L’India di Rudyard Kipling tra folklore, terrore e meraviglia

Nei “Racconti anglo-indiani del mistero e dell’orrore” il Kipling si pone nella posizione di osservatore e narratore occidentale di una cultura ‘altra’ e atavica come quella indiana, la quale all’occorrenza si rivela ai suoi occhi come specchio della nostra.


di Marco Maculotti

« A est di Suez, dicono alcuni, cessa il controllo diretto della Provvidenza: laggiù l’uomo viene affidato all’autorità degli dèi e dei dèmoni dell’Asia e la Provvidenza della Chiesa d’Inghilterra vi esercita soltanto una saltuaria, ridotta sorveglianza qualora si tratti di inglesi. » (da R. Kipling, “Il marchio della bestia”)

Alzi la mano chi non conosce le opere letterarie di Joseph Rudyard Kipling (1865 – 1936): da Il libro della giungla (The Jungle Book, 1894), a Kim (1901), da Capitani coraggiosi (Captains Courageous, 1897) a Puck il folletto (Puck of Pook’s Hill, 1906), i suoi romanzi di avventura e le sue poesie hanno dettato una delle più importante correnti letterarie a cavallo tra i due secoli, che in Italia si espanse soprattutto grazie all’immensa prolificità del veronese Emilio Salgari. Da parte nostra, in questa sede vogliamo fare qualche considerazione su una raccolta di racconti del Kipling, Racconti anglo-indiani del mistero e dell’orrore, pubblicata dalle Edizioni Theoria (Roma-Napoli, 1985). I 13 racconti che sono confluiti in questa antologia coprono una fascia temporale che va dal 1885 al 1893.

Schermata 2018-11-11 alle 20.33.45.pngL’India di Rudyard Kipling, dove egli nacque (a Bombay) nel 1865, è quella coloniale degli ultimi decenni del XIX secolo: l’India della dominazione imperialistica inglese, dunque, ma anche delle numerosissime divisione tribali, caste, culti legati al variegato mondo dell’Induismo e, quindi, ancora indelebilmente segnata dall’elemento del folklore, della “superstizione”, delle credenze le cui origini si perdono nell’abisso della storia. E, com’è naturale che sia, il folklore si tinge spesso di sfumature misteriose, terrifiche, addirittura orrorifiche o, per usare un termine caro a H.P. Lovecraft, abominevoli.

L’immissione nel nostro mondo di intelligenze e leggi altre — e qui ci riferiamo non solo a fantasmi, spiriti irrisolti, demoni e djinn, ma anche agli episodi di chiaroveggenza, di visione onirica, di possessione ed esorcismo — non può che causare uno spaventoso sgomento in chi vi si imbatte, soprattutto se, come nella totalità delle storie kiplingiane, si tratta di un osservatore occidentale. Una paura che attanaglia profondamente, di cui il Kipling dà una sua personale definizione nel racconto “La mia storia vera di fantasmi”:

« Sapete cos’è la paura? Non la solita paura delle offese, del dolore fisico o della morte, ma il terrore abietto, da brivido, di qualcosa che non potete vedere, la paura che ti secca la bocca e metà della gola, la paura che fa sudare il palmo delle mani e inghiottire a vuoto per tenere l’ugula in funzione? Questa sì che è Paura, una forma di grande vigliaccheria, e bisogna averla provata per poterla apprezzare. »

Ne “La Strada del Pozzo Gorgogliante” — uno dei racconti più adeguati di questa raccolta per comprendere il “terrore” kiplingiano — si intravedono addirittura sfumature “Weird” ante-litteram (eccezion fatta, naturalmente, per E.T.A. Hoffmann, unico e vero anticipatore del “perturbante”): qui l’orrore è causato da un pozzo abbandonato nel mezzo di una raduna boschiva, e in particolar modo dagli echi da esso provenienti, che ripetono pedissequamente tutte le affermazioni del narratore, e dalle sinistre risatine che echeggiano nei suoi dintorni. «Gli abitanti del villaggio mi dissero che la macchia di vegetazione era piena di dèmoni e fantasmi, tutti al servizio del prete, e che vi erano entrati uomini, donne e bambini senza più farne ritorno». Qui sono già ravvisabili, in nuce, gli orrori sovrannaturali di un Lovecraft [1] o di un Machen [2], nonché quei “paradossi perturbanti” tanto ricercati da Thomas Ligotti [3] e già analizzati da Jentsch [4] e Freud [5] un secolo prima.

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Rudyard Kipling.

Le suggestioni subite dal Kipling “colono”, narratore e osservatore al contatto con l’India più atavica e profonda oscillano fra la meraviglia e il terrore più indicibile, passando per le più svariate sensazioni di sgomento, confusione, incredulità — non tanto di fronte alle pratiche “superstiziose” degli autoctoni quanto con riguardo alle loro effettivi e ben visibili conseguenze, cosa inaudita per una mentalità “occidentale”. In questo modo il Kipling porta allo scoperto, riesumandoli, aspetti archetipici che l’uomo occidentale ha messo in disparte, ha negato, ha occultato dietro il fragile paradigma del razionalismo cartesiano: le “forze mitiche” di cui parla Ernst Jünger [6], o quelle “paniche” di James Hillman [7].

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Il contatto con un mondo altro com’è quello sud-asiatico ha il potere di risvegliare queste forze assopite nella più profonda interiorità dell’uomo occidentale e di liberarle, con tutte le conseguenze positive e negative del caso. Ciò accade, per esempio, ne “Il sogno di Duncan Parrenness”, un racconto onirico sul tema del doppio. Qui, al narratore appare in sogno, dopo una notte di eccessi, il suo “sé” futuro:

« …ed io, Duncan Parrenness, che non avevo paura di  nessuno, fui preso dal terrore più mortale ch’io credo essere umano abbia mai avuto in sorte di conoscere. »

Vale dire l’incontro con l’Altro-Sé, che non è semplicemente l’altro-da-sé (l’indigeno), ma la parte “oscura”, “bestiale” o se vogliamo “irrazionale” che l’osservatore occidentale sa di avere in sé, nonostante la secolarizzazione e la protratta illusione delle magnifiche sorti e progressive: la cosiddetta Ombra jungiana. Questo tema ricorrente dell’incontro terrifico con l’Altro è ancora più evidente ne “Il marchio della bestia”, dove uno dei personaggi, dopo aver disonorato e profanato la statua di Hanuman nel tempio dedicato al dio-scimmia, cade vittima di un’atavica maledizione che ne causa un’improvvisa e abominevole metamorfosi che ricorda da molto vicino la licantropia della tradizione eurasiatica:

« Fleete non poteva parlare, poteva soltanto ringhiare, in tutto e per tutto come un lupo. Lo spirito umano doveva aver ceduto durante la giornata, finendo per morire con la luce del tramonto. Ora avevamo a che fare con una bestia che un tempo era stata Fleete. »

La suddetta maledizione è stata causata da un inquietante sacerdote del tempio, denominato dal narratore ‘l’Uomo d’Argento’ in virtù delle deformazioni fisiche da lui esibite:

« Col freddo che faceva era completamente nudo e il suo corpo luccicava come argento levigato, perché era quello che la Bibbia chiama “un lebbroso bianco come la neve”. Non aveva volto; la lebbra infatti, di cui doveva soffrire da anni, era ormai a uno stato avanzatissimo. »

Sebbene alla fine l’abietto nemico e l’odioso anatema siano sconfitti, resta il sospetto che ciò che è accaduto ai protagonisti li abbia mutati per sempre, non nell’aspetto esterno come nel caso di Fleete-licantropo ma nelle profondità abissali del proprio animo, portando in superficie un lato “oscuro”, sub-umano e dis-umano, che non sapevano di avere e che li “marchierà” per il resto della vita: essendo questa, in ultima analisi, la vera “maledizione di Hanuman” — che è poi, a un livello più generale, la “crisi” sperimentata dall’uomo “occidentale” nell’incontro con culture altre che, a differenza sua, non avevano ancora abiurato alle potenze “mitiche” e “paniche” di cui sopra.

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Rudyard Kipling nel suo studio.

Il territorio delle Indie, già altro in senso geografico dal punto di vista del “colono” inglese, diventa altro anche da una prospettiva ontologica, andando a creare una dicotomia tra la “civiltà della scienza e della ragione”, qual è ovviamente quella anglo-occidentale, e la “cultura indigena” che non è — si badi bene — né l’assenza di una “civiltà” né una fase precedente (“pre-logica”) della “civiltà razionale” occidentale. Al contrario, come ricordava Mircea Eliade, una civiltà come quella dell’India pre-coloniale non può che dirsi tradizionale, organica nella sua struttura e integrante nei suoi molteplici livelli il visibile come il non visibile, il naturale come il sovrannaturale, il profano come il sacro [8].

È anche per questo che non è lecito, a dispetto di quanto qualcuno sostenga più per sentito dire che altro, etichettare sbrigativamente il Kipling come un “razzista”: pur non ignorando alcune sue posizioni filo-imperialistiche, nelle sue opere è sempre avvertibile un senso di meraviglia se non di ammirazione verso le culture altre, che egli non si limita a tratteggiare facendo uso di luoghi comuni e pregiudizi, ma anzi indaga con la sete del vero uomo di sapere, dell’esploratore d’altri tempi. I suoi racconti anglo-indiani pullulano di termini dell’idioma indiano, alcuni dei quali si rifanno alle dottrine sapienziali ed esoteriche dell’Induismo, usati sempre in maniera puntuale e mai a sproposito, tanto per “esoticizzare” un po’ la narrazione. Per dirla con le parole di Giuseppe De Lorenzo, Rudyard Kipling:

« ha ben compreso ed artisticamente esposto il valore dell’oriente, mostrando anche come e quando non vi sia più differenza tra oriente ed occidente. »

Egli registra le consuetudini degli autoctoni, quelle matrimoniali come quelle religiose, e le inserisce nei suoi racconti per far sì che essi siano davvero catalogabili come “racconti anglo-indiani”: non, dunque, semplicemente racconti ambientati in India e scritti da un inglese, ma piuttosto racconti che vanno a trarre la propria linfa dalle antiche narrazioni e credenze dell’India più profonda, che il “colono” inglese, autore narratore e protagonista, lungi dal poter comprendere in tutta la loro coerenza mitica non può far altro che registrare, tra la meraviglia e lo sgomento, e consegnare ai lettori come spunto di fuga da un mondo troppo arido e razionale. In un racconto (“A viva voce”) il narratore riassume questa posizione da osservatore affermando laconicamente:

« Io ho vissuto abbastanza in questa India per sapere che è meglio non sapere nulla e posso raccontare solo com’è andata. »

E proprio da questo modo mitico di inquadrare il mondo nascono i racconti e le credenze del folklore, in India come in qualunque altra parte del mondo; e Rudyard Kipling, questo, doveva saperlo bene, dal  momento che durante la sua vita e la sua produzione letteraria si interessò anche al corpus folklorico che più da vicino doveva riguardarlo, vale a dire quello delle isole britanniche. A questo filone sono ascrivibili due delle sue opere più note, Puck of Pook’s Hill (1906) e Rewards and Fairies (1910), pubblicate negli anni in cui vinse il premio Nobel per la Letteratura (1907; il più giovane premiato di sempre).

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Spesso, d’altronde, gli universi archetipici e simbolici del folklore si richiamano in tutto il mondo: non vi è grande differenza strutturale e tematica fra il corpus di credenze popolari di un britannico pre-cristiano e quello di un autoctono dell’India pre-coloniale. Un topos che ricorre in entrambi gli ambiti, nelle saghe celtiche come nel folklore indiano, è quello dell’oggetto sovrannaturale in grado di spalancare mondi e possibilità “magiche”: esso funge da espediente narrativo al racconto kiplingiano Il Bisara di Pooree”.

È, questo, un artefatto misterioso che si presenta allo sguardo come una scatoletta d’argento, tempestata di rubini con al suo interno un pesciolino senza occhi in legno di noce scuro, avvolto in un panno d’oro; si tratta, invero, di un amuleto antichissimo, passato di mano in mano attraverso i secoli, che dà al suo possessore il potere di conquistare l’anima dell’amato (o dell’amata). A una sola, imprescindibile, condizione: il Bisara deve essere rubato, sottratto con l’inganno, al precedente possessore. Venirne in possesso in altri modi (mediante compravendita, donazione o rinvenimento casuale) porterebbe alla rovina il suo possessore in tre anni esatti. Ragion per cui, per preservare l’umanità dal potere terrificante dell’artefatto, l’ultimo suo possessore ha occultato il Bisara di Pooree al collo di un ronzino da nolo, in mezzo a una collana di grani azzurri contro il malocchio. Con queste premesse, il narratore può dichiarare a ragion veduta che:

« Tutti i tipi di magia sono cose d’altri tempi, abbandonate ormai, fuorché in India, dove nulla cambia, nonostante la sottile patina lucente che la gente chiama “civiltà”. »

Un altro racconto (Nella casa di Suddhoo”) ci introduce la sinistra figura di un incisore, dimorante nel seminterrato dell’abitazione da cui il titolo, che si rivela ben presto essere, con orrore del narratore, una sorta di guaritore psichico dedito a pratiche di negromanzia. Suddhoo, che della casa è il proprietario, implora il suo aiuto per la guarigione del figlio: otterrà quello che desidera, sebbene a un duro prezzo. Il personaggio dell’incisore si pone dunque a metà strada fra il guaritore, il “genio della lampada” e il Diavolo che nella tradizione occidentale domanda un “patto di sangue”, con conseguente “perdita dell’anima” del suo interpellante.

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In “La mia storia vera di fantasmi” Kipling si cimenta nel genere delle “case infestate”, adattandone splendidamente i topoi della tradizione occidentale al folklore orientale, in cui abbondano i racconti di fantasmi, sotto le forme più svariate e omnicompresive di caratteristiche che nel corpus tradizionale occidentale sono connesse ad altri tipi di “visitatori dall’Altrove”, quali entità feriche e spiriti maligni. Così Kipling nell’incipit ne dà al lettore una panoramica generale:

« Ci sono fantasmi in India che assumono le parvenze di cadaveri grassi, freddi, papposi, e si celano fra gli alberi lungo il bordo della strada in attesa che passi un viaggiatore. Allora gli si avventano sul collo e non lo mollano. Ci sono anche dei terribili fantasmi di donne morte durante il parto. Costoro vagano lungo i sentieri all’imbrunire o si nascondono in mezzo al grano nei pressi di un villaggio e si servono di un richiamo seducente. Ma rispondere al loro invito è morte sicura in questo come nell’altro mondo. Hanno i piedi rivolti indietro affinché tutti gli uomini assennati possano riconoscerli. »

Ogni villaggio, ogni distretto, ogni stazione di posta esistente nell’India a fine Ottocento ha un proprio ospite disincarnato: il narratore se ne accorgerà in prima persona nell’atto di prendere sonno quando, nel buio più assoluto, si rende conto senza possibilità di errore che nella stanza adiacente è in corso una partita di biliardo, che andrà avanti tutta la notte, gettandolo nella confusione più totale. È, ancora una volta, il “perturbante” stricto sensu, un’esperienza che atterrisce non perché particolarmente spaventosa in sé, nelle sue singole componenti (quella visiva, quella uditiva, ecc), ma perché è la spia che ci si trova al cospetto di un “qualcosa” fuori posto, di un agente che agisce diversamente da come sarebbe lecito aspettarsi, di una fenomeno che apre scenari ignoti che non sono dipendenti dalle conosciute leggi della fisica.

Connesso a queste suggestioni “perturbanti” è pure A viva voce”, in cui si parla più specificamente di sopravvivenza dell’anima e di comunicazione coi trapassati; temi trattati egregiamente, a distanza di pochi anni, da un collega di Kipling, l’austriaco Gustav Meyrink [9]. Si ritrovano qui i leitmoiv dei racconti di fantasmi della tradizione estremo-orientale, soprattutto giapponese, e nondimeno si intravede l’ala protettrice di un Maestro del genere quale è stato Edgar Allan Poe, fin dalla frase topica, con cui vogliamo concludere questa breve trattazione:

« Questo racconto lo spiegheranno forse quelli che sanno com’è fatta l’anima e dove sono i limiti del Possibile. »


Note:

[1] Cfr. FUSCO, Sebastiano: Lovecraft, o l’inconsistenza del reale; SCARABELLI, Andrea: Bestie, uomini o dèi: i culti alieni di H. P. Lovecraft; MACULOTTI, Marco: “Oniricon”: H.P. Lovecraft, il Sogno e l’Altrove; su AXIS mundi

[2] Cfr. MACULOTTI, Marco: Arthur Machen e il risveglio del Grande Dio Pan; su AXIS mundi

[3] LIGOTTI, Thomas: La cospirazione contro la razza umana; il Saggiatore, Milano 2016

[4] JENTSCH, Ernst: Sulla psicologia del perturbante, 1906

[5] FREUD, Sigmund: Il perturbante, in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio; Bollati Boringhieri, 1991

[6] JÜNGER, Ernst: Al muro del tempo; Adelphi, Milano 2010

[7] HILLMAN, James: Saggio su Pan; Adelphi, Milano 2008

[8] ELIADE, Mircea: Il sacro e il profano; Bollati Boringhieri, Torino 1991

[9] Cfr. MACULOTTI, Marco: Gustav Meyrink alle frontiere dell’occulto; su AXIS mundi