Pierre Hadot e gli esercizi spirituali nell’antichità 

Il saggio di Pierre Hadot offre la possibilità di immergersi nella pratica filosofica diffusa soprattutto in epoca ellenistica: un’arte della vita tesa a formare gli uomini in armonia con sé stessi e con ciò che li circonda. 

di Lorenzo Pennacchi

Copertina: Raffaello Sanzio, La scuola di Atene, stanze vaticane, 1509-11

In ultima analisi, qual è la cosa più utile all’uomo in quanto uomo? Discorrere sul linguaggio, o sull’essere e il non essere? Non è piuttosto imparare a vivere una vita umana? 

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Con queste parole il filosofo francese Pierre Hadot (1922-2010) definisce il senso della pratica filosofica nell’antichità. Nel suo saggio, composto da vari contributi, Hadot si riferisce alla filosofia come un atto di conversione, un’arte della vita (téchne tou bíou) tesa non soltanto all’apprendimento quanto alla trasformazione consapevole degli individui in relazione al mondo circostante. Un amore (philo) per la sapienza (sophía) incarnato compiutamente per la prima volta da Socrate, ereditato da Platone e Aristotele, e poi ricercato dalle scuole ellenistiche: dall’Accademia al Liceo, dalla Stoà stoica al Giardino epicureo, dagli scettici ai cosiddetti movimenti socratici minori (cinici e cirenaici).

Hadot evidenzia ripetutamente la differenza proposta dagli stoici tra il discorso sulla filosofia e la filosofia stessa. Il primo è caratterizzato dalla suddivisione in tre parti – la logica, la fisica e l’etica – propedeutiche all’apprendimento. Epicuro e i suoi seguaci sono dello stesso avviso, e progressivamente l’idea si diffonde anche tra i platonici e gli aristotelici. Nel II secolo d. C., all’interno del suo Manuale delle dottrine platoniche, Alcinoo opera la distinzione della teoria filosofica in tre campi [2] e poco dopo Alessandro di Afrodisia, il commentatore per eccellenza di Aristotele, interpreta le teorie del maestro in modo sistematico, coordinando tra loro i vari trattati per rispondere alle nuove questioni sollevate dal periodo ellenistico [3]. Al di là del discorso che la caratterizza, però, la filosofia in sé ha una portata più ampia

La filosofia stessa, e cioè il modo di vivere filosofico, non è più una teoria divisa in parti, ma un atto unico che consiste nel vivere la logica, la fisica e l’etica. Allora non si fa più la teoria della logica, ossia del ben parlare e del ben pensare, ma si pensa e si parla bene, non si fa più la teoria del mondo fisico, ma si contempla il cosmo, non si fa più la teoria dell’azione morale, ma si agisce in maniera retta e giusta. 

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Per diverso tempo gli storici hanno insistito sulla radicale cesura della filosofia ellenistica rispetto al periodo precedente. Di fatto, come ricorda il professore Keimpe Algra, la morte di Alessandro Magno (323 a. C.) avrebbe inaugurato un’epoca di ansia e individualismo crescente in cui: «A seguito della fine della struttura tradizionale della città-stato greca, le persone si sarebbero sentite alienate e spaventate, e si sarebbero di conseguenza rifugiate in filosofie che non avevano più al centro l’uomo come entità politica, ma l’individuo e la salvezza individuale» [5].

Tuttavia, continua Algra, questa è una caratterizzazione esagerata dell’impatto del cambiamento avvenuto tra il IV e il III secolo. Allo stesso modo Hadot insiste sulla continuità tra i due periodi e sui punti di contatto tra le diverse correnti ellenistiche, per le quali la vita filosofica viene intesa come un percorso continuo verso la saggezza che si pratica in gruppo. Per questo ogni scuola sviluppa un atteggiamento interiore fondamentale, un certo modo di parlare e soprattutto degli esercizi spirituali: 

Esercizi della ragione che saranno per l’anima analoghi all’allenamento dell’atleta o alle cure di una terapia medica.

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Alessandro Magno durante la battaglia di Isso (333 a. C.).

Il termine spirituale può lasciare perplesso il lettore contemporaneo, ma le possibili alternative – psichico, morale, intellettuale – non renderebbero bene l’idea. Come spiega Hadot questi esercizi «corrispondono a una trasformazione della visione del mondo e a una metamorfosi della personalità» [7]. Essi segnano un doppio movimento: nell’interiorità dell’individuo, coinvolgendo la sfera psichica nella sua interezza, e verso l’esterno, relazionando il singolo con la totalità dell’universo. Non sempre gli studiosi hanno colto entrambi i movimenti. In uno degli ultimi saggi del volume, Hadot risponde al suo amico e collega Michel Foucault, che ha definito gli esercizi praticati dagli stoici e dai platonici come pratiche di sé volte a convergere verso l’individuo e a liberarlo dall’esteriorità. Al contrario l’interiorizzazione segna il superamento di sé

Penso che questo movimento di interiorizzazione sia indissolubilmente legato a un altro movimento, grazie al quale ci si eleva a un livello spirituale superiore, in cui si ritrova un tipo diverso di esteriorizzazione, un’altra relazione con l’esteriorità, un nuovo modo di essere al mondo, che consiste nel prendere coscienza di sé come parte della Natura, come particella della Ragione universale.

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Questa tesi trova assoluta conferma in riferimento all’oikeiosis, la teoria che si pone alla base dell’etica stoica. Letteralmente appropriazione, questa dottrina «combina insieme due tratti centrali del pensiero stoico: la cura provvidenziale per l’uomo, e l’affinità tra la ragione umana e la ragione divina che governa il cosmo» [9]. Di fatto la vita umana è caratterizzata da questo processo ordinato in senso provvidenziale di appropriazione progressiva (di sé stessi, della famiglia, degli amici, della comunità, della virtù [10]) che culmina nell’ideale e paradossale condizione del saggio, lo stadio finale del percorso in cui il conflitto tra libertà e necessità si annulla e ogni cosa risulta indifferente per il raggiungimento della felicità. Con le parole di Crisippo: 

È giusto anche chiamare […] il saggio l’unico uomo libero che non conosce sudditanza né soggezione alla passione; e poi ancora invincibile, perché, se anche il corpo lo imprigiona, quelle catene non possono nulla sul suo animo.

[11]
Crisippo di Soli (281-208 a. C. circa).

In linea generale gli esercizi spirituali consistono in due pratiche tra loro complementari. La prima è il controllo di sé, che si articola in maniera differente a seconda delle scuole: la ricerca della virtù per i platonici e gli aristotelici, la vigilanza radicale per gli stoici, il rifiuto delle norme socialmente riconosciute per i cinici, la sospensione del giudizio (epochè) per gli scettici, la rinuncia ai desideri superflui per gli epicurei. Del resto come osserva Algra, contrariamente a una visione troppo diffusa, «l’etica epicurea non è una ricetta per la dissolutezza e il continuo gozzovigliare» [12]. Rispetto ai dissoluti cirenaici, Epicuro e i suoi seguaci sanno godersi i piccoli piaceri quotidiani nell’ottica di un aumento qualitativo del piacere, acquisito attraverso l’assenza di dolore nel corpo e di turbamento nell’anima, come si legge nell’Epistola a Meneceo:

Ogni piacere è dunque un bene, perché ha una natura a noi familiare; ma non tutti i piaceri devono essere scelti. Così, ogni dolore è un male, ma non tutti i dolori sono tali da dover essere fuggiti. È allora appropriato valutare tutto questo mediante una misurazione comparativa e l’osservazione di vantaggi e svantaggi; perché talvolta trattiamo il bene come male e, viceversa, il male come bene.

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La seconda pratica è la meditazione che qui, contrariamente a quelle orientali, si caratterizza come esercizio «puramente razionale o immaginativo o intuitivo» [14]. Anche le meditazioni assumono diverse connotazioni a seconda dei casi: tensione verso le Forme per Platone, osservazione della realtà fisica al fine di orientare la propria condotta per gli stoici e gli epicurei, pura contemplazione per Aristotele. Nell’Etica Nicomachea lo Stagirita considera l’attività contemplativa la caratteristica propria dell’essere umano, affiancandola alla vita virtuosa all’interno della polis. Il sommo bene può essere raggiunto solo in una comunità politica organizzata in modo da garantire il pieno perseguimento della pratica filosofica: 

Ciò che a ciascuno è appropriato per natura è per lui la cosa più importante e più piacevole, e quindi per l’uomo lo è la vita secondo l’intelletto, dato che questo è, principalmente, l’uomo. E questa vita sarà, per conseguenza, la più felice. 

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La cura di sé e la meditazione sono dunque i due esercizi spirituali praticati costantemente durante il periodo ellenistico, con le relative differenze a seconda della scuola di appartenenza. Del resto «filosofare, in tale epoca, equivale a scegliere una scuola, convertirsi al suo modo di vivere e accettare i suoi dogmi» [16]. A ogni modo la vita filosofica nell’antichità è attiva e alcune realtà sono più dinamiche delle altre. Nel corso del tempo l’aristotelismo e l’epicureismo non mutano nella sostanza, continuando a diffondere le teorie dei propri fondatori, mentre lo stoicismo e soprattutto l’Accademia platonica conoscono numerosi cambiamenti. Basti pensare che alla morte di Platone (347 a. C.) il nuovo scolarca Speusippo, nipote del maestro, rigetta l’esistenza delle Forme, considerando solamente i numeri matematici come autentiche sostanze e oggetti di conoscenza.

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Trent’anni dopo Polemone sposta l’attenzione sugli aspetti etici del platonismo, sviluppando una dottrina rigorista e divenendo il maestro di Zenone di Cizio, futuro fondatore della Stoà. Successivamente, nella seconda metà del III secolo, con Arcesilao e Carneade l’Accademia si volge verso lo scetticismo. Gli scettici accademici, noti ai contemporanei come «coloro che sospendono il giudizio» (ephektikoi), si distinguono dagli scettici neopirroniani (skeptikoi [17]) per l’attitudine verso la vita quotidiana. Entrambi i movimenti sostengono la necessità dell’epochè: sospendere il giudizio è l’unica azione razionale possibile riguardo ogni questione teorica. Eppure, mentre gli accademici accettano un criterio di plausibilità per affrontare i problemi di tutti i giorni, i neopirroniani lo rifiutano categoricamente, considerando l’applicazione costante dell’epochè la via per giungere alla tranquillità dell’anima (atarassia), come sosterrà Sesto Empirico nel II sec. d. C.: 

Lo scetticismo è la capacità di proporre opzioni tra cose che appaiono e che sono pensate in un qualsiasi modo, una capacità mediante la quale, grazie alla equipollenza degli opposti di oggetti ed esposizioni, noi giungiamo dapprima alla sospensione del giudizio e poi alla tranquillità.

[18]
Sesto Empirico (160-210 d. C. circa).

Gli esercizi spirituali, pur essendo atti della ragione, sono rivolti alla pratica. Tra le varie suddivisioni possibili, Hadot ne definisce la portata identificando quattro direzioni di applicazione. Innanzitutto il controllo di sé e la meditazione insegnano a vivere. La vita filosofica si presenta come un percorso in grado di migliorare chi lo intraprende. In questo senso si afferma come una conversione: «La filosofia appare allora – nel suo aspetto originario – non più come una costruzione teorica, ma come un metodo inteso a formare una nuova maniera di vivere e di vedere il mondo, come uno sforzo di trasformare l’uomo» [19]. Ogni scuola sviluppa le proprie tecniche per intraprendere il cammino. Nei suoi studi Hadot si concentra soprattutto sull’attenzione al momento presente attuata con rigore dagli stoici. Un esercizio che libera dalle passioni generate dal passato e dal futuro, facilita la vigilanza e predispone l’individuo alla comprensione della coscienza cosmica [20]. L’imperatore filosofo Marco Aurelio (II sec. d. C.) attuerà e ricorderà frequentemente questo monito nei suoi Colloqui con sé stesso (Tà eis heautón): «Non lasciarti turbare dalla rappresentazione globale della tua vita intera» [21]. Commenta Hadot: 

Come è un’illusione immaginare che un canto sia qualcosa di diverso da una successione di note, che la danza non sia una serie di figure successive, così è un errore funesto lasciarsi turbare dalla rappresentazione globale di tutta la propria vita, dall’accumulazione di tutte le difficoltà e di tutte le prove che ci attendono. Come ogni continuum, anche la nostra vita infine è divisibile all’infinito.  

[22]

In secondo luogo la vita filosofica, in quanto praticata collettivamente, si fonda sul dialogo, così come si afferma dalla tradizione socratica in poi. I dialoghi platonici non sono semplici conversazioni caratterizzate da scambi di opinioni, ma rappresentano «il movimento di un’anima che, quando pensa, pone a se stessa domande e dà risposte» [23]. Con la sua instancabile tensione verso la conoscenza, che lo rende non tanto un sapiente (sophos) quanto un amante della sapienza (philósophos), Socrate coinvolge le persone in serrati scambi dialettici tesi ogni volta a definire l’essenza delle cose, ma non sempre in grado di farlo. Nel domandare che cos’è (Ti estì?) la virtù, il coraggio o la giustizia, conduce i propri interlocutori a preoccuparsi della loro coscienza. Così la pratica dialogica vuole formare piuttosto che informare:

Il dialogo socratico appare dunque come un esercizio spirituale praticato in comune che invita all’esercizio spirituale interiore, ossia all’esame di coscienza, all’attenzione a sé, insomma al famoso: “Conosci te stesso”

[24]
Jacques-Louis David, Morte di Socrate, 1787.

In terzo luogo gli esercizi spirituali accompagnano il filosofo per tutto il corso della vita, fino alla morte. Anche in questo caso la fine esemplare di Socrate, che rifiuta di scappare dal carcere nonostante l’ingiusta condanna ricevuta, è il modello da seguire: «Ha preferito morire, piuttosto che rinunciare alle esigenze della sua coscienza» [25]. Platone, profondamente segnato dalla tragica vicenda del maestro, affronta la morte rovesciandone la prospettiva attraverso la liberazione dalle passioni individuali e le costrizioni del corpo. È un esercizio spirituale, «una conversione che si realizza con la totalità dell’anima» [26]. Gli stoici vi si relazionano da una prospettiva cosmica, traendo dall’osservazione della natura le conseguenze per la vita pratica, che culminano nell’assoluta indifferenza del saggio per tutte le cose terrene, anche quella più estrema.

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Del resto per lo stoicismo la fisica – compresa attraverso la logica – è il fondamento dell’etica all’interno del discorso filosofico: dimensioni che, come si è visto, si compenetrano fino ad annullarsi nella filosofia in sé stessa. Gli epicurei sono dello stesso avviso. La loro concezione del mondo naturale, altrettanto materialistica ma per nulla provvidenziale, ha profonde ricadute sulla sfera morale, permettendo di sfuggire alle due grandi paure primigenie. La prima è quella degli dèi i quali, totalmente indifferenti alla realtà terrena, non si occupano delle questioni umane. La seconda è relativa alla morte, una falsa preoccupazione per chi sa che l’anima, essendo corporea, si disperderà con la dissoluzione del corpo: «La morte non è nulla per noi, perché ciò che è dissolto non ha sensazioni, e ciò che non ha sensazioni non è nulla per noi» [27]

Infine la pratica filosofica, proprio in quanto insegnamento di vita totalizzante, permette di approcciarsi ai testi da una prospettiva rinnovata, propositiva e autentica:  

Passiamo la nostra vita a «leggere», ma non sappiamo più leggere, ossia fermarci, liberarci dalle nostre preoccupazioni, ritornare a noi stessi, lasciare da parte le nostre ricerche della sottigliezza e dell’originalità, meditare con calma, ruminare, lasciare che i testi ci parlino. È un esercizio spirituale, uno dei più difficili. 

[28]
Epicuro (341-270 a. C.).

In questo contributo è stata presentata la portata della filosofia antica, soprattutto durante il periodo ellenistico, attraverso riferimenti ai testi originari, al saggio di Hadot e ad altri lavori di studiosi internazionali. Sono stati evidenziati temi, tratteggiati percorsi e sollevati interrogativi. Tuttavia si tratta – e non potrebbe essere altrimenti – di una rappresentazione parziale della pratica filosofica nell’antichità: un fenomeno eterogeneo e assai vasto che richiede analisi comparate per essere compreso nella sua totalità. Bisogna anche tenere presente che a seguito della fine dell’Ellenismo, con la caduta dell’ultimo impero dei diadochi di Alessandro (l’Egitto nel 30 a. C.), la filosofia continua il suo percorso prima nella Roma imperiale e poi in tutto il mondo tardo-antico in forme diverse tra loro. All’imperatore Marco Aurelio si affianca lo schiavo Epitteto, ai neoplatonici pagani (come Porfirio e Giamblico) si contrappongono i primi cristiani (Giustino e Clemente di Alessandria).

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Così gli esercizi spirituali mutano progressivamente e si incarnano nel monachesimo [29]. Con la fine del mondo antico in Occidente la filosofia viene eclissata per secoli, tornando solamente nel basso medioevo, grazie alla mediazione araba, come ancella della teologia. In epoca moderna, salvo rare eccezioni (tra cui B. Spinoza, J. J. Rousseau e F. Nietzsche), il pensiero filosofico si presenta come un sistema composto da una serie di dottrine non più da vivere, ma da studiare all’interno di una cerchia sempre più ristretta di specialisti. Eppure a distanza di due millenni, in una società malata e per certi versi degenerata, le pratiche filosofiche dell’antichità possono continuare a parlare agli uomini contemporanei. Come sostiene Hadot la filosofia, pur privata della sua dimensione comunitaria, può essere molto più di un piacevole lusso, aiutando l’uomo nella ricerca di sé stesso e dell’armonia con il mondo circostante: 

In un modo ancora più preciso, penso che l’uomo moderno possa praticare gli esercizi filosofici dell’antichità pur separandoli dal discorso filosofico o mitico che li accompagnava. […] Per esempio, stoici ed epicurei invitavano i loro discepoli, per motivi completamente diversi, a concentrare la propria attenzione sul momento presente liberandosi dalla preoccupazione del futuro e dal peso del passato. Ma chi pratica concretamente questo esercizio vede l’universo con occhi nuovi, come se lo vedesse per la prima volta, scopre, nel godimento del puro presente, il mistero e lo splendore dell’esistenza; allora, come diceva Nietzsche, noi diciamo sì «non solo a noi stessi, ma all’intera esistenza».

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Note:

[1] Pierre Hadot, La filosofia è un lusso?, in Esercizi spirituali e filosofia antica, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2005, p. 195.

[2] Che chiama teoretica, pratica e dialettica. Tuttavia l’opera di Platone non si presta facilmente a quest’operazione. Cfr: Dominic J. O’Meara, Platonismo, pitagorismo, aristotelismo, in Lorenzo Perilli e Daniela P. Taormina (a cura di), La filosofia antica. Itinerario storico e testuale, UTET, Novara 2012, p. 453.

[3] Cfr: Ivi, p. 463.

[4] Hadot, La filosofia come maniera di vivere, in Esercizi spirituali, p. 158. 

[5] Keimpe Algra, La filosofia ellenistica, in Perilli e Taormina, La filosofia antica, p. 310.

[6] Hadot, La storia del pensiero ellenistico e romano, in Esercizi spirituali, pp. 14-15.

[7] Hadot, Esercizi spirituali, in Esercizi spirituali, p. 30.

[8] Hadot, Riflessioni sulla nozione di cultura di sé, in Esercizi spirituali, p. 175. 

[9] Algra, La filosofia ellenistica, p. 357.

[10] La virtù stoica è composta dalle quattro virtù socratico-platoniche: la saggezza pratica (phronesis), la temperanza (sophrosyne), il coraggio (andreia) e la giustizia (dikaiosyne). Vanno intese in maniera complementare, visto che non se ne può possedere una senza le altre. 

[11] Crisippo, Stoicorum Veterum Fragmenta III 591, cit. in Roberto Radice, Stoicismo, Editrice La Scuola, Brescia 2012, p. 156.

[12] Algra, La filosofia ellenistica, p. 331.

[13] Epicuro, Epistola a Meneceo 129-130, cit. in Ivi, p. 330.  

[14] Hadot, La storia del pensiero ellenistico e romano, p. 15.

[15] Aristotele, Etica Nicomachea X (1178 a5-10), Editori Laterza, Bari 2018, p. 433.

[16] Hadot, La storia del pensiero ellenistico e romano, p. 16. 

[17] Pirrone, vissuto nel IV secolo a. C., afferma che nella vita esistono tre questioni importanti: 1) come sono le cose per natura; 2) quale posizione si dovrebbe assumere nei loro confronti; 3) cosa seguirà da tale posizione. In tutti i casi l’atteggiamento dovrebbe essere caratterizzato dall’assenza di opinione e parola, in grado di condurre all’atarassia. Cfr: Algra, La filosofia ellenistica, p. 370. 

[18] Sesto Empirico, Schizzi Pirroniani I 8, cit. in Algra, p. 372. 

[19] Hadot, Esercizi spirituali, p. 66. 

[20] Cfr: Ivi, p. 35.

[21] Marco Aurelio, Colloqui con sé stesso VIII, 36,cit. inHadot, La fisica come esercizio spirituale, in Esercizi spirituali, p. 125. 

[22] Hadot, La fisica come esercizio spirituale, p. 125.

[23] Monique Dixsaut, Platone, in Perilli e Taormina, La filosofia antica, p. 205. 

[24] Hadot, Esercizi spirituali, pp. 44-45.  

[25] Ivi, p. 50. 

[26] Ivi, p. 52.

[27] Epicuro, Ratae Sententiae 2, cit. in Algra, p. 329. 

[28] Hadot, Esercizi spirituali, p. 68. 

[29] Cfr: Hadot, Esercizi spirituali antichi e «filosofia cristiana», in Esercizi spirituali, pp. 72-73.  

[30] Hadot, Riflessioni sulla nozione di cultura di sé, p. 176.  

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