K. Kerényi: “Il mitologema dell’esistenza atemporale nell’antica Sardegna”

Estratto dal saggio di Károly Kerényi “Il mitologema dell’esistenza atemporale nell’antica Sardegna”, tratto da Miti e misteri, ed. Einaudi, Torino, 1950, pp. 413 – 423.

In questo estratto, il noto filologo e storico delle religioni ungherese Károly Kerényi analizza un mitologema sardo antichissimo di cui ci dà notizia Aristotele: si tratta della leggenda dei «Sette Dormienti» che, in Sardegna, dormivano presso gli dèi. Illustrando in primo luogo la lettura del mito da parte del collega Raffaele Pettazzoni, che ne aveva trattato nel suo lavoro del 1912 La religione primitiva in Sardegna collegandola con la pratica animistica dell’incubatio, Kerényi se ne distacca per darne un’interpretazione diversa: a suo parere il fulcro di tale mitolegema sarebbe da individuarsi nella condizione eccezionale di svincolamento dal tempo, un tema caro anche al collega romeno Mircea Eliade. Per corroborare la sua ipotesi di lavoro, lo studioso ungherese cita diversi miti a suo parere connessi con quello dei «Sette Dormienti»: il mito di Epimenide di Creta, la nascita di Zeus nella grotta dictèa, il mitologema di Kronos dormiente presso Ogigia, fino alla leggenda iberica di Habis e Gargoris che è da considerarsi in parallelo con quella sarda di Aristeo. Facendo ampio uso delle fonti classiche, Kerényi ricostruisce un substrato mitico assolutamente coerente, in cui tutte le immagini archetipiche presenti nei miti che vengono analizzati (la grotta, la condizione di cessazione del tempo, l’ora del meriggio, il miele, etc) conducono il lettore alle vette del pensiero arcaico delle civiltà del Mediterraneo occidentale, e in particolar modo alla credenza che fosse possibile, per coloro che sappiano divenire simili agli eroi, svincolarsi dal tempo per raggiungere (o ricongiungersi a) uno stato di esistenza più elevato, atemporale, in cui non sussiste il continuum spazio-temporale e in cui è impossibile morire così come nascere:

« […] Zeus non poteva colpire i ladri col fulmine, perché nella grotta nessuno doveva morire. […] E come la morte, anche la nascita era esclusa da quel luogo sacro: donne incinte o bestie non dovevano entrarvi. Zeus solo vi è nato. Senza un solo concetto astratto, da tutte queste notizie si delinea una forma d’esistenza più alta, superiore alla vita e alla morte. »


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Károly Kerényi

Il mitologema dell’esistenza atemporale
nell’antica Sardegna

[…]

La più antica tradizione che ha l’aria di un mitologema proto-sardo si trova in Aristotile: Pettazzoni l’ha interpretata come un documento di un culto animistico e non di una mitologia preanimistica. Nelle sue lezioni di fisica, Aristotile ha notato che vi erano dei racconti su certa gente che, in Sardegna, dormiva presso gli eroi. Simplicio, nel suo commento, seguendo probabilmente Alessandro di Aphrodisias, aggiunge il numero degli eroi — erano nove — e la relativa interpretatio Graeca: sarebbero stati i figli di Herakles dalle Thespiadi, le cinquanta figlie di Thespio. Essi erano venuti in Sardegna sotto la guida di Iolao per colonizzare l’isola e morirono sul posto, ma i loro corpi — continua Simplicio il racconto della leggenda — son rimasti intatti dalla decomposizione, come se giacessero addormentati.

È una tradizione relativamente antica in cui Erwin Rohde credette di riconoscere una favola migrante sul tipo dei «Sette Dormienti». Il Pettazzoni — d’accordo con un esegeta di Aristotile — ci vuole scoprire una leggenda cultuale che si sarebbe sviluppata dall’uso animistico di dormire nella tomba degli antenati. Scopo di tale incubatio era di entrare in contatto con gli spiriti degli antenati e avere da loro consigli. Dal grande numero di paralleli etnologici con cui Pettazzoni appoggia la sua tesi siano citati qui solo due esempi, ambedue derivanti dall’antichità classica.

Erodoto riferisce dei Nasamoni […]: «Essi chiedono oracoli recandosi alle tombe degli antenati, dove, dopo aver pregato, si coricano e secondo la visione che hanno in sogno, agiscono». Di un’altra tribù africana — i vicini dei Nasamoni, abitanti dell’oasi Augila — le fonti antiche affermano esplicitamente che venerassero unicamente gli spiriti degli antenati […]. La descrizione della relativa incubatio concorda letteralmente a quella di Erodoto. L’illustrazione del rito animistico non potrebbe essere più chiara: si dorme presso i morti, affinché questi appariscano nel sogno. Se il senso dell’uso sardo di dormire presso gli eroi era identico, noi abbiamo davanti a noi un documento dell’animismo sardo. Ma è questo veramente il senso della leggenda?

Leggiamo le parole di Aristotile, nel contesto delle sue spiegazioni: «Quando il corso vario dei nostri pensieri non procede, oppure noi non ci accorgiamo del suo procedere, ci sembra come se il tempo non esistesse: come sembrava a coloro di cui si racconta che, in Sardegna, dormissero vicino agli eroi — come sembrava a loro, quando si svegliavano; in questi casi ricongiungiamo il “presente” di prima con il “presente” di dopo, fondendoli in uno solo ed eliminando ciò che vi era di mezzo, perché di esso non ci siamo accorti». Aristotile cita la leggenda per esemplificare la completa cessazione del senso del tempo: il «presente» di prima tocca il «presente» di dopo, ecco una condizione — senza tempo. Il costituirsi di una condizione priva di decorso e di avvenimenti: questo è il senso del mitologema sardo. La leggenda parlava di gente che dormiva presso gli eroi sardi e perveniva in quella condizione. I nove eroi coi loro corpi intatti dalla decomposizione — «come se giacessero lì addormentati» — erano essi stessi i prototipi e modelli di quella condizione. Prototipo e modello significano più di una leggenda: essi significano mitologia.

Esisteva dunque un mitologema sardo dello svincolarsi dal tempo. A questo mitologema si connetteva poi la leggenda intorno a quella gente che dormiva presso gli eroi mitologici. Se in generale un siffatto uso cultuale esisteva nella Sardegna e le relative testimonianze non sono semplicemente costruzioni desunte dalle parole di Aristotile, neanche il senso di quella incubatio poteva essere che questo: i dormienti dovevano svincolarsi dal tempo e ottenere la guarigione in questo modo. Guarigione — da quale malattia? […] In Sardegna dunque si veniva liberati, per mezzo dell’incubazione, dalle visioni. Se dunque il rito esisteva, esso mirava a trasporre nel mondo dell’anima il contenuto di quel mitologema i cui rappresentanti erano gli immarcescibili, immutabili, eternamente dormienti eroi sardi, anziché trasporre, al contrario, nella mitologia le visioni dell’anima, i suoi incontri con gli spiriti.

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Ma in quale connessione rientra la cessazione del tempo, il rimaner fuori dai processi e decorsi naturali, come processo mitologico? Indubbiamente non in quella dell’animismo, nel cui mondo gli spiriti riappaiono nella storia e cooperano negli avvenimenti. Il mitologema sardo non è animistico e noi abbiamo ancora da ricercare dove e in quale mondo sia il posto del suo contenuto, se dunque non nel mondo dell’animismo.

Sia il Rohde che il Pettazzoni hanno additato la leggenda antica che, in tutta la storia delle religioni, è quella più affine al mitologema degli eroi sardi: è la storia del dormiente di Creta, Epimenide. Il Rohde concepiva ancora questa storia come una leggenda migrante che solo posticipatamente si sarebbe guadagnato un eroe cretese e uno scenario cretese. Alle domande, perché l’eroe doveva essere cretese, e perché lo scenario cretese — una grotta, quale luogo di accadimenti sovrumani — si adattava così bene alla leggenda, il Rohde risponde con l’ipotesi che forse nelle grotte sacre di Creta — in quella dictèa o in quella idèa, quale che sia il luogo di nascita di Zeus — si praticava il rito dell’incubazione. Pettazzoni aderì a questa supposizione, dato che essa si adattava il meglio alla sua tesi.

Ma noi abbiamo visto che il mitologema sardo non richiede né spiega l’ipotesi della incubatio: questa rimane anche in quella connessione una supposizione incerta. Bisogna esaminare la leggenda indipendentemente da questa supposizione e vedere precisamente, se essa non contenga degli elementi o non ci conduca ad elementi — elementi della religiosità cretese o comunque diffusa nel mondo mediterraneo — che possano spiegare il contenuto del mitologema sardo.

Il giovane Epimenide […] cercando le greggi di suo padre, in pieno meriggio, abbandonava la strada per mettersi a riposare in una grotta. Lì s’addormentò. Nulla può sembrare più naturale della scelta dell’ora che, tuttavia, introduce una storia miracolosa. L’ora del mezzogiorno non è qui meno importante dello scenario. È l’ora in cui le ombre cessano di indicare il tempo con la loro lunghezza e direzione: esse si ritirano e scompaiono. Nel momento della culminazione del sole si ha l’impressione che il tempo cessi: il vero indicatore del tempo, il sole, sta al vertice del suo cammino e sembra che stia fermo. Per questo chiamavano i romani la culminazione estiva del sole nel suo cammino annuale: solstitium, lo star fermo del sole. A questa culminazione corrisponde la depressione, il solstizio invernale, come se in esso cessasse il tempo e ne incominciasse un altro. È perciò che le feste dell’anno nuovo facilmente si collegano col solstizio. La depressione del giro minore del sole, la mezzanotte, comporta la credenza che con essa cessi l’ordine universale in cui vivi e morti sono ben separati, e tutto si confonda in un’unità priva di tempo.

[cfr. Il substrato arcaico delle feste di fine anno: la valenza tradizionale dei 12 giorni fra Natale e l’Epifania]

Queste date e ore ben note dalla storia delle religioni, fanno capire come a simili momenti particolari del tempo potesse riconnettersi — anche senza alcun ragionamento speculativo intorno al tempo, anzi soprattutto senza alcun ragionamento speculativo — l’idea di una cessazione del tempo. Culminazione e depressione sono fatti antitetici e tuttavia affini. L’uomo esperimenta anche in se stesso entrambi i momenti: conosce le depressioni e conosce le culminazioni della propria esistenza. Le culminazioni della sua vita gli fanno intravedere quella forma d’esistenza che il cielo gli rivela a scadenze periodiche. Le esperienze di culminazione e di depressione dei popoli primitivi sono di carattere collettivo e si esprimono in riti di feste periodiche. La forma d’esistenza però di cui qui parliamo, nella sua espressione più chiara si mostra nella mitologia: è una forma d’esistenza mitologica, una forma d’esistenza di dèi che l’uomo vede nel cielo.

Epimenide dunque a mezzogiorno si era addormentato in una grotta e quando si svegliò, continuò a cercare le greggi di suo padre. Non si accorse di aver dormito 57 anni. Numero significativo, nel sistema di una cronologia che in Grecia era già in uso molto prima che la leggenda assumesse la sua forma a noi nota: è, infatti, il triplo del ciclo metònio di 19 anni, la più grande unità di tempo greca. 57 anni significano il tempo, in un’espressione triplicata. Epimenide lo passò dormendo, cercò, sempre inutilmente, le pecore e, tornato infine a casa, di tutta la sua parentela non trovò più in vita che suo fratello minore che era già un uomo vecchio. Lui stesso dovette ancora vivere a lungo e morì all’età di 157 anni, il che significa esattamente 100 anni di vita, perché mentre dormiva nella grotta, era fuori dal tempo.

Contrariamente alla moda degli uomini cretesi, portava i capelli lunghi degli efebi e, per le sue singolari vicende, era considerato il migliore amico degli dèi: e ciò per il suo svincolamento dal tempo, questo caso straordinario, e non per visioni o rivelazioni che egli avrebbe avute in sogno. È naturale che anche simili cose figurino nelle versioni secondarie della leggenda. Secondo Massimo di Tiro, mentre Epimenide dormiva nella grotta dictèa di Zeus, degli dèi, i Logoi degli dei, Aletheia e Dike, sarebbero andati a trovarlo: l’abbellimento filosofico posticcio è evidente.

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Più antica sembra la connessione della leggenda non soltanto con una grotta qualsiasi, bensì con la grotta di culto del bambino Zeus cretese. In base a tale connessione si attribuiva a Epimenide un poema didattico sui Kureti e Korybanti. I Kureti appartenevano alla cerchia del bambino Zeus: la notizia, che i Cretesi avrebbero ritenuto Epimenide stesso uno dei Kureti, dimostra che anche il miracolo accadutogli era una cosa credibile precisamente nella sfera cultuale del Fanciullo divino venerato nelle grotte cretesi. La localizzazione dei fatti rimane tuttavia incerta e labile. In Creta numerose grotte erano luoghi di culto, e non si può sapere in quale di esse si localizzasse originariamente il sonno di Epimenide, né d’altra parte la tradizione è univoca nei riguardi della grotta in cui Zeus sarebbe nato. Ci portano più avanti le leggende relative ai luoghi di nascita di Zeus, indipendentemente dal loro sito. Questi racconti, presi nel loro insieme, rispecchiano quella forma d’esistenza mitologica che abbiamo menzionata a proposito dell’ora meridiana: sono racconti di grotte sacre piene di miele e di alture sacre piene di luce.

Inutilmente ci attenderemo dalla mitologia una qualsiasi espressione astratta o teorica di ciò che noi abbiamo chiamato una forma d’esistenza di dèi. Non ci deve sorprendere dunque se l’espressione mitologica si serve di qualcosa che è nutriente e saporito, di una forma d’espressione che ha senso e si rivolge ai sensi. Sin dall’età paleolitica il miele faceva parte degli alimenti umani. Ma il miele era anche un genere voluttuario che, nella sua sfera, portava certo a una culminazione e non a una depressione. È perciò che esso è anche un cibo degli dèi, in una fase più rozza e primordiale di quella della poetica ambrosia. Ne dà testimonianza l’inno omerico a Hermes (560-562), ricco in elementi mitologici arcaici. Elementi arcaici sono rimasti conservati anche nella poesia orfica, così per esempio nel racconto secondo cui Kronos si è inebriato di miele e per questo è caduto nel potere di Zeus.

[cfr. Apollo/Kronos in esilio: Ogigia, il Drago, la “caduta”]

Di miele ed acqua si preparava una bevanda inebriante che era ritenuta più antica del vino. Secondo Varrone il miele sarebbe un sacrificio caro agli dèi in generale, mentre secondo Pausania il sacrificio di miele sarebbe un genere di sacrificio particolarmente antico. La nostra notizia più caratteristica è forse quella secondo la quale al Sole spettava anche questo sacrificio. D’altro canto erano le divinità infere a godere del sacrificio di miele. Che il miele si offra ai morti, non si spiega tuttavia in base a una visione animistica, vale a dire in base al rango divino attribuito agli spiriti dei morti: l’offerta di miele al Sole costituisce una prova contraria. Al contrario, quel fatto si spiega in base alla visione, che gli spiriti debbano attingere dal miele un’esistenza intensificata, una forma d’esistenza divina. Il seppellimento dei morti nel miele — una specie di imbalsamazione, uso documentato in Grecia in relazione coi re di Sparta e con Alessandro Magno — non è che un’apoteosi. Così si seppellivano a Creta — almeno molto probabilmente — i bambini. Sarà questo il fondamento del racconto, secondo cui il bambino Glauco, figlio di re Minos, si sarebbe annegato in un recipiente pieno di miele, di modo che si dovette risuscitarlo: ma, secondo una versione della leggenda, anche la sua resurrezione sarebbe avvenuta per mezzo del miele. Simili recipienti, pithoi, destinati al seppellimento dei morti, soprattutto di bambini, sono stati ritrovati a Creta e in altre località della civiltà egea. Diodoro ci descrive un modo primitivo del seppellimento in pithos presso gli abitanti delle Baleari, un popolo affine ai proto-sardi. Tracce di tale forma di seppellimento sono state osservate anche altrove nel Mediterraneo occidentale, per esempio nella Corsica.

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[cfr. Enigmi del Mediterraneo: i Guanci, i ‘Popoli del Mare’ e Atlantide]

Soltanto apparentemente questa digressione ci ha allontanato dal nostro argomento: vi si aggiunga ancora un altro fatto che forse, sotto un nome greco, documenta la partecipazione della Sardegna in questo mitologema del miele. Secondo la tradizione, il fondatore dell’antica Caralis — l’attuale Cagliari — sarebbe stato Aristeo, nella cui figura il Pettazzoni non riconosce l’interpretatio Graeca di qualche divinità indigena, bensì semplicemente il noto personaggio della mitologia greca, protettore dell’agricoltura, trasportato di sana pianta sul fertile suolo della Sardegna. D’altra parte però il Pettazzoni non mancò di richiamare l’attenzione sulla mitologia di una popolazione iberica che appartiene al medesimo ciclo culturale mediterraneo-occidentale, in cui rientra presumibilmente anche la religione protosarda. In quella mitologia di Tartesso figura un fanciullo divino indistruttibile che, nel suo tipo mitologico, è affine allo Zeus bambino cretese: Habis, il cui padre, re Gargoris, secondo la nostra fonte avrebbe regnato sopra i «Cureti». Curetes, quale nome di popolo, è molto probabilmente un’interpretatio Graeca e Gargoris che vuol annientare suo figlio è un Kronos iberico: secondo la tradizione di Tartesso egli è l’inventore del miele: meli colligendi usum primus invenit.

Ad Aristeo si attribuivano invenzioni dello stesso genere: quella dell’alveare e della miscela di miele ed acqua. Ulteriori elementi si ricavano da Virgilio che precisa inoltre il luogo: nel luogo di nascita arcadico di Zeus, sulle alture del monte Lykaion pascolavano le greggi di Aristeo; egli ne sacrificò quattro tori e quattro vacche per far nascere le api. Queste nacquero dal corpo putrefatto delle bestie sacrificate. Nel Museo Archeologico di Cagliari si trova una statuetta di tarda epoca romana che rappresenta Aristeo con le api sul corpo. Essa è stata rinvenuta in Oliania, località celebre per il suo miele. È certamente giustificato supporre sotto il nome di Aristeo una figura mitologica indigena particolarmente connessa col miele, appartenente alla Sardegna come Gargoris appartiene a Tartesso.

La grotta cretese, in cui era nato Zeus, secondo una leggenda è rimasta piena di miele. Si raccontava che quattro ladri fossero penetrati nella grotta per rubare il miele, con i corpi protetti contro le api sacre di Zeus: ma la corazza si staccò dal loro corpo. […] Il racconto c’informa inoltre che Zeus non poteva colpire i ladri col fulmine, perché nella grotta nessuno doveva morire. Come la ricchezza di miele, anche questo fatto ci indica la forma d’esistenza mitologica che regnava in quel luogo. Altri fatti analoghi si raccontano nel luogo di nascita arcadico di Zeus, il monte Lykaion. Entrando nel recinto sacro ogni uomo o animale perdeva la sua ombra. Un fenomeno — aggiunge la nostra fonte, Pausania — simile a quello che si verificava a Syene, nell’Etiopia, nel tempo del solstizio estivo. Lì, al di fuori del tropico del Cancro, le ombre scompaiono completamente. A chi questo fatto accadeva sulla cima del Lykaion, non moriva sul posto, ma non doveva vivere più di un altro anno. E come la morte, anche la nascita era esclusa da quel luogo sacro: donne incinte o bestie non dovevano entrarvi. Zeus solo vi è nato. Senza un solo concetto astratto, da tutte queste notizie si delinea una forma d’esistenza più alta, superiore alla vita e alla morte.

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