La peste e i simulacra del controllo sociale nel β€œDe Rerum Natura” di Lucrezio

Nel β€œDe Rerum Natura”, scritto durante l’era repubblicana e riscoperto solo nel Quattrocento, Lucrezio mette in scena la descrizione della peste di Atene del 430 a.C.: il quadro Γ¨ deliberatamente desolante e porta i tratti mitici dell’indefinitezza spazio-temporale che caratterizza le epoche crepuscolari. Caduti definitivamente i soggetti e gli orizzonti spazio-temporali, ciΓ² che rimane Γ¨ un tetro quadro di morte dalle forme spettacolari e macabre, che nondimeno l’autore sfrutta per veicolare una critica etica, facendo uso di un lessico solennemente ricco d’arcaismi, capace di sondare luoghi inesplorati dell’animo umano e della parola stessa.


di Salvatore Di Domenico
(revisione: Marco Maculotti)
copertina: John Martin, β€œLa distruzione di Pompei ed Ercolano”, 1821

Β 

IlΒ De Rerum NaturaΒ Γ¨ un vasto compendio didascalico in versi sul funzionamento dei fenomeni naturali, dal magnetismo ai simulacra dell’amore, dal volgere dei cieli negli accadimenti atmosferici al mutare di condizione dell’animo umano. L’opera Γ¨ composta di sei libriΒ il cui contenuto era inviso alla dottrina cristiana, al punto che nel Medioevo l’opera lucreziana non fu trascritta e dunque rischiΓ² di perdersi irreparabilmente. PerchΓ© ilΒ De Rerum Natura suscitava il timore dei difensori della cristianitΓ ? È presto detto: Lucrezio si proponeva, tra le altre cose, di disvelare gli ingannevoli aspetti dell’esistenza e di mettere in guardia gli uomini rispetto alla vanitΓ  del tempo, delle ansie come delle speranze, in un’ottica apertamente epicurea e incompatibile con la visione escatologica che contraddistinse il cristianesimo medievale. Per di piΓΉ, Lucrezio giunse ad attribuire ad Epicuro, neanche troppo velatamente, un ruolo addirittura messianico, che avrebbe potuto essere letto, a posteriori, come dicotomico rispetto a quello del Cristo.

Il testo venne riscoperto soltanto nel 1417, rimanendo dunque nel dimenticatoio della storia per oltre un millennio, essendo stato composto al culmine dell’etΓ  repubblicana, nel I sec. a.C. È questo uno dei motivi per cui l’opera porta con sΓ© un alone di mistero, ulteriormente accentuato dalla quasi totale mancanza di testimonianze biografiche sull’autore. A curare l’edizione del De Rerum Natura fu Cicerone che, pur diffidando dal suo autore in pubblico, in una lettera privata che ci Γ¨ giunta lo elogiava. Altri tra i piΓΉ grandi scrittori latini (Stazio, Quintiliano, Ovidio) ne elogiano lo stile, ma nessuno ne commentΓ² adeguatamente il contenuto. CiΓ² suggerisce che Lucrezio fosse in realtΓ  giΓ  inviso e β€œpericoloso” per i contenuti del suo libro giΓ  al suo tempo, prima dunque dell’avvento del cristianesimo, tanto che Ivano Dionigi parlΓ² di lui come di un Β«poeta sprotetto come lo fu DanteΒ» (che per motivi storici non lesse mai Lucrezio), individuando alcune analogie e differenze tra i due, entrambi definiti Β«poeti cosmici, poeti della salvazione e della conoscenzaΒ», benchΓ© posizionati su Β«poli teologici oppostiΒ».

Lucrezio, come detto, scompare in etΓ  teocratica. Tra i meriti che gli devono essere riconosciuti vi Γ¨ quello di aver tentato β€” in un’epoca florida ma prossima al declino delle guerre civili e giΓ  priva dei suoi dΓ¨i, dove si allentano le forti imposizioni del potere religioso β€” di disincantare le immagini usate dalla politica per controllare le masse. Quella lucreziana allora si puΓ² considerare alla stregua di una rivoluzione che si pone come obiettivo primario l’abbattimento di quel connubio tanto dannoso tra religione e politica e la decostruzione del sistema di controllo teocratico per mezzo del sapere scientifico (al punto che, forse troppo fantasiosamente, alcuni critici moderni ne vollero ravvisare addirittura un marxismo ante tempora, con riguardo all’anelito della liberazione del proletariato dal giogo del potere religioso, Β«falso e scellerato nella richiesta dei sacrificiΒ»).

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Uno dei motivi per cui mancano quasi del tutto notizie sulla vita dell’autore si puΓ² ravvisare nel suo quasi totale disinteresse per la vita mondana e politica della cittΓ , in ciΓ² perfettamente ligio alla massima epicurea del Β«vivi nascostoΒ». Alcune notizie, comunque, ci sono riportate quasi cinque secoli dopo la sua morte da San Girolamo nel Chronicon del IV d.C. Il santo, additando Lucrezio di un materialismo iconoclasta, accenna al fatto che il poeta soffrisse di una particolare follia, descritta come qualcosa che oggi chiameremmo disturbo bipolare:

Β« […] nasce il poeta Tito Lucrezio, che in seguito, impazzito per effetto di un filtro d’amore, dopo aver scritto negli intervalli di luciditΓ  della follia alcuni libri, che poi Cicerone rivide per la pubblicazione, si uccise di propria mano all’etΓ  di 44 anni. Β»

Ma quest’ultima informazione difficilmente risponde al vero, essendo San Girolamo l’unico a riportarla. Si puΓ² anche dare adito a certe teorie per le quali, perdendo la protezione del mecenate Memmio (a cui l’opera Γ¨ dedicata), Lucrezio sarebbe caduto in disgrazia e avrebbe scelto il suicidio per motivi politici β€” avvenimento, questo, d’altronde non raro nella storia romana.

Oltre queste congetture ipotetiche e ardue, comunque, Γ¨ da notare come spesso si sia tentato di giustificare il finale enigmatico e complesso del De Rerum Natura con la teoria della follia dell’autore e le scarse conoscenze antiche delle cause dei disturbi psichici. A quanto pare, tuttavia, Lucrezio curava tali suoi supposti disturbi con la filosofia e con la scrittura, mantenendo cosΓ¬ uno stato di luciditΓ  elevato, tanto che ad alcuni piace paragonare la sua follia β€œlucida” con quella che contraddistinse, molti secoli dopo, il Tasso.

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Nondimeno, se alcuni ritengono il De Rerum Natura un’opera incompiuta, altri vedono nel finale un messaggio di profonda potenza ermetica: l’opera termina con circa duecento versi che descrivono gli accadimenti immondi e osceni della peste di Atene del 430 a.C. A tal fine Lucrezio si ispira al modello di Tucidide, denotando tuttavia una maggiore ricercatezza psicologica, con la quale riesce a mettere in evidenza le conseguenze della malattia sui comportamenti squilibrati dei β€œmortali” giΓ  malati nell’animo, pregiudicando in tal modo il benchΓ© minimo spiraglio di guarigione, che invece in Tucidide sussiste fino all’ultimo.

All’inizio dell’ultimo libro, il VI, nell’elogio di Epicuro l’autore racconta di come gli uomini conducessero ormai delle vite scevre da qualsivoglia preoccupazione, con Β«la tavola preparataΒ» e lo stomaco sempre pieno, crogiolandosi nel bieco orgoglio di vedere la propria discendenza affermarsi socialmente e godendo mollemente dei beni accumulati; per poi concludere paragonando l’animo umano a un vaso corrotto (ovvero forato e incapace di adempiere la sua funzione) e sporco, capace di tramutare le cose buone in guaste. CosΓ¬ i versi 9-23, qui nella traduzione (seppur datata) di Pietro Parrella:

Β« Egli [Epicuro] scorse che, tutto essendo ai mortali giΓ  dato
per i loro bisogni, potendo abbastanza sicura
essi menar la vita, di fama, d’onor, di ricchezze
andar fieri e potenti, goder de la lode dei figli,
pur ne l’intimo petto recavano tutti confitte
spine d’affanni, e invano d’assidue cure ansiose
si tormentavano lo spirto, costretti a lamenti crudeli.
L’uomo stesso, egli disse, ne ha colpa, chΓ© in esso si guasta
come in corrotto vaso, quel ch’entro vi penetra e scende,
anche se buono: in parte perchΓ© mal connesso e forato
mai non si lascia empire, in parte perchΓ© di suo sporco
fetido lezzo tutto contamina quel che v’è chiuso. Β»

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Pieter Bruegel il Giovane, β€œProverbi fiamminghi”, 1559

Come si evince dal passo, gli uomini subivano egualmente una anxia cordi (Β«ansia del cuore, dello spiritoΒ») che, nascosta dietro le convenzioni sociali e le maschere che si avvicendano sul palcoscenico dell’esistenza esteriore, sarebbe in realtΓ  destinata a covare in maniera piΓΉ o meno latente, per esplodere poi nel grande dramma collettivo che causa per cosΓ¬ dire la β€œrottura degli argini psichici” (nell’opera lucreziana, la peste di Atene). CosΓ¬ facendo l’autore individua la tematica esistenziale della sua opera: ponendo l’attenzione non tanto agli alti ideali astratti della virtus quanto a quelli terreni della precarietΓ , sottintendendo a piΓΉ riprese come l’animo umano sia, de facto, perennemente insidiato da desideri indefiniti o irrealizzabili (esplicitati nel libro III).

A causa di un cosΓ¬ oscuro orientamento filosofico, in certe critiche moderne si Γ¨ parlato di Lucrezio come di un Β«poeta dell’angosciaΒ» o di un Β«poeta maledettoΒ», dovendosi tuttavia sottolineare anche un’interpretazione di segno opposto facente leva sull’immagine lucreziana di Β«scrittore luminosoΒ» (di lucida carmina), razionale e materialista, che si giovΓ² dell’adesione alla dottrina di Epicuro per denunciare il fatto, per lui incontrovertibile, che tutte le ansie umane proverrebbero unicamente dalla paura: paura della morte, degli dΓ¨i, del luogo ultraterreno; paura che Γ¨ mancanza di razionalitΓ , o di luce, nella nostra attitudine alla vita.

Troviamo allora molto difficile non collegare tale anxia cordi con i simulacra religiosi con i quali l’uomo inganna l’uomo: in questo senso quella lucreziana Γ¨ poesia di liberazione della massa dal potere soggiogante della religione o β€” dunque β€” della paura. A riguardo di ciΓ², si puΓ² citare come Cicerone scrivesse che gli aruspicina, ovvero coloro che facevano previsioni interpretando il volo degli uccelli nel cielo, dopo aver letto i movimenti e i versi di un avvoltoio o di una cornacchia o di altri uccelli, e dopo aver dettato al popolo le prescrizioni a cui avrebbe dovuto adeguarsi, talvolta, dopo essersi ritirati lontano da occhi indiscreti, essi ridessero compiaciuti della creduloneria del dΓ¨mos.

Aquila, Francesco Faraone; Raphael; Plague of Phrygia; The Morbetto
Francesco Faraone Aquila, β€œMorbetto” (incisione ispirata al dipinto originale del 1512-13 attribuito a Raffaello)

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Forse anche per questa ragione il libro VI (da alcuni studiosi denominato Β«libro metereologicoΒ») prosegue con la spiegazione di fenomeni atmosferici e geofisici β€” come tempeste e arcobaleni, maree e terremoti, eruzioni vulcaniche e inondazioni fluviali β€” volta a sbugiardare, con i mezzi discorsivi propri dell’epicureismo, le credenze incentrate sulla superstizione, irridendo chi crede all’immagine antropomorfa di Giove che, dalla sua sede olimpica, scaglia fulmini e tuoni e lampi sulla superficie terrestri, fenomeni per i quali esisteva giΓ  al tempo una dettagliata spiegazione fisica.

Durante l’epoca apicale della Repubblica, anni in cui Lucrezio scriveva, alle soglie storiche dell’impero, suddette pratiche superstiziose si configuravano forse come mai prima come mero strumento di potere. Nei tempi antichi, va ricordato, le conoscenze tecniche e scientifiche erano divulgate all’interno di ambienti segreti dal sentore iniziatico (cosΓ¬ come accadde in origine con la stessa scrittura), di modo che chi possedeva tali conoscenze, talvolta indispensabili per la sopravvivenza stessa (si pensi a quanto potesse essere utile saper distinguere una pianta velenosa da una commestibile, o banalmente saper riconoscere gli strumenti per accendere un fuoco), potesse sfruttare tali informazioni e tecniche per ottenere e consolidare certe forme di potere rispetto a chi, al contrario, le ignorava. (È, d’altronde, ciΓ² che al giorno d’oggi si ritrova in ambito economico con la denominazione di Β«asimmetria informativaΒ», condizione in cui un’informazione non Γ¨ condivisa integralmente fra gli individui facenti parte del processo economico; conseguentemente, una parte degli agenti interessati dispone di maggiori informazioni rispetto al resto dei partecipanti e puΓ² trarre un vantaggio da questa configurazione).

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Inoltre, nota Lucrezio, con i continui mutamenti che si registrano nel mondo del Divenire mutano anche i termini dell’anxia cordi di cui si Γ¨ detto (almeno nel suo reale declinarsi, se β€” a ragione β€” si vuole ritenere l’anxia cordi umana la medesima in tutte le epoche): questa sorge in primo luogo dal soddisfacimento dei bisogni naturali e primitivi e dall’ottemperanza automatica alle tendenze istintuali (come poteva essere il procurarsi o produrre del cibo o delle vesti o, ancora, il procreare). Si giunge allora a non riconoscere piΓΉ i bisogni reali e primari come fondamentali, bensΓ¬ come dovuti o giΓ  dati; e, dunque, quelli secondari come necessari. Tra i meriti che vanno riconosciuti a Lucrezio c’è anche questo: l’aver saputo smascherare questo inganno, accorgendosi che i bisogni che l’uomo reputa necessari in realtΓ  non lo sono, anzi al contrario, laddove pienamente soddisfatti, lo allontanerebbero irrimediabilmente dall’immanenza della vita, ovvero da ciΓ² che unicamente ha il potere di renderla un’esistenza autentica.

The angel of death striking a door during the plague of Rome. Engraving by Levasseur after J. Delaunay.
Jean-Charles Levasseur, β€œL’Angelo della Morte sfonda una porta durante la peste di Roma” (incisione ispirata al dipinto originale del 1879 di Jules Elie Delaunay)

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Con queste premesse, Lucrezio mette in scena la descrizione della peste di Atene. Il quadro Γ¨ deliberatamente desolante e porta i tratti mitici dell’indefinitezza spazio-temporale che caratterizza le epoche crepuscolari. Caduti definitivamente i soggetti e gli orizzonti spazio-temporali, ciΓ² che rimane Γ¨ un tetro quadro di morte dalle forme spettacolari e macabre, che nondimeno l’autore sfrutta per veicolare una critica etica, facendo uso di un lessico solennemente ricco d’arcaismi, capace di sondare luoghi inesplorati dell’animo umano e della parola stessa.

Innanzitutto accenna generalmente ai morbi che gravano sul mondo intero, a seconda dei diversi climi delle varie parti del globo terracqueo; quindi passa a menzionare quelli specifici che colpiscono generatim, cioΓ¨ Β«a seconda della specieΒ»: cosΓ¬, gli Egiziani soffrivano di elefantiasi (ispessimento cutaneo), gli Attici si ammalavano spesso ai piedi e i Greci agli occhi. Poi descrive come, anche senza il contatto fisico con il portatore del morbo, nuvole d’aria infetta possano estendere la sua diffusione in modo indiscriminato:

Β« Tal di pestiferi germi ondata, tal flusso letale
Nella Cecropia terra un giorno attoscΓ² le campagne,
rese mute le strade e prive di gente le case.
Trasse il contagio sua prima origine in fondo all’Egitto;
indi, gran tratto d’aria percorso, sui piani del mare
sorvolando, ristette al fine sul popolo tutto
di Pandione: infetti perivano gli uomini a torme. Β»

Successivamente si sofferma sui sintomi e li elenca, calcando in parte il modello di Tucidide: prima il morbo prende alla testa, che si accalda; poi gli occhi arrossiscono e la gola suda sangue. La voce allora lentamente si estingue e la lingua stillata di sangue, interprete dell’animo (Β«messaggera dell’almaΒ»), si fa pigra e scabra. La mente perdeva ogni raziocinio e i malati gemevano al suolo, devastati da un singhiozzare continuo. BenchΓ© a toccarli si sentisse solo un lieve tepore, gli ammorbati sentivano la pelle cosparsa di ferite bruciare a tal punto da non poter sopportare nemmeno un velo sottile; e con la medesima intensitΓ  ardevano anche gli organi interni. Gli infetti compivano meccanicamente movimenti spasmodici che ne logoravano i nervi fino allo sfacelo definitivo, segno rivelatore di una Β«soffocante angosciaΒ» (anxius angor) che li conduceva implacabilmente verso la morte.

Bruegel il Vecchio, Mad Meg
Pieter Bruegel il Vecchio, β€œMad Meg”, 1562

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Il passo lucreziano non si astiene dall’indagare la dimensione psicologica, dilatata follemente dall’atmosfera di disperazione collettiva che accompagnava il dipanarsi degli eventi, procedendo a un elenco degli atti di follia che conseguirono al contagio fisico: smaniosi di freddo e di vento i malati accorrevano per gettarsi nei pozzi o nei fiumi, pur senza trovare sollievo, talvolta morendo, e con occhi infiammati e stanchi chiedevano aiuto, ma non vi era farmaco che funzionasse; a peggiorare la situazione, il farmaco che salvava qualcuno altri uccideva e non v’era un rimedio che funzionasse per tutti. Le visioni di morte prendevano allora il sopravvento:

Β« Tregua il mal non aveva: giacevano, esausti di forze,
senza moto, gl’infermi. Volgevano questi, ansiosi,
occhi sbarrati, accesi dal morbo, ma chiusi pel sonno,
a domandare aiuto; ma, trepida e ignara, taceva
l’arte dei farmachi. Ed altri indizi apparivano allora
della morte imminente: sconvolta la mente, gravata
d’incubi e di tristezza […] Β»

Gli arti tremavano e il freddo si diffondeva in tutte le membra, un deperimento generale portava le tempie ad incavarsi e gli occhi ad infossarsi; nel giro di otto o nove giorni il morbo conduceva i malcapitati al decesso. Se il fisico di qualcuno resisteva alla virulenza della malattia, questa automaticamente si inaspriva e fiotti di sangue cominciavano a uscire anche dal naso; il morbo raggiungeva ogni parte del corpo e, con la chimera di evitare la morte, i contagiati ormai folli s’amputavano le mani o i piedi, o addirittura gli organi genitali. Alcuni obliavano ogni cosa e smarrivano del tutto la luciditΓ , regredendo ad uno stato di incoscienza totale.

Di piΓΉ: la descrizione di Lucrezio non si limita agli uomini infetti, menzionando pure animali anch’essi fiaccati del male, che si trascinano morenti seminascosti nelle foreste. Ma soprattutto vengono analizzati gli effetti del morbo tra chi non ne era contagiato. Nella psicosi collettiva creata da uno stato permanente di terrore e pericolo, la gente non sapeva piΓΉ reagire: chi, troppo bramoso di vita, rifuggiva tutti i cari per paura di ammalarsi, alla fine moriva a sua volta estraneo a ogni soccorso; il virtuoso che pur d’assistere i cari negli ultimi attimi si contagiava, spinto da un senso d’onore e dalla supplichevole voce dei moribondi, era destinato a seguirli subito nell’Oltretomba.

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Morivano anche numerosi bambini, sui quali corpicini martoriati dal morbo si ammucchiavano i genitori; altrove, bambini ancora in tenera etΓ  seppellivano i padri. Dai campi confluΓ¬ gran parte del contagio, che poi si riversΓ² nelle cittΓ  per Β«il denso accorrere d’infermi coloni da ogni giΓ  infetta zonaΒ». Chi non moriva per gli effetti del morbo, veniva fiaccato dalla povertΓ , che ovunque si diffondeva sempre piΓΉ, parallelamente alla peste.

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Pieter Bruegel il Vecchio, β€œIl Trionfo della Morte”, 1562

Anche gli dΓ¨i, privati definitivamente del culto, morivano e le pratiche venivano abbandonate, poichΓ© persino i luoghi sacri erano contaminati dal morbo e dalla morte. Non si teneva piΓΉ in onore il culto divino nΓ© c’era il timore dei numi; non si rispettavano piΓΉ i riti di sepoltura e sulle cataste erette per i roghi di altri la gente metteva i propri morti, dando cosΓ¬ vita a zuffe insensate.

Poi, il silenzio improvviso: cosΓ¬ termina il De Rerum Natura. volendo ritenere il finale genuino β€” ovvero voluto dall’autore, e non β€œmonco” –, si puΓ² individuare forse un punto di contatto con il modello omerico dell’Iliade, che pure finisce con un rito di sepoltura. Ma vi si puΓ² anche scorgere l’hysteron proteron (inversione cronologica degli eventi, inizio e fine) con cui Lucrezio chiude perfettamente il cerchio tematico riallacciandosi all’inizio dell’opera, suggerendone cosΓ¬ una lettura circolare, coerente alla dottrina della ciclicitΓ  degli universi che andava di pari passo alla dottrina atomica epicurea. Ma, d’altro canto, ci sembra che questo finale disegni anche un mondo sordo e privo degli insegnamenti di Epicuro, lasciando aperta l’incombente necessitΓ  di reperirli, oltre a dimostrare la vanitΓ  di quegli β€œdΓ¨i” tanto facili a cadere.

⁂ ⁂ ⁂

Ci chiediamo a questo punto quale sia il senso profondo di un finale cosΓ¬ fulminante, che tanto ha complicato, nella veduta d’insieme, l’articolazione delle predette posizioni critiche. A noi pare che Lucrezio per mezzo della descrizione cosΓ¬ β€œviva” degli effetti della peste, voglia in qualche modo β€œnormalizzare” o β€œumanizzare” la morte onde sconfiggerne il timor indelebilmente connesso alla sua innata impersonalitΓ  (vale a dire alla sua azione che compie in maniera indiscriminata e imprevedibile), distinguendosi in questo dal testo di Tucidide che, nel suo realismo cronachistico, sotto questo punto di vista appare paradossalmente piΓΉ ansiogeno.

Ci pare inoltre che, cosΓ¬ facendo, Lucrezio voglia in un certo modo prendere improvvisamente le distanze da se stesso e dal suo insegnamento (ecco dove alcune critiche vedono la follia o il bipolarismo dell’autore), cedendo, in appendice all’esposizione filosofica e scientifica ispirata ai princΓ¬pi di Epicuro, a una commozione suggestivamente patetica (nel senso di β€œricca di phatos”) e malinconica, quasi a ricordare con improvvisa luciditΓ  l’effimera vanitΓ  dell’universo, che in nessun altro modo puΓ² concludersi se non con la morte, che conduce ogni cosa manifestata indietro nell’immanifesto.

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Josse Lieferinxe, β€œPeste di Giustiniano”, circa 1497–99

Il richiamo dell’«inestinguibile seteΒ» con la quale si definisce sia l’Amore nel libro IV che la ricerca continua di vento e di fresco da parte degli ammorbati nel VI rende il tema della peste e quello dell’amore speculari, e dunque non separabili dal punto di vista dell’anxius angor, l’«affannosa angosciaΒ», vero e proprio morbo psichico connaturato al genere umano, che prende proteicamente varie forme all’interno dell’eterogeneitΓ  dell’esperienza umana. Amore e morte si collocano in questo modo sullo stesso piano: innamorato e appestato sono simili nella rispettiva Β«inestinguibile seteΒ» che li contraddistingue come un marchio a fuoco.

Come ultima nota di disincanto ci preme infine sottolineare come Epicuro affermi essere il suo insegnamento dei pochi e non dei molti, cosΓ¬ come probabilmente Lucrezio riteneva per pochi β€œcoraggiosi” la sua stessa opera: i piΓΉ preferiscono lasciarsi cullare da favole ben congegnate da chi di dovere per mantenere le masse nel quieto vivere e colmare le proprie angosce esistenziali con l’ausilio di falsi dogmi e credenze superstiziose. A tal proposito vogliamo concludere questa nostra analisi con alcune citazioni riportate da Seneca nelle Lettere a Lucilio:

Β« Scrive Democrito: β€œSecondo me, una sola persona vale quanto tutto il popolo e il popolo quanto una sola persona.” Dice bene anche quell’altro, chiunque sia stato (Γ¨ incerto, infatti, di chi si tratti); gli chiedevano perchΓ© si applicasse con tanto impegno a una materia che pochissimi avrebbero compreso, [e quegli] rispose: β€œA me bastano poche persone, anzi anche una sola o addirittura nessuna.” Eccellente anche questa terza affermazione, di Epicuro; in una sua lettera a un compagno di studi: β€œIo parlo non per molti, ma per te;” scrive, β€œnoi siamo l’uno per l’altro un teatro sufficientemente grande.” […]Β perchΓ© [Lucilio] dovresti rallegrarti se sono in tanti a capirti?” Β»

Cosi, ci piace pensare che nel finale del De Rerum Natura si possa leggere tra le righe anche questo approccio con cui Seneca si poneva nei confronti del suo interlocutore epistolare, e che Lucrezio sembrerebbe rivolgere direttamente al lettore:

Β« Io non scrivo per i molti, ma per te, che, giunto fino alla fine, ora osservi la follia degli uomini. Β»

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3 commenti su β€œLa peste e i simulacra del controllo sociale nel β€œDe Rerum Natura” di Lucrezio”

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