Figli di un dio minore: elementi gnostici nei manoscritti di Nag Hammadi

La scoperta di un’intera “biblioteca gnostica” a Nag Hammadi, in Egitto, nel 1945, ha rivelato al mondo il “pessimismo cosmico” di alcune tra le prime congreghe cristiane del Vicino Oriente, basato sulla differenza ontologica tra l’inconoscibile Dio-Padre dei Vangeli sinottici e il “Dio di questo mondo”, figura che presenta notevoli corrispondenze ma anche sensibili distinzioni con il Demiurgo platonico.

di Shady Dell’Amico

Io sono la saggezza dei Greci, ed il sapere dei barbari.

(Il Tuono: Mente perfetta)

Nel seguente articolo intendo esporre alcuni aspetti fondamentali di quel vasto movimento, filosofico e religioso, che prende il nome di gnosticismo. Facendo in particolare riferimento agli studi di Nicola Denzey Lewis, attualmente visiting associate professor alla Brown University, desidero presentare la questione a partire dall’evento più significativo per le ricerche del settore: la scoperta di un’intera biblioteca gnostica a Nag Hammadi nel 1945 [1]. Prima di questo inaspettato ritrovamento, le principali fonti erano gli scritti polemici di autori cristiani come Ireneo, Ippolito Romano, Epifanio e altri. Nag Hammadi ha permesso di verificare la loro attendibilità e di facilitare l’individuazione degli elementi centrali del fenomeno gnostico. In questa sede, da ultimo, ho introdotto una riflessione sulla presenza di elementi gnostici nel pensiero e nella società moderna e contemporanea. 


Una singolare scoperta

È una soleggiata mattina del 1945. Un uomo di nome Muhammad ’Alī al-Sammān sta scavando nei dintorni di Nag Hammadi, un villaggio dell’Alto Egitto, alla ricerca di un fertilizzante naturale simile al letame, e porta casualmente alla luce un orcio di terracotta contenente frammenti di papiro. Deluso di non aver rinvenuto un tesoro al suo interno, il giovane affida i codici a sua madre, che utilizza alcune delle antiche pagine per alimentare il fuoco del camino. La storia assume a questo punto tinte fosche: in uno scontro a scopo di vendetta, ’Alī uccide l’assassino del padre e affida i codici a un prete del posto per paura che gli vengano sottratti dalla polizia. Il prete comprende in parte il loro valore e li dona alla competenza di un maestro di scuola, il quale li spedisce al Cairo; lì finiscono in mano agli antiquari e sono venduti, nel 1951, ad un professore di Zurigo, che li acquista in occasione del compleanno di Carl Gustav Jung (non a caso uno dei codici di Nag Hammadi è proprio chiamato Codice Jung). Nel 1956 tutti i codici si trovano di nuovo in Egitto, al Museo Copto del Cairo, dove si realizza finalmente la portata del loro ritrovamento. Si tratta di una collezione di testi esoterici, di matrice gnostica e cristiana, riconducibili ai primi secoli dell’età imperiale; scoperta, questa, destinata – punto su cui concordano tutti gli interpreti – «a mutare per sempre l’immagine che abbiamo del cristianesimo antico» [2].


I codici di Nag Hammadi

I codici di Nag Hammadi – come ora sono universalmente conosciuti – furono originariamente scritti in greco e poi trascritti in copto, la lingua diffusa negli ambienti monastici egiziani intorno al quarto secolo, dove scamparono alla distruzione comportata dalla distinzione fra espressioni “ufficiali” e forme invece “illecite” di cristianesimo. È possibile – si tratta perlomeno della teoria più accreditata – che questa sorta di biblioteca gnostica venne volutamente nascosta quando il vescovo di Alessandria d’Egitto, Atanasio, stabilì con un atto ufficiale quali libri fossero legittimamente giudicabili come Scritture (dunque dotati di valore salvifico e di affidabilità) e quali invece erano da considerarsi testi proibiti, inutili e dannosi per la fede. Correva il 367 ed è possibile che allora, in un clima di pericolo generalizzato, un monaco del posto abbia deciso di salvare dalla distruzione questi scritti per seppellirli nel deserto con la speranza che qualcuno li riportasse nuovamente alla luce.

Si tratta anzitutto di testi controversi. Non c’è consenso, ad esempio, sull’attribuzione del carattere “gnostico” a questi codici, quasi si trattasse di opere “alternative” rispetto ad una versione ufficiale e dominante di cristianesimo ortodosso o proto-ortodosso. Nel secondo secolo, età della loro compilazione, non c’era infatti ancora un canone di testi ufficiali condiviso dai credenti della nuova confessione. Nato dal giudaismo, il cristianesimo aveva ereditato le scritture della comunità ebraica, tradotta in greco nella forma alessandrina della Settanta, e da un punto di vista formale non andava più in là di così. Non ancora dotato di una specifica identità teologica e dottrinale, questo stato nascente vide coinvolti numerosi progetti di interpretazione filosofica dell’esperienza fondante narrata dalle prime raccolte di detti e fatti della vita di Gesù di Nazareth. Le varie letture non erano “irrigidite” nelle espressioni definitive assunte poi con i Concili.

Nel bacino mediterraneo, infatti, si è assistito inizialmente alla proliferazione di opere assai eterogenee fra loro, tutte variamente ispirate dall’incontro fra la tradizione giudaica e quella greca. Nel secondo secolo solo alcuni testi (come per esempio i Vangeli sinottici o le lettere di Paolo) si erano già affermati, in modo informale e piuttosto spontaneo, come patrimonio condiviso della nuova esperienza collettiva delle varie realtà di fedeli, e venivano consultati accanto al testo greco della Settanta. Il tentativo di Marcione di abolire gli scritti veterotestamentari, a suo avviso fautori di un’immagine distorta di Dio, a favore di una rivelazione tutta incentrata sul Nuovo Testamento, venne violentemente osteggiato dalla Chiesa primitiva, che forse proprio così arrivò a un primo canone e a una definizione rudimentale della propria identità [3].

I codici di Nag Hammadi non vanno perciò considerate come una sorta di “Bibbia gnostica” in antagonismo con i vangeli sinottici o, in generale, con la letteratura neotestamentaria, quanto piuttosto – in linea con i vari commentari e scritture esegetiche del tempo – come opere di spiegazione del testo biblico. Tali scritti, infatti, [4]

non intendevano sostituirsi ai Vangeli, alle lettere di Paolo o alla Bibbia ebraica. Essi dovevano essere letti accanto a questi ultimi, molto probabilmente per guidarne l’interpretazione. In definitiva, gli gnostici nel secondo secolo si basavano verosimilmente su un corpus di scritture molto simile a quello dei loro avversari. Ciò che li differenziava era il modo di interpretarlo.

Nag Hammadi

Lo gnosticismo come pessimismo cosmico

Ma come interpretavano gli gnostici le Scritture? Questa domanda conduce al dibattito, acceso fra gli studiosi, sulla natura dello gnosticismo. In generale si tende a distinguere la gnosi, che è un atteggiamento speculativo atto a valorizzare un’interpretazione pessimistica del cosmo come luogo del caso e della pena, dallo gnosticismo, che invece descrive un complesso di sistemi metafisici (oscillanti spesso fra il teologico ed il mitico) sviluppatisi nel seno del cristianesimo nascente, sebbene non tutti riconducibili al cristianesimo nella sua forma proto-ortodossa e poi ortodossa. 

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In quanto categoria moderna, la definizione di “gnosticismo” è stata del resto assai criticata, dal momento che sembra descrivere un movimento unitario che invece pare non esserci stato. Tuttavia, pur riconoscendo che i primi secoli abbiano visto una pluralità di proposte e di spinte interpretative accostarsi in modo quasi paritario nella fitta rete di relazioni fra cristiani e non cristiani, gli studiosi ritengono comunque di poter individuare un tratto comune all’insieme diversificato delle tendenze filosofiche del tempo: l’anticosmismo, ossia la persuasione che il cosmo sia il prodotto deforme di un Dio minore, malvagio e arbitrario, contrapposto all’assoluta trascendenza del Dio buono identificato con il Bene di Platone ed il Dio-Padre dei Vangeli sinottici.

In generale le cosmogonie gnostiche – ben lontane dal discutere «dell’ordine armonioso del cielo, ricavato variamente nella totalità delle sue parti» (Timeo, 40a) – partono proprio da questo principio: il mondo è il luogo naturale del male, dell’odio, della sofferenza. La struttura costitutiva del cosmo lascia trasparire questo fondamento ontologicamente malvagio e assurdo dell’essere fisico, continuamente legato alla catena dei bisogni. La vita è male, per gli gnostici; l’universo stesso degli uomini, travolto da dinamiche di egoismo e di morte, non può che sprofondare in tenebre sempre più buie, nell’ignoranza e nella cecità che abbassano l’esistenza ad uno statuto bestiale, di sopraffazione e di aggressività, di schiavitù morale e di sottomissione alla sessualità. 

Il mondo non può essere il prodotto di un Dio buono – tutt’altro! Esso è la creatura abortita di un Dio malvagio, che si è rivelato alla storia nella figura di Jahvè, la divinità autoreferenziale e violenta che gli ebrei hanno assunto come unico Dio e che rappresenta l’ipostatizzazione della volontà di potenza, della forza e dell’arbitrarietà che dominano il cosmo. «Io formo la luce e creo le tenebre – dice Jahvè – io faccio il bene e io provoco la sciagura; io, il Signore, compio tutto ciò» (Isaia 45,7). Come può essere questo il Dio a cui i maggiori filosofi hanno fatto riferimento, e a cui Gesù di Nazareth ha invitato ad affidarsi, parlandone come principio di amore, di relazione e di vita?

Ecco che allora una trama di fondo viene a sbrogliarsi: questi due Dèi, dicono gli gnostici, non sono la stessa forza trascendente. Il male del mondo è innegabile, la sofferenza che emerge dalla vita vegetativa e il disagio che sferza quella psicologica non possono essere riconducibili a nessuna realtà positiva, a nessun Creatore che ha fatto il cosmo come «cosa buona» (Genesi 1,31). Il Dio dell’Antico Testamento, il despota rabbioso ed esclusivo, quella realtà demoniaca e tribale di nome Jahvè, lui ha creato il mondo, lui lo ha fatto a sua immagine e somiglianza, lui è il responsabile del male che tormenta l’esistenza dell’uomo; non il Dio-Padre, non il Dio filosofico di Platone, che si è rivelato nella storia greca e nella vicenda di Gesù di Nazareth come il vero Dio, come il Dio di tutti gli dèi, superiore a qualsiasi tirannide terrestre e celeste.

Ora quel principio assolutamente Altro ha avuto compassione degli uomini: contro il Dio dei giudei, ipostasi dell’arbitrio e della potenza, il vero Dio si è rivelato al mondo, e permette ai suoi eletti, attraverso la conoscenza (la gnosi), di “liberarsi” da questa vita di angoscia, così da poter superare i limiti ontologicamente malvagi della materia e tornare alla vera patria di tutti gli uomini teoretici, il regno di Dio, che è puro spirito intelligibile.

Johfra Bosschart, The Vision of Hermes Trismegistus, 1972

Il Dio minore: la fusione del Demiurgo con Jahvè

Il dualismo, dunque, radicalizza la polarità anima-corpo della filosofia platonica proponendo una visione pessimistica della realtà fondata su una sorta di ontologia del bisogno, del dolore e della morte, alla cui origine c’è un solo Dio, Jahvè, autore del male. Ora, l’aspetto forse più interessante dei testi di Nag Hammadi è che Jahvè viene – per una sorta di lettura incrociata del testo della Genesi con quello del Timeo – a essere identificato con il Demiurgo platonico, il dio artigiano che, inferiore alle Idee, plasma il cosmo secondo le coordinate matematiche delle loro proporzioni. Per le scuole gnostiche, infatti, [5]

la Genesi è un importante testo sacro, ma ci sono anche altri testi sacri con i quali essa deve essere armonizzata. Tra questi, i più significativi sono le lettere di Paolo e il Timeo, il dialogo platonico sulla creazione del mondo.

Il Demiurgo, in questa dinamica di sincretismo, diventa così l’autore della materia, di quella materia che è male e che sta alla radice dei bisogni fisiologici, fonte inesauribile del dolore umano, e dunque sarebbe il responsabile delle lacerazioni che impoveriscono e mortificano l’esistenza. Nell’antropologia gnostica non c’è posto per una sorta di natura spirituale del male, che è interamente ricondotto all’azione della carne, su cui agiscono tanto le pulsioni innate quanto i demoni (o Arconti, o persino dèi) che vogliono limitare l’essere umano alla polvere, alla terra. Alla materia. 

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In realtà, però, nell’uomo – ed è qui che emerge la possibilità di una salvezza – vi è anche, come in prigione, lo spirito (pneuma), spirito che proviene dal mondo pleromatico, patria felice del Dio inconoscibile, e che gli uomini hanno dimenticato di possedere fino alla venuta del Figlio, del Gesù-Logos, che ha rivelato come in tutti vi sia una “scintilla” di quella superiore realtà divina. La comprensione di avere in sé un “riflesso” di quel Dio totalmente altro porta alla negazione della vita come complesso materiale e traduce la spiritualità in una noluntas – anche se, stando ai Padri, spesso tutta teorica [6] – che fa dell’evasione dal mondo, patria del Demiurgo-Jahvè, il centro portante di ogni esperienza gnostica.

William Blake, The Great Red Dragon and the Woman Clothed with the Sun, 1805-10

Il Demiurgo gnostico ieri e oggi

Può sembrare strano, eppure non è così difficile trovare in alcuni insospettabili concetti della filosofia e della teologia moderna dei corrispettivi “aggiornati” del Demiurgo gnostico. La cultura moderna non conosce più, forse, le complicate mitologie del passato, in cui le forze che si agitano nelle dinamiche umane venivano a essere proiettate in una trascendenza non spaziale né temporale; eppure, ciononostante, non ha mai smesso di dare voce a delle scuole di pensiero che hanno fatto del pessimismo verso la vita della carne la ragione principale per motivare il mancato rapporto fra il mondo fisico e la giustizia morale. 

Ci si potrebbe domandare, ad esempio, se sia gnosticismo (o – come sarebbe meglio dire – gnosi) quel protestantesimo invasato che Nietzsche attacca, con l’aggressività di un riformatore, ne L’Anticristo e ne Il crepuscolo degli idoli (in quest’ultima opera con una celebre espressione: «La vita finisce dove ha inizio il “regno di Dio”» [7]). O, facendo un passo indietro, se lo sia il pensiero di Arthur Schopenhauer, che nel mondo vede il prodotto di una pulsione cosmica abile solo a tradursi nella moltiplicazione aggressiva della vita e nelle lotte di sopraffazione dettate dal bisogno [8]. Ci si potrebbe chiedere, ancora, se non rappresenti una forma rinnovata di gnosticismo la stessa filosofia di Simone Weil, almeno laddove pone il bene come “de-creazione”, e cioè come sottrazione alle dinamiche di potenza che strutturano la complessa realtà della vita materiale. 

Lo gnosticismo in qualche modo sopravvive, e il Demiurgo gnostico con lui, sebbene ora si chiami voluntas, ora si chiami potenza, ora divenga esplicitamente il principio diabolico della tradizione cristiana [9]. Ecco cosa si legge, ad esempio, in un diffuso scritto dei Testimoni di Geova [10]

Persone di diverse religioni chiedono a capi e guide spirituali perché c’è tanta sofferenza. Spesso questi rispondono che è volontà di Dio, il quale molto tempo fa ha stabilito quello che sarebbe accaduto, inclusi gli avvenimenti tragici. […] Sapete perché alcuni fanno l’errore di dare a Dio la colpa di tutta la sofferenza che c’è nel mondo? In molti casi se la prendono con l’Onnipotente perché pensano che sia lui il governante di questo mondo. Non conoscono una semplice ma importante verità che la Bibbia insegna. Come abbiamo visto al capitolo 3, il vero governante di questo mondo è Satana il Diavolo.

E infatti al capitolo 3 si legge: «Gesù non dubitò mai che Satana fosse il governante di questo mondo. […] Anzi, Gesù definì esplicitamente Satana ’il governante di questo mondo’ (Giovanni 12:31; 14:30: 16:11). La Bibbia lo definisce persino ’il dio di questo mondo’ (2Corinti 4:3, 4)» [11]. Ancora una volta c’è un Demiurgo malvagio, circondato da colleghi-Arconti, all’origine del male, così che Dio possa essere “scagionato” dalla responsabilità della sofferenza. 

In modo più elaborato e complesso, eppure partecipe delle stesse istanze dualiste e pessimistiche, questa tensione si ritrova anche all’interno della letteratura teologica contemporanea in ambito cattolico. Ecco cosa scrive un teologo contemporaneo come Vito Mancuso: «Della struttura originaria del mondo il cristianesimo è la contestazione» [12]. Per Mancuso, infatti, «tutti i corpi, dalle più grandi configurazioni celesti fino al più piccolo microrganismo terrestre, sono scaturiti dalla forza, da quel procedimento normato dalla forza che si chiama selezione naturale»: è la forza, scrive citando Pascal, la reine du monde [13]

Le sopraffazioni e le violenze che tormentano il mondo non sono che la spontanea conseguenza della costituzione intrinsecamente cieca e pulsionale dell’essere-energia, il quale, condensandosi in materia, determina la competizione e le dinamiche di morte che dalla natura giungono alla società e alla dimensione relazionale. Da ciò la conseguenza: il bene non è di questo mondo, è uno squarcio che la trascendenza compie nell’immanente realtà della carne e delle cose. «Il bene – scrive Mancuso – è contro la legge della natura» [14].

In generale dunque, a prescindere dalla New Age e dai recenti, quanto spesso banali, esoterismi pop che si riconducono all’antica sapienza gnostica (il cui manifesto è stato, presumo, Il Codice da Vinci del romanziere americano Dan Brown), può essere interessante notare come ben sopra il deserto di Nag Hammadi, e piuttosto lontano dalle fumose mistificazioni delle mode editoriali del momento, risuonino all’interno dei più svariati contesti “cristiani” e “filosofici” i temi e gli schemi concettuali – così poco avvertiti da chi li professa – del più suggestivo pessimismo cosmico del mondo antico.

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Conclusioni

Scrive Giustino nella sua prima Apologia: «Ci è stato insegnato che al principio, Dio stesso essendo buono, creò tutte le cose dalla materia informe a beneficio degli uomini» [15]. Ad averlo insegnato a Giustino e ai suoi – si legge – sono i Profeti, da cui «anche Platone ha desunto l’affermazione che Dio ha creato il cosmo plasmando la materia che era senza forma» [16]. Dopo questa ampia e inevitabilmente frettolosa panoramica, è forse possibile rendersi conto che ciò che contraddistingue il nucleo fideistico del cristianesimo dei primi secoli, come di poi tutto il cristianesimo ortodosso, è l’essenza intimamente platonica di concepire il rapporto che la divinità intrattiene col mondo. La convinzione, cioè, che l’universo sia opera di un principio creatore che volge tutto in bene, elemento rispetto a cui la mentalità gnostica, di ieri e di oggi, possiede severe perplessità. 

È una differenza da cui conseguono importanti implicazioni. L’odio che lo gnosticismo manifesta per il mondo è capace solo di tradursi in sovversione, ritiro dall’ordine sociale, resistenza alla realizzazione di istanze valide collettivamente. Diviene noluntas, astinenza dal volere e dal fare. La cornice in cui il platonismo e il cristianesimo inscrivono la creazione del cosmo, è, al contrario, finalizzata a un risvolto pratico: il proseguimento dell’opera di creazione nel mondo umano. La terra è responsabilità dell’uomo (cfr. Genesi 1,28) e lo stesso discutere su ciò che è avvenuto in principio si rivela finalizzato a una questione interamente etica, persino politica: «quale città debba essere la migliore e di quali uomini possa essere composta» (Timeo, 17c).


Note:

[1] Faccio perlopiù riferimento a N.D. Lewis, I manoscritti di Nag Hammadi. Una biblioteca gnostica del IV secolo, Carocci, Roma 2014. Edizione originale: Introduction to “Gnosticism”. Ancient Voices, Christian Worlds, Oxford University Press, 2013.

[2] Ivi, p. 33.

[3] «Un certo Marcione del Ponto – racconta Giustino – anche adesso sta insegnando, a coloro che lo seguono, a credere in un dio più grande del Demiurgo; […] facendo sì che molti bestemmiassero, rinnegassero che Dio era artefice di ogni cosa e credessero che sopra di lui un altro dio, più grande, aveva fatto cose più grandi» (Giustino, Prima Apologia, 26,5, in: Le apologie, Città Nuova, Roma 2001, pp. 51-52). Per questa separazione fra Jahvè ed il Dio neotestamentario sono molti i Padri della Chiesa – Ireneo in testa – che collegheranno il marcionismo con lo gnosticismo.

[4] Quasi del tutto superata è pertanto la posizione, fatta propria da Hans Jonas in un suo importante studio, secondo cui lo gnosticismo sarebbe il prodotto di un insegnamento pre-cristiano derivato dall’Oriente. Cfr. H. Jonas, Lo gnosticismo, SEI, Torino 2002. Prima pubblicazione: The Gnostic Religion: The Message of the Alien God and the Beginnings of Christianity, 1958.

[5] Lewis, I manoscritti di Nag Hammadi, cit., p. 226.

[6] Nelle fonti apologetiche i riti gnostici sono descritti qualche volta come eccessivamente austeri, qualche volta come come orgiastici e moralmente illeciti: vedi, ad esempio, l’estratto del primo libro del Panarion di Epifanio da Salamina citato in ivi, p. 61.

[7] F. Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, Adelphi, Milano 1983, p. 52. Prima pubblicazione: Götzen Dämmerung, 1889.

[8] Si veda, in particolare, il secondo libro in A. Schopenhauer Il mondo come volontà e rappresentazione, Einaudi, Torino 2013. Prima pubblicazione: Die Welt als Wille und Vorstellung, 1819.

[9] Nella teologia cristiana ortodossa, di matrice agostiniana, il male non è che privazione del bene, unica realtà ontologica (è per evitare questo dualismo ontologico i Padri della Chiesa hanno sostenuto che la stessa materia non è coeterna a Dio, ma viene dal nulla). Una figura come quella del Demiurgo gnostico non è in alcun modo identificabile con il diavolo della tradizione, privo di qualsiasi capacità creativa ed espressione di una deriva distruttiva frutto di un esercizio disordinato della propria libertà creaturale.

[10] Cosa insegna realmente la Bibbia?, Watch Tower Bible and Tract Society, Pennsylvania 2005, p. 108. Edizione originale: What Does The Bible Really Teach?, Watch Tower Bible and Tract Society, New York 2005.

[11] Di nuovo, in un’altra pubblicazione dal titolo emblematico, La Conoscenza che conduce alla vita eterna, si dice: «Dato che Satana è il governante di questo mondo e l’iddio di questo sistema di cose, lui e quelli che lo sostengono sono responsabili della presente condizione della società umana e di tutto ciò che affligge l’umanità. Nessuno può onestamente dire che sia Dio la causa di queste difficoltà» (La Conoscenza che conduce alla vita eterna, Watch Tower Bible and Tract Society, Pennsylvania 1995, p. 77. Edizione originale: Knowledge That Leads to Everlasting Life, Watch Tower Bible and Tract Society, Pennsylvania 1995).

[12] V. Mancuso, Rifondazione della fede, Mondadori, Milano 2008, p. 169. Prima edizione: Per Amore, Mondadori, Milano 2005.

[13] Ivi, p. 47.

[14] Ivi, p. 178. In realtà Mancuso rettifica la sua posizione nelle opere successive: da «coerente discepolo di Simone Weil» come si definisce nella Prefazione del 2008 di questa edizione, giungerà ad adottare posizioni diametralmente opposte, in linea con la teologia e la filosofia naturale del gesuita francese Pierre Teilhard de Chardin, secondo cui «l’amore, ben lungi da essere de-creazione, è il compimento della creazione, e tutto procede dalla materia, anche l’anima, anche lo spirito, anche l’amore» (ivi, p. 12).

[15] Giustino, Prima Apologia, 10,2, in: Le Apologie, cit., p. 34.

[16] Ivi, 59,1, p. 86.

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