“La casa dalle finestre che ridono”: feticcerie e (auto)sacrifici

Esattamente 45 anni fa, il 16 agosto del 1976, usciva nelle sale italiane “La casa dalle finestre che ridono”, il cult-movie di Pupi Avati ascrivibile al cosiddetto filone del Β«Gotico PadanoΒ». Nel film sono confluiti l’elemento perturbante della cultura contadina in cui il regista emiliano Γ¨ cresciuto e suggestioni nere piΓΉ esotiche, dalle macumbas caraibiche all’autosacrificio condiviso dal mistico e dal folle.

di Marco Maculotti

Originariamente pubblicato su INLAND: Pupi Avati, n. 10/2019, Bietti Editore

Β«La prima paura che ho provato Γ¨ sicuramente legata alla favola rurale e al rapporto con la morte, che nella cultura contadina ricorre sempreΒ» [1], ebbe modo di confessare Pupi Avati, rivelando la sorgente prima da cui sorse la sua personalissima poetica: quella del β€œgotico padano”, definizione coniata dagli esperti del settore per descrivere il suo peculiare modo casereccio di fare cinema dell’orrore. Un orrore non notturno e oscuro, ma piuttosto panico e meridiano, che colpisce perpendicolarmente la sua vittima designata (lo spettatore) come il sole al suo zenit nelle campagne dell’Emilia-Romagna. Un terrore atavico che emerge talvolta attraverso le maglie espositive delle fole contadine raccontate intorno al fuoco, le sere d’inverno, dai piΓΉ anziani ai piΓΉ giovani: proprio da quell’ascolto, il Nostro seppe distillare materiale prezioso ai fini dell’edificazione del suo personalissimo impianto narrativo orrorifico.

Non alla mera follia psicologica si deve dunque pensare, confrontandosi con il pittore Buono Legnani di La casa dalle finestre che ridono: a un certo punto della pellicola si parla esplicitamente, riferendosi al nefando operato di questi in combutta con le depravate sorelle, di Β«comunioni sacrificaliΒ», di Β«riti a base di sacrifici umaniΒ» e della Β«possibilitΓ  che gli uomini ancora oggi possano trovare contatti con i defunti attraverso queste praticheΒ», aggiungendo in seguito che i tre erano venuti in contatto con tali pratiche proibite in Brasile, dove avevano trascorso l’infanzia.

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Attraversando idealmente l’Atlantico e in qualche modo sincretizzando le tradizioni popolari nostrane con quelle afroamericane e caraibiche, Avati prese ispirazione da una serie di allarmi giornalistici di cui, a partire dall’ultimo ventennio del XIX secolo, si occuparono i quotidiani brasiliani: testimonianze sull’esistenza di Β«sessioni notturneΒ» e di feticcerie, sull’ambiguitΓ  delle pratiche e degli strumenti utilizzati – idoli mostruosi, radici sconosciute e liquidi sospetti. Fu allora che si cominciΓ² a parlare di Β«sacerdoti di culti maleficiΒ», Β«sessioni di possessioneΒ» (macumbas) e Β«associazioni maledetteΒ», i cui riti notturni si ispiravano allo spiritismo nero di origine sub-sahariana e all’adorazione degli orixΓ‘s [2].

Suggestioni esoteriche ed esotiche che il cinema italiano di quegli anni sfruttΓ² adeguatamente con una manciata di pellicole, a metΓ  strada fra l’horror canonico e il mondo movie, ispirate alle credenze tradizionali e ai rituali ancestrali di quelle popolazioni considerate in qualche modo β€œprimitive” ancora nella seconda metΓ  del XX secolo. Tra i risultati piΓΉ meritevoli sono da menzionare Il dio serpente di Piero Vivarelli (1970), Il paese del sesso selvaggio di Umberto Lenzi (1972) e Il profumo della signora in nero di Francesco Barilli (1974).

Di sacrifici umani, come detto, si tratta anche in La casa dalle finestre che ridono: con l’avanzare della narrazione, infatti, si scopre come il giovane che ha posato per l’affresco del San Sebastiano sia stato immolato dal pittore folle con la complicitΓ  delle sorelle, allo stesso modo di molti altri di cui non si saprΓ  mai il nome. Nondimeno, non dobbiamo dimenticarci che la prima vittima sacrificale dei nefasti rituali emiliano-romagnoli di cui si tratta nel film Γ¨ proprio lo stesso Buono Legnani, la cui immolazione lo conduce a continuare la propria esistenza nell’Altrove dei morti e degli spiriti disincarnati, donde prosegue la propria personale e spettrale conversazione con le consanguinee.

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Da una parte sacrificio e dall’altra, dunque, autosacrificio: il pittore si cosparge di benzina e si dΓ  alle fiamme, in un gesto estremo ascrivibile all’ambito entropico della kaos magick che ricorda le azioni dimostrative dei monaci buddhisti in protesta prima contro l’occupazione cinese del Tibet, poi contro la guerra statunitense in Vietnam. CosΓ¬ facendo egli si eternizza ritualmente nell’atto di trasmutarsi nella pira funeraria che segnerΓ  il suo passaggio ontologico dalla condizione umana a quella larvale e la sua riduzione, contemporaneamente, a scheletro e a spirito. È bene ricordare, a questo proposito, come le tradizioni sciamaniche insegnino che tramite la meditazione sullo scheletro (che Γ¨ al tempo stesso ciΓ² da cui si forma inizialmente l’intero corpo umano e ciΓ² che rimane alla fine dell’esperienza terrena) lo sciamano possa giungere estaticamente al mondo degli spiriti (che Γ¨ anche un regno dei morti), al tempo stesso l’Origine e la Fine di tutto (esattamente come lo scheletro per l’essere umano) e quindi superare egli stesso la condizione umana.

Di piΓΉ: Buono Legnani blatera, come se fungesse da β€œcavalcatura” per un loa caraibico, di colori che escono dalle sue vene; e Terence McKenna riporta di sciamani jivaro, tribΓΉ amerindia dimorante nell’intrico dell’Amazzonica ecuadoregna, che sarebbero in grado di sprigionare, in uno stato di trance indotta dall’ingestione di ayahuasca, una sorta di Β«fluido di colore viola o blu scuro, direttamente dai pori della propria pelleΒ». Essi basano gran parte della propria pratica magica su questa sostanza, grazie alla quale, spargendola sul terreno, riescono a vedere davanti a loro Β«altri luoghi e altri tempiΒ» [3] (come il regno dei morti a cui ha accesso il pittore folle nel film di Avati). E ancora, si puΓ² rilevare l’anelito del Legnani a retrocedere misticamente all’Origine delle cose, sublimandosi nella coincidentia oppositorum di maschile e femminile (come pure la sorella-prete, interpretata/o da Eugene Walter), e ritornando idealmente alla β€œforma prima” dell’Androgino Primordiale, precedente alla separazione dei sessi e a quella – omologa, ma posta su un livello archetipico-ontologico superiore – fra spirito e materia.

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Ovviamente nella mitopoiesi filmica di Pupi Avati tΓ²poi sacrali ora richiamati si presentano orrendamente invertiti, cagionando per il Legnani, le sorelle e i malaugurati compaesani la precipitazione nell’incubo piΓΉ indicibile. Ne consegue che, come avviene anche altrove all’interno della produzione cinematografica del Nostro – per esempio nel successivo Zeder (1983) o nella serie tv Voci notturne (1995) – per quanto i personaggi mirino arditamente a oltrepassare il limite dell’esistenza umana, immancabilmente si trovano intrappolati in una sorta di mondo totalmente altro, oscuro, lontano e non inquadrabile geograficamente, poichΓ© posto su un piano dimensionale ulteriore e mysteriosamente tremendo [4].


Note:

[1] Dichiarazioni di Pupi Avati contenute in Adamovit Ruggero, Bartolini Claudio, Il gotico padano. Dialogo con Pupi Avati, Le Mani, Recco 2010, pag. 49

[2] Mazzoleni Gilberto, Maghi e messia del Brasile, Bulzoni, Roma 1993

[3] McKenna Terence, Vere allucinazioni, ShaKe, Milano 2008, pp. 78-79

[4] Otto Rudolf, Il sacro, SE, Milano 2009

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