri di una specie che esiste per sopravvivere e riprodursi, gente comune che non ha niente che fare con il soprannaturalismo e il perturbante, che resta impermeabile al pessimismo di storie come “L’invasione degli ultracorpi” e “La Cosa”, i cui protagonisti muoiono o vengono deformati dalla battaglia per difendere la loro vita e umanità. »

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Note:

[1] LIGOTTI, Thomas: La cospirazione contro la razza umana, Il Saggiatore, Milano 2016, p. 51

[2] Ivi, p. 82

[3] L’uomo investito dalla macchina e linciato è, peraltro, Kevin McCarthy, protagonista del film originale del 1956 di Don Siegel, che qui appare solo in questo cameo.

[4] LIGOTTI, op. cit., p. 82

[5] Ivi, pp. 82-83

[6] Ivi, pp. 83-84