“Magia d’amore, magia nera” (Alexandra David-Néel)

Grazie alla gentile concessione dei tipi di Venexia editrice pubblichiamo in questa sede, dopo la diretta di ieri sera, il quarto capitolo del romanzo di Alexandra David-Neél Magia d’amore, magia nera.

di Alexandra David-Neél

cap. IV di magia d’amore, magia nera (venexia ed.)
copertina: nicholas roerich, kuan-yin, 1933

Da otto giorni Garab e i suoi compagni erano accampati ai piedi della montagna sacra. Prendendo a pretesto il fatto che per il lungo viaggio tutti avevano bisogno di riposo, il giovane capo non si era ancora accinto a compiere il rito che prescrive ai pellegrini di fare il giro della grande montagna sulla cui cima Mahadéva, il più grande degli dèi, tiene la sua Corte.

Il pensatore iniziato alle dottrine esoteriche del misticismo indiano concepisce questa Corte fantastica come un’immagine del mondo, una proiezione magica e illusoria del pensiero del dio seduto in assoluta solitudine in meditazione sull’inaccessibile cima innevata. Altri, avendo compenetrato ancora meglio il simbolismo della leggenda, contemplano sulla cima radiosa la fiamma del loro stesso pensiero creativo, che continuamente distrugge e ricrea l’universo con i suoi dèi, i suoi demoni, i suoi esseri e le sue forme innumerevoli. Costoro mormorano a voce bassa il “credo” dei grandi mistici del Vedanta:“Shiva aham”,“Io sono Shiva, io sono il Grande Dio” (Mahadéva).

Ma Garab ignorava il profondo sapere dell’India e non aveva mai frequentato i grandi saggi di questo paese. Per lui, come già era stato per sua madre, il Khang Tisé nascondeva nei suoi anfratti orde di geni, fate, demoni, tutti sottomessi alla volontà di un dio terribile vestito di pelle di tigre e ornato di una grande collana fatta con teschi umani.

Garab temporeggiava, e nemmeno lui sapeva il perché. Si sentiva trattenuto de lacci invisibili. Trascorreva le giornate vagando senza scopo, ispezionando con ansiosa curiosità i luoghi circostanti come se fosse in procinto di fare chissà quale scoperta. Il mistero della sua nascita era presente in tutti i suoi pensieri e guardava affascinato i monaci e gli yogigiunti dal Nepal o dal Nord dell’India; scrutava i loro volti coperti di cenere, cercava di indovinare la loro età, immaginava che qualcuno di quegli strani personaggi potesse essere suo padre.

Suo padre! … Non aveva più pensato a lui dal giorno in cui aveva chiesto al suo padrone, il fittavolo Lagspa, notizie della sua nascita. Il desiderio che gli era venuto, a Lhasa, di vedere i luoghi dov’era stato concepito riguardava solo l’aspetto geografico di questi. Per l’uomo sconosciuto che una notte si era avvicinato a una serva innocente eaveva abusato della sua ingenuità, Garab non provava alcuna simpatia. Ma da quando era giunto ai piedi del Khang Tisé gli sembrava che impalpabili ricordi del passato sorgessero in lui, ricordi di un passato in cui era stato gettato il seme che gli aveva poi donato un corpo.

Che sensazione bizzarra! Il giovane capo di briganti si sentiva chiamato, sollecitato da una forza di cui non riusciva a capire la natura, ma che lo chiamava per uno scopo sconosciuto. Invano tentò di scuotersi dall’indefinita ossessione che lo dominava; anzi questa, giorno dopo giorno, diveniva sempre più forte facendo passare in secondo piano anche l’amore per Detchema. Molte volte la ragazza l’aveva pregato di mettersi in cammino. Riteneva che l’aria della regione fosse nociva per la sua salute, aveva il sonno molto agitato e si svegliava più stanca di quando si era coricata.

Tre sentieri si offrono ai pellegrini che devono fare il giro della montagna: il sentiero inferiore, relativamente facile da percorrere, quello di mezzo, che presenta maggiori difficoltà, e il più alto dei tre, che passa per scoscesi pendii sui quali solo montanari esperti possono avventurarsi senza pericolo. I meriti dei devoti sono proporzionali alle fatiche che essi incontrano nella loro deambulazione. Le benedizioni ottenute da chi percorre il più alto dei sentieri sono assai più considerevoli di quelle che spettano a chi fa il giro ai piedi della montagna. Ma Detchema non aspirava a ottenere che il minimo indispensabile dei meriti del pellegrinaggio.

Tuttavia, malgrado le insistenti sollecitazioni, Garab, solitamente così pronto ad esaudire anche le più piccole richieste della giovane, non si decideva. Partiva al mattino di buon’ora per andare a girovagare nei dintorni. I suoi uomini credevano che compisse pratiche religiose segrete destinate a portare fortuna alle loro future spedizioni. L’impazienza della giovane non trovava dunque nessun appoggio presso i suoi compagni di viaggio.

Una certa spossatezza fisica segue sempre a molti mesi di ardenti passioni amorose o forse la colpa era dello strano stato in cui si trovava Garab; comunque sia, il giovane trascurava la sua amante. Spesso restava sveglio di notte, come in attesa di agguati, senza ragione e senza scopo, mosso solo da un istinto imperioso.

Una notte, mentre era in questo stato di veglia nervosa e agitata, gli sembrò di scorgere nell’ombra la figura di Detchema che s’agitava tra le coperte in cui dormiva. Gli sembrò che la ragazza stesse lottando, che si dibattesse; questi movimenti durarono solo pochi attimi, poi la ragazza emise un profondo sospiro e tornò di nuovo immobile. “Un incubo”, pensò Garab. Due giorni più tardi si ripeté la medesima cosa, ma questa volta quella strana sembianza di combattimento fu più violenta e prolungata. La ragazza emise anche un grido.

“Cosa c’è?”, chiese Garab accostandosi all’amante e prendendole la mano. “Stai male?”

“Perché non mi difendi?”, balbettò Detchema ancora mezz’addormentata. “Dormivi… l’hai visto andare via?”

“Chi?”

Detchema riprese completamente coscienza.

“Cosa ho detto?”, chiese con una voce che denotava una certa apprensione.

Garab comprese che la giovane non avrebbe risposto con franchezza se l’avesse aggredita con le domande.

“Hai gridato nel sonno”, disse con voce tranquilla, “e quindi hai mormorato alcune parole incomprensibili… stai male? Forse è tutta colpa di una digestione cattiva, o di una posizione scomoda…”

“Sì, forse”, rispose la donna.

“Ora cerca di riaddormentarti”, le consigliò Garab. E si avvolse nella sua coperta, ma non la prese tra le braccia per rassicurarla. La sua curiosità si era svegliata: voleva sapere.

Il giorno seguente, al crepuscolo, il giovane sedeva con la schiena appoggiata a una roccia; era lontano dal piccolo accampamento e stava pensando al comportamento di Detchema, chiedendosi se anche la notte che si avvicinava avrebbe portato con sé un incidente analogo ai precedenti. Mentre era assorto in questi pensieri, sentì la pressione di qualcosa che lo avvolgeva e cercava di penetrarlo. La luce del giorno era ancora forte e poteva vedere bene il terreno circostante. Era solo, nulla di visibile poteva toccarlo, eppure quella pressione, leggera e potente allo stesso tempo, continuava.

Con un gesto istintivo, abituale per la gente delle sue parti, Garb estrasse dalla guaina il pugnale e si alzò di scatto. La “cosa” che lo teneva lo lasciò andare immediatamente. Una volta liberatosi, il giovane tornò al suo accampamento con la vaga sensazione d’essere seguito.

Garab non dubitava minimamente che uno dei demoni che circondavano la montagna lo avesse attaccato e volesse far del male a lui e alla sua compagna. “La cosa migliore”, pensò, “sarebbe andarsene al più presto da questo luogo in cui troppo a lungo mi sono fermato.” Il giorno seguente si sarebbe dunque messo in cammino.

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Tuttavia una volta tornato all’accampamento non informò Detchema della decisione presa; preferiva non dire ad alta voce che sarebbe ripartito, sperando in questo modo di ingannare il demone che li perseguitava.

Verso la metà della notte, Garab fu svegliato da una strana sensazione di fresco; folate di vento entravano nella sua tenda attraverso un’apertura L’ultimo quarto di luna proiettava la sua luce rossastra e il giovane brigante vide una forma umana: quella di uno yogi indiano. Il suo volto, coperto di cenere, appariva pallido; le sue erano labbra incollate ardentemente a quelle della sua giovane amante.

Immediatamente, Garab si alzò in piedi ma, più rapido di lui, l’ignoto visitatore si era già dato alla fuga. Il capo dei briganti vide le cortine della tenda aprirsi e poi richiudersi; quando a sua volta uscì all’aperto non vide traccia d’anima viva. Fece il giro della tenda, esplorò le vicinanze ma non riuscì a trovare alcun segno d’essere vivente.

Nella tenda Detchema non si era mossa e, quando il giovane rientrò, sembrava dormire placidamente.

“Hai trascorso una buona nottata?”, le chiese Garab il mattino seguente, al suo risveglio.

“Sì”, rispose la donna laconicamente.

“Non hai fatto sogni particolari?”, insistette Garab. “A volte gli dèi mandano dei sogni ai pellegrini in visita ai luoghi sacri.”

“No”, rispose ancora Detchema, ma la sua voce tremava.

Garab non le rivolse altre domande. Era però sicuro di non aver sognato. Aveva visto con i suoi occhi lo yogi ed era uscito a cercarlo. Chi mai poteva essere quello sconosciuto?

La figura che aveva veduto poteva forse essere una forma illusoria creata dal demone di cui aveva sentito la presenza? Oppure si trattava di un vero yogi esperto nelle pratiche magiche e in grado di diventare invisibile a suo piacimento? O, meglio ancora, un mago capace di produrre un doppio etereo di se stesso col potere di agire come un vero uomo?

Ma, qualunque fosse la sua vera natura, il visitatore notturno era di certo animato da intenzioni lascive. L’agitazione che aveva scosso Detchema la notte precedente, il suo grido e le strane parole che aveva pronunciato indicavano che la donna aveva già incontrato, più volte, quell’essere abominevole. Perché dunque non gliene aveva parlato? Perché tanta reticenza e diniego? Era forse credibile che lei non si fosse svegliata quando s’era alzato improvvisamente per inseguire l’apparizione? Che la ragazza non avesse sentito il tocco delle labbra sulle sue?

Garab non riusciva ad accettare il susseguirsi logico dei fatti: la lotta sostenuta dalla sua amante per fronteggiare i tentativi lascivi prima, il ripetersi degli stessi, infine l’accettazione… o addirittura il piacere! Detchema era forse arrivata al punto di preferire le carezze dell’amante fantasma alle sue? Questi pensieri facevano sorgere in lui una folle rabbia.

All’improvviso, però, il giovane si ricordò della strana storia legata al suo concepimento: era possibile che in questo luogo esseri di altri mondi insidiassero le donne?

Un altro sentimento subentrava alla rabbia: la voglia di chiarire questo mistero e sapere finalmente a chi doveva la sua vita.

Le due notti seguenti vegliò fino alle luci dell’alba, ma niente d’insolito ebbe luogo.

Forse lo yogi misterioso non si sarebbe più fatto vedere? Garab si rimproverava di continuare ad attardarsi in quel luogo in cui operavano forze magiche. Non aveva già deciso di partire prima che la misteriosa apparizione gli facesse cambiare idea? Si biasimava di usare la sua amante come esca per una presenza che senza dubbio era pericolosamente demoniaca, ma che voleva rivedere, inseguire, conoscere; sapeva di sbagliare, ma non partiva.

Trascorsero tranquillamente quattro giorni e quattro notti; la sera del quarto, Garab e Detchema pranzarono come al solito con i loro due compagni vicino al fuoco acceso tra grosse pietre che sorreggevano la marmitta su cui bolliva il tè. Terminata la cena, Detchema andò a dormire mentre Garab rimase a parlare con i due uomini.

Infine, anche il giovane capo si alzò e si diresse verso la tenda che divideva con la ragazza. Stava scendendo la notte e un velo azzurro avvolgeva il paesaggio circostante, ma c’era ancora luce sufficiente per distinguere nettamente gli oggetti vicini.

Garab sollevò la cortina della tenda e rimase impietrito. Lo yogi era là, nell’ingresso, di spalle, ritto in piedi. E anche Detchema, gli occhi spalancati, rimaneva dritta in piedi in muta attesa. Sul volto della ragazza si leggevano insieme desiderio e terrore. Senza che lei si muovesse, lo yogi le si avvicinò e l’afferrò per le spalle. A questo punto Garab, dimentico della sua voglia di chiarire quel mistero, folle di rabbia si avventò sullo strano personaggio. Questi volse verso il brigante il suo volto pallido e il giovane brigante sentì la bocca toccata dalle avide labbra di quell’essere mostruoso. Garab si dibatté, cercando di liberarsi da quell’odioso abbraccio, ma i suoi pugni non incontravano che il vuoto, mentre sentiva che l’orrido bacio risucchiava le sue forze fino nel suo essere più profondo.

Tuttavia il giovane capo continuava a lottare, cercando di uscire dalla tenda e chiamare i suoi compagni in aiuto. Durante la lotta urtò contro alcuni oggetti e il rumore della colluttazione attirò l’attenzione degli uomini.

Gorin venne a vedere se era successo qualcosa, se il capo aveva bisogno dei suoi servigi, e si spaventò vedendolo lottare e dibattersi, apparentemente con grande angoscia, senza però vedere nessun avversario davanti a lui.

Alle sue grida accorse anche Tsondu e Garab vide dissolversi la forma dello yogi nel medesimo istante in cui cessava il contatto di quelle labbra mortifere.

Gli uomini trovarono la donna priva di sensi, adagiata sul pavimento della tenda.

Garab non dovette fornire alcuna spiegazione, i suoi compagni si erano immediatamente dati una spiegazione dello strano incidente: quel luogo era frequentato da demoni e uno di essi aveva tentato di uccidere il loro capo.

L’ordine che attendevano venne dato immediatamente.

“Partiamo subito”, disse Garab.

“Naturalmente”, risposero i due uomini.

Il fuoco da campo fu rianimato; alla sua luce vennero preparati i bagagli e caricati gli animali. Era trascorsa meno di un’ora dalla terribile lotta e già la piccola carovana era in cammino.

Marciarono per due giorni fermandosi solo per soste brevissime. Quegli uomini fuggivano con la mente sconvolta e pensavano solo a mettersi in salvo dagli attacchi del demone che aveva assalito Garab. Questi, però, non aveva potuto raccontare ai suoi compagni quello che riguardava Detchema.

Verso la fine del secondo giorno i fuggitivi arrivarono in vista di un accampamento di pastori. La vicinanza di altri uomini, lo spettacolo familiare delle greggi tranquillamente al pascolo nei campi e la vista delle grandi tende simili a quelle del loro villaggio, calmarono lo spavento del piccolo gruppo. Si fermarono vicino all’accampamento e Garab raccomandò ai due uomini e alla ragazza di non parlare con nessuno del terribile incontro di cui erano stati protagonisti. Se i pastori avessero saputo che erano stati attaccati da un demone avrebbero sicuramente sospettato che la demoniaca presenza ancora li accompagnasse e avrebbero impedito loro di accamparsi nelle vicinanze.

Ciononostante Garab non aveva abbandonato la sua idea di far luce sulla misteriosa figura dello yogi e voleva proteggere Detchema e se stesso da eventuali nuovi attacchi. Era forse sufficiente avere abbandonato quei luoghi per essere al sicuro dal demone? Il giovane capo lo dubitava fortemente. Pensava piuttosto che i demoni inseguissero quelli che avevano scelto come loro prede e voleva rivolgersi a un lama esperto di fantasmi per chiedere consigli e aiuto. Se fosse stato necessario si sarebbe fatto esorcizzare insieme a Detchema. Soprattutto lei, di cui aveva visto i desideri perversi. Durante le brevi soste nel viaggio di ritorno, Garab aveva preso la ragazza, oltre che con l’abituale frenesia sensuale, anche con una certa dose di collera. Infatti il giovane pensava che mentre Detchema giaceva fra le sue braccia pensava alle carezze dell’altro e questo pensiero lo rendeva folle di gelosia e allo stesso tempo gli faceva ancor più desiderare la ragazza.

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Il giorno seguente al loro arrivo Garab si recò presso le tende dei pastori col pretesto di comprare del burro. Si presentò come un mercante del lontano paese di Kham, venuto in pellegrinaggio al Khang Tisé con sua moglie e due amici. Disse di aver fatto dei sogni che lo avevano messo in ansia per alcuni suoi traffici commerciali e desiderava consultare un lama veggente: se ne trovavano forse nelle vicinanze?

Gli fu risposto che un ngagspa viveva nell’accampamento vicino che si trovava a circa una giornata di marcia; tutti i pastori della regione avevano grande stima di quel lama.

“Alcuni ngagspa, di aspetto modesto e a volte addirittura volgare, vivono come semplici contadini, ma sono talvolta esperti maghi”, pensò Garab; così il giovane decise di tentare la fortuna e andare a trovare quello di cui gli avevano parlato, un certo Koushog Wangdzin.

Il piccolo gruppo di viaggiatori si rimise in cammino e trovarono il lama nel luogo indicato. Questi possedeva notevoli poteri di chiaroveggenza e, dopo aver ascoltato il racconto di Garab, rimase assorto per alcuni minuti in una profonda meditazione. Quindi aprì gli occhi e tracciò sul suolo un diagramma con dei grani d’orzo; disse a Garab di gettarci sopra prima una pietra bianca, quindi una nera e infine una screziata. Dopo che il brigante ebbe fatto quanto gli era stato richiesto, il lama considerò le parti del disegno su cui erano cadute le pietre e finalmente si pronunciò:

“Non si tratta, nel tuo caso, né di demoni né di stregoni”, disse. “L’essere che si è attaccato a voi è estraneo al Tibet. Non c’è alcun legame tra lui e me e non posso esercitare alcuna influenza sul suo comportamento. Rivolgetevi a un asceta indiano esperto nelle scienze esoteriche del suo paese, vi potrà sicuramente dare consigli utili. Tuttavia sii prudente, non confidare le cose che mi hai detto al primo venuto vestito della tunica arancione, con il rosario di rudrash o con in mano un bastone sormontato da un tridente. Molti di questi personaggi sono solo dei miserabili impostori; ti ingannerebbero col pretesto di illuminarti. E, quel ch’è peggio, rischieresti di trovarti in contatto con individui che praticano le più volgari forme di stregoneria e che hanno per compagni spiriti malvagi di cui potreste tutti cadere vittime.”

“Ma come farò?”, chiese Garab esasperato. “Un demone mi ha tormentato e voi stesso mi avete detto che corro il pericolo di essere attaccato da altri spiriti malvagi. E inoltre, come potrei entrare in contatto con uno di questi yogi indiani? Non conosco nemmeno la loro lingua.”

“Forse ti posso aiutare”, rispose Wangdzin. “Devi consultare un asceta nepalese che vive la sua vita d’eremita su un pendio del Khang Tisé. Vive in quel luogo da più di dieci anni. Prima di stabilirvisi viveva tra gli sherpa di frontiera. Quest’uomo parla perfettamente il tibetano, l’ho avuto come ospite quando arrivò in questa regione. E l’anno scorso sono andato a porgergli i miei omaggi. È un grande yogi, conosce il lato segreto delle cose e possiede poteri paranormali. Ti darò una guida che ti condurrà fino all’entrata della valle sopra la quale si trova il suo eremo. Quando sarai giunto nella valle, rivolgi all’asceta una preghiera rispettosa, lui ti ascolterà e, se acconsentirà a vederti, ti guiderà a lui con dei segni. Segui attentamente questi segni e non ti smarrirai.”

E proseguì:

“Risalendo la vallata vedrai verso nord una catena di montagne completamente innevate; da quel momento stai attento: se tu e i tuoi compagni scenderete da cavallo per sedervi a riposare per terra, non portate un solo stelo d’erba alle labbra. Vicino a queste bianche montagne crescono due tipi di erbe che la gran parte degli uomini non distingue da quelle normali, ma che possiedono strane proprietà. Una di queste erbe è un afrodisiaco mortale. Coloro che la masticano diventano pazzi. A causa del veleno la loro energia vitale fugge via, le loro arterie si svuotano e muoiono tra atroci sofferenze. L’altra specie di erba procura a chi la ingerisce la visione dei mondi di dolore e degli esseri che li abitano.”

E raccontò ancora:

“Un monaco venuto con altri pellegrini al Khang Tisé si fermò, con i suoi amici, in un luogo dove cresce questa erba; dopo aver mangiato seduto sul prato, raccolse distrattamente alcune foglie d’erba e le masticò. Immediatamente vide aprirsi davanti ai suoi occhi una voragine. Il terrore che quell’immagine gli causò gli fece sputare l’erba che aveva iniziato a masticare. Immediatamente, così com’era apparsa, la visione scomparve. Quel monaco aveva sentito parlare delle proprietà particolari di quelle erbe, capì che grazie a esse aveva potuto vedere le porte dell’inferno, e rimpianse di aver perso l’occasione per osservare i misteri di quei mondi invisibili agli esseri umani. Cercò di ritrovare l’erba che aveva sputato, o altre del medesimo tipo, ma tutti i suoi sforzi furono vani. Quando i suoi compagni si rimisero in cammino si rifiutò di seguirli, ostinandosi nella ricerca. Rimase in quel luogo parecchi anni; vi si era costruito una capanna e passava tutto il tempo a esaminare le erbe e ad assaggiarle. A poco a poco la sua mente si turbò e morì completamente folle.”

Infine concluse:

“Dietro le montagne bianche esiste realmente un baratro che comunica con segrete profondità, ma per poterlo vedere bisogna essere dotati di una vista sovrumana. Chi non è un esperto naldjorpa (uno yogi tibetano) deve evitare di avventurarsi in quei luoghi. Mettiti dunque in cammino oggi stesso. Occorrono quattro giorni per raggiungere l’eremo del potente asceta indiano; quando lo vedrai, metterai il mio corpo, la mia parola e il mio spirito ai suoi piedi.”

“Andiamo a trovare un santo anacoreta”, disse Garab ai suoi amici quando li raggiunse. “La sua benedizione metterà in fuga i demoni che ci perseguitano e ci proteggerà da tutti i mali.”

Il giovane capo raccomandò anche ai suoi uomini di non raccogliere erbe durante il percorso poiché il ngagspa gli aveva detto che la regione era piena di specie velenose.

La guida fornita da Wangdzin al piccolo gruppo si fermò all’entrata di una valle; ricordò a Garab che doveva rivolgere una preghiera allo yogi affinché questi gli indicasse la via per il suo eremo, quindi si prosternò davanti al giovane in segno di omaggio e se ne andò.

I viaggiatori cominciarono a risalire la vallata incassata fra gli scoscesi pendii, sui quali non si scorgeva traccia di sentieri. Dopo alcune ore di cammino scorsero in lontananza una scintillante catena di cime innevate. Erano le montagne di cui aveva parlato il lama Wangdzin. I viaggiatori dovevano continuare ad avanzare? O forse avevano già oltrepassato il sentiero per l’eremo? Eppure nessun segno era ancora apparso alla piccola carovana e quindi Garab decise di continuare lungo la strada. La catena delle montagne diveniva sempre più visibile, bianca ma di un candore diverso da quello della neve.

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All’improvviso un uccello gettò un grido stridente e tutti si voltarono dalla sua parte. Su di una roccia, batteva le sue ali. L’animale gridò ancora parecchie volte, sempre allo stesso modo, quindi volò via e si andò a posare su un’altra roccia, dove iniziò nuovamente a gridare e a battere le ali. Da quella parte non si scorgeva traccia di sentiero, ma il pendio poteva essere superato senza alcuna difficoltà. Garab pensò che l’uccello poteva essere stato inviato dall’eremita e si mosse nella sua direzione. La graziosa, piccola bestia agitò nuovamente le ali e si andò a posare su una roccia più alta di quella che aveva lasciato.

Garab non esitò più.

“Montate qui le tende”, disse ai suoi uomini. “Seguirò l’uccello e vedrò dove mi condurrà.”

Di roccia in roccia, l’uccello guidò il giovane sempre più in alto sulla montagna. Per qualche tempo Detchema e i due briganti riuscirono a seguire con lo sguardo il capo che si allontanava, ma a un certo punto il giovane uscì dal loro campo visivo, riuscivano a sentire, sempre più deboli, le grida dell’uccello; infine anche quel suono non si poté più udire.

Garab si prostrò dinanzi all’asceta, un vecchio dall’aspetto robusto, completamente nudo tranne che per un pezzo di cotone rosso intorno ai reni che formava un minuscolo doti.

“Qual è il motivo della tua visita, figlio mio? Che cosa desideri da me?”, chiese lo yogi con benevolenza. “E innanzitutto, chi sei?”

Garab confessò all’asceta tutto quanto si riferiva all’umile condizione della madre, alla sua nascita, al mistero circa la vera identità di suo padre, ma non disse altro.

“Queste cose sono parte del tuo passato”, sottolineò il vecchio saggio. “Dimmi: qual è la storia della tua vita? Cosa sei venuto a fare sul Kailas? Un pellegrinaggio? Non sei solo, hai dei compagni con te. Sei ricco: da dove proviene quello che possiedi?”

Garab sapeva che le domande dell’eremita erano volte a saggiare la sua sincerità e che l’uomo già conosceva i particolari su cui l’interrogava. 

“Voi sapete già le cose che mi chiedete, mio signore eremita (jowo gomchén)”, disse con umiltà, “io sono un gran peccatore.”

“Non è mio compito metterti sulla retta via”, affermò l’asceta. “In seguito incontrerai un saggio del tuo paese che ci proverà. Cerca, quando verrà quel momento, di approfittare del suo aiuto. Sei spaventato dalle tue visioni, non è vero? Adesso ascoltami con attenzione: tu sei figlio di un indiano. Tuo padre era uno di quei Bhairavi dai costumi dissoluti che praticano la magia nera per allontanare il momento della vecchiaia, non consumare il corpo e giungere infine all’immortalità.”

E proseguì:

“Sappi che un mago esperto in questa scienza maledetta può impadronirsi del soffio vitale degli esseri umani aspirandolo dalla loro bocca e che, con una tecnica ancora più misteriosa, può assorbire dalla donna l’energia che alimenta tutte le forme di vita, tramite rapporti sessuali. Questo è un segreto prodigioso e i malvagi iniziati che lo usano sono responsabili di molte disgrazie, poiché le loro prede muoiono in breve tempo. Ma pochi di questi maghi riescono a sostenere a lungo lo sforzo necessario per i loro scopi. Affinché il rito abbia successo, il praticante deve però riuscire a rimanere impassibile e superare qualsiasi tentazione di godere del piacere sessuale.”

E aggiunse:

“Gli uomini impuri, quelli animati da motivazioni egoistiche, non sono in grado di sottoporsi a una così difficile disciplina. La maggior parte soccombe, un giorno o l’altro, alle voglie dei sensi e quando succede sono perduti. La vitalità che hanno sottratto ad altri sfugge loro attraverso tutti i pori del corpo e ben presto periscono. Così morì tuo padre, perché ti diede la vita che doveva conservare per lui. Morì lontano dal suo paese natale e, siccome non aveva altri discendenti oltre a te, nessuno celebrò per lui i riti che procurano allo spirito disincarnato il nuovo corpo che gli è necessario per entrare nel mondo degli antenati. Per non aver potuto ottenere gli elementi indispensabili alla costituzione del nuovo corpo, lo spirito di tuo padre è divenuto un fantasma ancora assetato delle sensazioni provate da vivo e del malvagio istinto che anche allora lo animava. Egli si sforza di sostenere l’esistenza del suo ‘doppio’ sottile e di alimentarlo ricorrendo alle tecniche che praticava quando era vivo.”

Poi disse:

“Quando sei arrivato al Kailas i tuoi pensieri sulla tua nascita hanno attratto lo spirito di tuo padre. Questi ha riconosciuto in te il suo sangue e ti si è attaccato per riprendere la vita che ti aveva dato. Il tuo desiderio per la donna che ti accompagna ha alimentato anche il suo e così ha cercato di possedere la tua amante per appropriarsi della sua forza vitale e dell’energia psichica che tu le hai comunicato. Entrambi dovevate diventare sue vittime, ma non preoccuparti, io vi salverò. I riti funebri in uso nell’India non possono essere celebrati in queste circostanze. Sarà comunque sufficiente compierne la parte essenziale. In quanto sannyasin, ho rinunciato a qualsiasi pratica religiosa, ma in quanto bramino le posso sempre celebrare e domani lo farò per te.”

L’eremita donò quindi a Garab alcune gallette di farina per la cena e invitò il giovane a trascorrere la notte nella capanna.

Il mattino seguente, lo yogi preparò alcune pallette di riso. Quindi, dopo aver invocato il defunto, gliele offerse, raccomandandogli di prendere forza per attraversare i fiumi e le colline della montagna che avrebbe incontrato nel suo viaggio verso il mondo degli antenati e scongiurandolo di non deviare dalla retta via per non perdersi.

“Figlio mio”, disse poi a Garab, “tuo padre vuole da te qualcosa: dagliela affinché non ti venga più a infastidire.”

Gli comandò quindi di strappare qualche filo della sua veste e alcuni capelli, e di metterli tra le offerte mentre pronunciava:

“Ecco un vestito per voi, padre, non toglietemi più nulla per vostro uso.”

Quando il rito fu terminato, l’asceta gettò le pallette di riso, i fili di stoffa e i capelli di Garab nel fuoco.

“Nulla di tutto questo deve rimanere nelle vicinanze della mia dimora”, disse.

Infine ordinò a Garab di fare una scopa con delle erbe e di scopare con cura il luogo dov’erano state deposte le offerte e il loro autore terreno. Si dovevano cancellare le tracce lasciate dalle offerte e dal fantasma che era venuto a impossessarsene affinché egli non potesse riconoscere il luogo ed essere tentato di farvi ritorno anziché seguire la strada per il regno degli antenati, dove avrebbe riposato finché non si sarebbe reincarnato in condizioni onorevoli, mediocri o penose secondo le sue azioni precedenti.

“Adesso non devi più temere il tuo yogi fantasma”, disse l’eremita a Garab mentre lo congedava, “ma devi ancora temere i frutti delle tue azioni passate. Te lo ripeto, un giorno arriverai in vista della via della salvezza: sappi allora riconoscerla e non te ne allontanare più”.

Durante le settimane successive, il giovane capo e i suoi compagni fecero il giro della montagna, infine lasciarono il Khang Tisé e tornarono a dirigersi verso l’Est, verso il lontano paese di Kham.

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