Fin dagli anni del college T.S. Eliot si era immerso nello studio della filosofia e del pensiero dell’India. La Terra devastata così come altri suoi scritti, riflettono questo suo profondo legame col pensiero orientale, nel descrivere la crisi del mondo moderno il poeta attinge alla Bhagavadgītā e alle Upaniṣad.

di Giovanni Bigazzi

Nell’anno del centenario della pubblicazione della Terra devastata di T.S. Eliot, dopo l’articolo che ho scritto sul ruolo della via dei Tarocchi come una delle chiavi di lettura del poema, vale la pena di tornare sul capolavoro eliotiano, questa volta per approfondire il suo legame con le dottrine orientali e con la metafisica contenuta nei Veda: l’antichissima raccolta di testi sacri scritti in sanscrito dai popoli arii che invasero l’India settentrionale intorno al XX secolo a.C.

Nato il 26 settembre 1888, Thomas Stearns Eliot frequentò la Smith Academy dal 1898 al 1905, dove imparò il latino, il greco antico, il francese e il tedesco. All’età di quattordici anni cominciò a scrivere poesia dopo aver letto una traduzione del Rubaiyat di Omar Khayyam. Dal 1911 al 1914, Eliot studiò filosofia Indiana e sanscrito ad Harvard sotto la guida di Charles Lanman, un professore americano di sanscrito, mentre James H. Woods lo introdusse allo Yoga attraverso la lettura dello Yoga Sūtra di Patañjali.

T.S. Eliot (1888 – 1965)

Nel suo saggio After strange gods: a primer of modern heresy Eliot ammette l’influenza del sanscrito e del pensiero di Patañjali sulla sua opera. Scrive Eliot che la sua formazione giovanile lo aveva lasciato “in uno stato di illuminazione mistica” e che i filosofi indiani “facevano sembrare gran parte dei filosofi occidentali come dei bambini a scuola”. La sua affinità con le dottrine orientali divenne ancora più evidente con la frequentazione di Ezra Pound, che nel 1915 aveva pubblicato Cathay, una raccolta di classici della poesia cinese da lui tradotti in lingua inglese. A partire dal successo del suo poema Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock, Pound ebbe un ruolo fondamentale nel promuovere la carriera letteraria di Eliot, ruolo ufficializzato con la dedica “dantesca” inserita nell’edizione del 1925 della Terra devastata alla quale Pound aveva dato un contributo essenziale di revisione: “A Ezra Pound, il miglior fabbro”.

La Terra devastata è divisa in cinque sezioni. La “Sepoltura dei morti” introduce i temi della perdita di valori spirituali dell’uomo moderno e del decadimento della sua civilizzazione. La seconda, “Una partita a scacchi” tratta della vacuità delle relazioni tra uomo e donna laddove non vi sia unità tra sesso e sentimento e della mercificazione del sesso regredito a mero intrattenimento, la terza, “Il sermone del fuoco”, mostra come la lussuria e lo stupro sono i responsabili del decadimento della società moderna. La quarta, “Morte per acqua”, mette in evidenza il valore purificatorio e di rigenerazione dell’acqua, nella quinta e ultima sezione, “Ciò che disse il tuono”, Eliot, constatata l’impossibilità di cambiare il mondo dall’esterno, suggerisce al lettore di prendere le cose per quello che sono, puntando sulla necessità di una rinascita spirituale che deve partire dal singolo, è questa la parte del poema maggiormente influenzata dal pensiero orientale.

La quinta e conclusiva sezione della Terra devastata contiene e termina infatti con alcune parole in sanscrito traendo il titolo dalla Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad, una delle Upaniṣad più importanti e antiche dei testi vedici. Questa Upaniṣad risalente al VII secolo a.C. è un trattato sull’Ātman, il Sé, ed è ampiamente conosciuta per i suoi passaggi che riguardano la metafisica, l’etica, il desiderio di conoscenza che hanno contribuito a influenzare varie religioni dell’India. L’opera è attribuita a Yajnavalkya.

Il racconto del significato del tuono è contenuto nel capitolo quinto del testo vedico (versetti da 5.2.1 a 5.2.3) che narra di come Prajāpati (in sanscrito, प्रजापति – prajā-pati, signore delle creature) insegnasse alla sua progenie che in origine esistevano tre classi, vale a dire: i Sura, gli dèi, gli esseri umani e gli Asura, i demoni o meglio quegli dèi dotati di poteri occulti che noi occidentali chiamiamo demoni. Quello che Prajāpati insegnò a tutti fu la stessa sillaba द (Da). Ma i Sura la interpretarono come दाम्यत (Damyata), controllate voi stessi, gli umani la interpretarono come दत्त (Datta), donate e gli Asura come दयध्वमित (Dayadhvam), essere compassionevoli. Qui il concetto di tre classi progenitrici è molto significativo. Sura e Asura, in perenne conflitto tra loro – si noti qui l’analogia anche linguistica con gli Æsir del pantheon norreno – rappresentano i due estremi opposti mentre gli umani, la classe intermedia, hanno alcuni tratti di entrambe le altre classi e, di conseguenza, possono essere talvolta Sura e talvolta Asura.

Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad

Ma ecco il testo vedico che introduce alle tre grandi discipline tratto dalla Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad:

VERSETTO 5.2.1

त्रयाः प्राजापत्याः प्रजापतौ पितरि ब्रह्मचर्यमूषुः—देवा मनुष्या असुराः; उषित्वा ब्रह्मचर्यं देवा ऊचुः, ब्रवीतु नो भवानिति; तेभ्यो हैतदक्शरमुवाच द इति; व्यज्ञासिष्टा3 इति; व्यज्ञासिष्मेति होचुः, दाम्यतेति न आत्थेति; ओमिति होवाच, व्यज्ञासिष्टेति ॥ १ ॥

trayāḥ prājāpatyāḥ prajāpatau pitari brahmacaryamūṣuḥ—devā manuṣyā asurāḥ; uṣitvā brahmacaryaṃ devā ūcuḥ, bravītu no bhavāniti; tebhyo haitadakśaramuvāca da iti; vyajñāsiṣṭā3 iti; vyajñāsiṣmeti hocuḥ, dāmyateti na āttheti; omiti hovāca, vyajñāsiṣṭeti

1. Tre classi di figli di Prajāpati conducevano una vita di continenza col padre, Prajāpati (Virāj)—gli déi, gli uomini e gli Asura. Gli déi, al compimento del loro mandato, dissero, ‘Per favore insegnaci’. (Egli) disse loro la sillaba ‘Da’ (e chiese), ‘Avete capito?’ E loro dissero, ‘Abbiamo capito. Ci hai detto: Controllate voi stessi.’ (Egli) disse, ‘Sì, avete capito.’ 

VERSETTO 5.2.2

अथ हैनं मनुष्या ऊचुः, ब्रवीतु नो भवानिति; तेभ्यो हैतदेवाक्शरमुवाच द इति; व्यज्ञासिष्टा3 इति; व्यज्ञासिष्मेति होचुः, दत्तेति न आत्थेति; ओमिति होवाच, व्यज्ञासिष्टेति ॥ ३ ॥

atha hainaṃ manuṣyā ūcuḥ, bravītu no bhavāniti; tebhyo haitadevākśaramuvāca da iti; vyajñāsiṣṭā3 iti; vyajñāsiṣmeti hocuḥ, datteti na āttheti; omiti hovāca, vyajñāsiṣṭeti

2. Allora gli uomini gli chiesero, ‘Per favore insegnaci.’ (Egli) disse loro la stessa sillaba ‘Da’ (e chiese), ‘Avete capito?’ E loro dissero, ‘Abbiamo capito. Ci hai detto: Donate.’ (Egli) disse, ‘Sì, avete capito.’

VERSETTO 5.2.3

अथ हैनमसुरा ऊचुः, ब्रवीतु नो भवानिति; तेभ्यो हैतदेवाक्शरमुवाच द इति; व्यज्ञासिष्टा3 इति; व्यज्ञासिष्मेति होचुः, दयध्वमिति न आत्थेति; ओमिति होवाच, व्यज्ञासिष्टेति; तदेतदेवैषा दैवी वागनुवदति स्तनयित्नुर् द द द इति—दाम्यत दत्त दयध्वमिति; तदेतत्त्रयं शिक्शेत्—दमं दानं दयामिति ॥ ३ ॥

इति द्वितीयं ब्राह्मणम् ॥

atha hainamasurā ūcuḥ, bravītu no bhavāniti; tebhyo haitadevākśaramuvāca da iti; vyajñāsiṣṭā3 iti; vyajñāsiṣmeti hocuḥ, dayadhvamiti na āttheti; omiti hovāca, vyajñāsiṣṭeti; tadetadevaiṣā daivī vāganuvadati stanayitnur da da da iti—dāmyata datta dayadhvamiti; tadetattrayaṃ śikśet—damaṃ dānaṃ dayāmiti 

iti dvitīyaṃ brāhmaṇam ||

3. Allora gli Asura gli dissero, ‘Per favore insegnaci.’ (Egli) disse loro la stessa sillaba ‘Da’ (e chiese), ‘Avete capito?’, ‘Abbiamo capito. Ci hai detto: siate compassionevoli.’ (Egli) disse, ‘Sì, avete capito.’ Quella stessa sillaba è ripetuta dalla voce celeste, il tuono, come ‘Da,’ ‘Da,’ ‘Da’: ‘Controllate voi stessi,’ ‘Donate,’ e ‘Siate compassionevoli.’ Pertanto, si dovrebbero imparare queste tre cose—controllo del Sé, carità e compassione.

La quinta e ultima sezione della Terra devastata indica nella struttura del poema un punto di svolta: le parole pronunciate dal tuono offrono al lettore un raggio di speranza che penetra nella disperazione che incombe sulla devastazione del mondo moderno. In una lettera a Bertrand Russell, Eliot descrisse questa sezione “non solo la migliore, ma anche la sola parte che giustifica il tutto”. Eliot utilizza questi concetti contenuti negli antichi testi vedici come ancoraggi per sorreggere l’uomo nel suo viaggio spirituale prescrivendo tre rimedi per raggiungere pace e beatitudine concludendo così la sua opera con una nota di speranza. 

Il testo della Terra devastata termina, imitando la chiusura formale delle Upaniṣad, con la ripetizione per tre volte della parola शान्ति (Shantih) che Eliot traduce in “La pace che non ha la necessità di comprendere”. In questo modo Eliot al termine della sua opera più celebre offre al lettore della Terra devastata una via di uscita, una via attraverso la quale è possibile sanare i guasti prodotti dalla crisi del mondo moderno. La necessità di una via spirituale che conduce alla pace interiore oggi più che mai attuale in un mondo sempre più attanagliato dalla paura, stretto tra pandemie, guerre, instabilità economica e cambiamenti climatici. La via per cambiare il mondo non passa dall’agire fuori, bensì dall’agire dentro di noi stessi, assumendoci la responsabilità della nostra vita attraverso una vera e propria rinascita interiore.

POST-SCRIPTUM — In questo articolo come nel precedente pubblicato su AXIS MUNDI ho volutamente deciso di cambiare la traduzione canonica dell’illustre Mario Praz di “The Waste Land” in “La terra devastata” invece che “La terra desolata”. Questo risponde in primo luogo a delle considerazioni linguistiche. La parola “desolata” non copre interamente il significato della parola inglese “waste” che rimanda ad un concetto più ampio, di un qualcosa che una volta era puro e che poi si è guastato. Questo è in linea coi riferimenti letterari indicati da T.S. Eliot per il titolo dell’opera nella prima delle sue note al poemetto, soprattutto riguardo al volumetto della Jessie L. Weston, “From Ritual to Romance” [Indagine sul Santo Graal, ndr] (Cambridge 1919). Infine, la parola “devastata” riflette adesso molto meglio il momento di profonda crisi che stiamo vivendo, contribuendo a rendere questa importantissima opera letteraria del Novecento ancora più attuale.

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