Ildegarda di Bingen, la Sibilla del Reno

Nella decadenza di un mondo governato da soli uomini, un’intrepida monaca dallo spirito guerriero non esita a sferzare le coscienze di papi e imperatori. Mistica e profetessa, teologa e filosofa, leader e predicatrice, compositrice e medico, quella di Ildegarda di Bingen è una delle voci più originali del XII secolo. Ne ripercorriamo insieme le avventurose vicende.

di Claudia Stanghellini

Considerato l’alto tasso di mortalità infantile, quella di Hildebert di Bermersheim, ministerialis del vescovo di Spira, e Mechtilde di Merxheim è una famiglia piuttosto numerosa anche per l’epoca. Ildegarda, nata a Bermersheim – regione tedesca fra il Reno e la Nahe – nell’estate del 1098, è l’ultima di dieci fratelli, ma a differenza di tutti gli altri, come riporta il suo biografo Theodoric di Echternach [1], sin da piccola manifesta il dono profetico della visio ed è tormentata da gravi disturbi, identificati oggi come “emicrania classica”, che la accompagneranno per il resto della vita [2]. Spinti forse dalla sua particolare condizione, i genitori decidono ben presto di offrirla alla vita religiosa (oblatio), un’usanza piuttosto diffusa per la società del tempo. Così all’età di circa otto anni, Ildegarda viene allontanata dalla sua famiglia d’origine per essere affidata alle cure materiali e spirituali di una giovane nobildonna, Jutta di Sponheim, che si era consacrata a Dio e portava avanti il suo noviziato tra le mura domestiche [3] sotto la guida spirituale di una nobile vedova devota, Uda. Negli anni trascorsi a Sponheim, è Jutta a prendersi cura della formazione di Ildegarda, che si dedica allo studio del latino e dei Salmi, e impara a suonare il salterio.  

Dalla Vita Juttae [4] si apprende che alla morte della madre Sophia, avvenuta tra il 1110 e il 1111, Jutta coltivi il desiderio di partire per un pellegrinaggio. Il fratello Meinhard, tuttavia, profondamente contrario, riesce a distoglierla dai suoi propositi con l’aiuto del vescovo di Bamberg, che la persuade a legarsi a una fondazione monastica per condurre una vita secondo gli ideali anacoretici come inclusa. Jutta approva la soluzione e l’1 novembre 1112, insieme a Ildegarda ormai quindicenne, fa il suo ingresso nel monastero benedettino di Disibodenberg, seguito poco dopo dalla professione solenne di entrambe. La fama di santità di Jutta, rinchiusasi per amor Dei in una minuscola cella e provata da pratiche ascetiche che oggi si direbbero estreme [5], si estende ben presto per tutta la regione, ispirando altre giovani donne a porsi alla sua sequela. Mentre il cenobio femminile di Disibodenberg inizia a crescere, Ildegarda s’inserisce fruttuosamente nella vita monastica, benché la malattia la renda spesso talmente debole da non riuscire nemmeno a camminare. Ma non dobbiamo farci ingannare dalle apparenze: non vi sarà fragilità fisica che potrà frapporsi tra questa donna e i suoi obiettivi. Al contrario, per una mente creativa come la sua diventerà persino un’inaspettata risorsa per rafforzare la sua autorità spirituale e politica in un mondo in cui la cultura e il potere sono di esclusiva competenza maschile. 

Il 22 dicembre del 1136, Jutta vola al cielo già in odore di santità e Ildegarda prende il suo posto come abbadessa [6] delle monache di Disibodenberg. La scelta delle consorelle è unanime. Non solo è la discepola della magistra, ma possiede tutte le caratteristiche indispensabili per guidare la comunità: concretezza politica e diplomazia, un carattere deciso e risoluto e, non ultima, l’attitudine da combattente. Ma la morte di Jutta è anche l’occasione per un incontro che sarà di capitale importanza nella vita di Ildegarda. Su suo suggerimento, l’abate Kuno decide di far mettere per iscritto la vita di Jutta e incarica per la stesura Volmar, monaco «sobrio, casto, sapiente nell’animo e nell’eloquio» [7], che lavorando fianco a fianco con l’abbadessa alla realizzazione dell’opera, ne conquisterà la più sincera stima e fiducia, tanto da divenirne prima magister e successivamente segretario. Volmar sarà destinato a divenire uno dei più cari e intimi amici di Ildegarda e a condividerne fino in fondo la missione profetica che di lì a poco si vedrà assegnatale. 


Vedere cose che gli altri non vedono può essere pericoloso in un tempo in cui la Chiesa teme una diffusione delle eresie sempre più capillare e incontrollata, e il confine tra mistica e possessione è piuttosto labile. Per questo Ildegarda, che fino ai quindici anni è solita parlare con naturalezza e spontaneità delle sue visioni, entrata a Disibodenberg diventa d’un tratto molto più riservata e schiva in proposito. A parte Jutta, solo Volmar e l’abate ne sono a conoscenza. Tuttavia, come ci rivela lei stessa nella Praefatio dello Scivias, nel quarantatreesimo anno della sua vita ode una voce dal cielo: «O fragile essere umano (homo), […] dì e scrivi le cose che vedi e senti». Ma essendo Ildegarda «timida per parlarne, semplice per darne una spiegazione e incolta (indocta [8]) per scriverne» dovrà farlo esattamente nel modo in cui le vedrà e sentirà. In un mondo in cui le donne non hanno accesso a un’istruzione pari a quella maschile, è la Sapienza stessa a istruirla [9]

Nell’anno 1141 dell’incarnazione del Figlio di Dio, Gesù Cristo, quando avevo quarantadue anni e sette mesi: il chiarore infuocato di un lampo fortissimo, venendo dal cielo che si era aperto, penetrò totalmente il mio cervello e infiammò tutto il mio cuore e il petto, come fiamma che non brucia, ma riscalda, come il sole riscalda ciò su cui posa i suoi raggi. E d’un tratto ero diventata sapiente e capivo come commentare i libri, cioè il salterio, il vangelo e gli altri volumi cattolici sia dell’antico che del nuovo testamento, anche se non ero in grado di spiegarne le parole alla lettera né l’articolazione in sillabe né conoscevo i casi o i tempi.

Nonostante la potenza della chiamata, «per l’incertezza dubbiosa, temendo i giudizi malevoli e le chiacchiere della gente», Ildegarda in un primo momento si rifiuta di scrivere, finché non cade a letto malata «sferzata da Dio». A quel punto si confida con Volmar, che si rende disponibile ad aiutarla per la revisione formale del testo. Per suo stesso tramite, un primo frutto del loro lavoro viene reso noto all’abate Kuno, il quale dopo un’iniziale riluttanza, appurata l’ortodossia dei contenuti, dà il permesso a Ildegarda e Volmar di collaborare permanentemente alla stesura delle visioni, che verranno successivamente presentate anche ad Heinrich, arcivescovo di Meinz. Questo primo nucleo di scritti costituisce il principio dello Scivias, opera che inaugura la trilogia profetica di Ildegarda e verrà ultimata solo nel 1151, dopo un lavoro della durata di ben dieci anni.

Per via del suo incredibile dono, Ildegarda si vede chiamata ad assumere il ruolo di profetessa, nonostante le paure e le ansie che ne scaturiscono. Un dono di cui si rende progressivamente consapevole nel corso del tempo, fino a delinearne una vera e propria fenomenologia sia nei tratti più autobiografici dei suoi testi, che in risposta a chi volesse indagare ulteriormente la natura di questo straordinario fenomeno. Di particolare rilievo, a questo proposito, è la corrispondenza che Ildegarda intrattiene con Guibert di Gembloux, destinato a diventare, tra l’altro, il suo ultimo segretario dopo la morte di Volmar. 

Nell’epistola 103r, Ildegarda, sollecitata dalle domande di Guibert, descrive le sue percezioni extra-sensoriali con dovizia di particolari. Innanzitutto, precisa, tutto ciò che vede e sente è visto e sentito non attraverso i cinque sensi esterni, bensì con lo spirito, mentre i suoi occhi rimangono ben aperti ed ella è perfettamente sveglia. Non c’è infatti la minima sospensione delle normali facoltà: le sue visioni non hanno nulla a che fare col sogno, con la trance o l’extasis, fenomeni invece comunemente attestati, tanto che già i contemporanei riconoscono l’eccezionale rarità della modalità di visione ildegardiana, del tutto concomitante con la vista fisiologica. Ildegarda sottolinea poi come il suo dono sia inesorabilmente correlato alle sofferenze della malattia, che non le dà tregua dall’infanzia. Si percepisce con forza, attraverso le sue parole, il contrasto tra la passività del suo corpo fragile, spesso e volentieri costretto immobile a letto, e la leggerezza del suo spirito che grazie al dono della visio può innalzarsi fino alle altitudini paradisiache: «Ma io protendo le mie mani verso Dio, così che possa sollevarmi come piuma, che priva di ogni pesantezza e forza vola per il vento» [10]

Poi va ancora oltre e dice di vedere una luce, da lei battezzata «ombra della Luce Vivente» (umbra viventis luminis), che senza confini si estende su ogni cosa ed è più brillante dei raggi di sole che filtrano attraverso le nuvole. Su questa luce si riflettono le Scritture, i sermoni, le virtù e le opere degli uomini. Nella visio tutto è immediatamente intuito: «E nello stesso tempo vedo e ascolto e comprendo, e quasi in un istante ciò che comprendo apprendo» [11]. Le parole che Ildegarda vede e ode, nelle sue visioni, non assomigliano a quelle del linguaggio umano, ma sono come fiammelle ardenti e le nuvole che si muovono attraverso l’aria tersa. La forma di questa luce, prosegue Ildegarda, non la si può afferrare più di quanto non si possa sostenere lo sguardo fisso nel sole e tuttavia è sempre presente al suo spirito, da qui la sua capacità permanente di interpretare la realtà con sguardo profetico. A volte le capita, infine, di vedere un’altra luce nell’«ombra della Luce Vivente», la «Luce Vivente» (lux vivens), ma la sua ineffabilità è tale, da rendere quasi impossibile l’impresa di descriverla [12]

E in quella medesima luce vedo talvolta, non di frequente, un’altra luce, che chiamo «Luce vivente», che sono senza dubbio meno in grado di spiegare come io la veda, rispetto alla prima [l’ombra della Luce vivente]. E mentre vi fisso attentamente lo sguardo, ogni tristezza e ogni dolore viene allontanato dalla mia memoria, così allora da non aver più le maniere di una vecchia donna, ma di un’ingenua ragazza.

In sintesi, Ildegarda vede, con l’occhio interiore, immagini che si presentano come figure e segni. Questi sono poi immediatamente compresi grazie a una voce spirituale che le spiega il significato figurale o allegorico delle immagini. Nelle sue opere visionarie questo processo, per sua natura uniforme e indivisibile, viene astratto nelle sue due componenti essenziali, ossia quella immaginativa, oggetto di interpretazione allegorica, e quella interpretativa, l’allegoresi stessa.


La decade che va dal 1137 al 1147 vede la progressiva accettazione di Ildegarda da parte del potente mondo maschile circostante, dapprima nel ristretto contesto di Disibodenberg e successivamente nell’ambito dell’arcivescovato di Mainz. Occorre, tuttavia, un’investitura più solenne affinché la sua caratura profetica sia a tutti gli effetti riconosciuta e posta al riparo da qualsiasi genere di messa in discussione. È questo un momento storico particolarmente delicato, che ancora non vede la piena riconciliazione fra Chiesa e Impero e in cui le eresie, come quella catara, continuano a diffondersi. Serve dunque una grande prudenza per presentare al mondo ecclesiastico qualunque genere di novità sul piano teologico. Da questo punto di vista lo Scivias, benché a livello contenutistico sia un compendio della dottrina cristiana paragonabile ad altri scritti del suo tempo, mostra una assoluta originalità per la forma profetica in cui è concepito e redatto. Oltre a questo, come sottolinea Pereira [13], c’è anche la questione della valorizzazione dell’unità psicosomatica umana che, pur essendo in contrasto con le derive eretiche dualiste sostenute in Occidente dai catari, avrebbe potuto essere malvista, soprattutto in ambiente monastico, a fronte della definizione agostiniana dell’uomo come «anima razionale che si avvale di un corpo terreno e mortale» [14]. E poi dallo Scivias traspare chiaramente la convinzione di Ildegarda, di ordine etico-politico, che il generale decadimento che affliggeva la societas, sempre più corrotta e pervertita nei suoi costumi, sia legato alla fiacchezza morale che pervade la Chiesa stessa, spesso e volentieri disponibile a lasciarsi inquinare dalle logiche di potere proprie del mondo laico, mentre «il cibo vitale delle divine Scritture si è già intiepidito» [15].  

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È per questo motivo che Ildegarda, tra il 1146 e il 1147, decide di ricercare preliminarmente l’approvazione di Bernardo di Chiaravalle, una delle massime autorità teologiche del tempo, nonché strenuo difensore dell’ortodossia, che aveva già avuto parte attiva nei tentativi di condannare pensatori come Abelardo, Guglielmo di Conches e Gilberto di Poiters. Quella che emerge dalla missiva di Ildegarda è una fine intelligenza strategica e politica che, facendo leva sulla retorica dell’umiltà e non senza una certa captatio benevolentiae, non esita a domandare l’autorizzazione a procedere sulla strada intrapresa. La risposta di Bernardo, a tratti militaresca, non lascia dubbi [16]

Del resto, sei unta dal Signore, la Sapienza è dentro di te e ti istruisce su ogni cosa, che potremmo noi insegnarti o consigliarti?

Il dado è tratto. Non rimane che un ultimo ostacolo: papa Eugenio III. Informato dall’arcivescovo di Meinz, Heinrich, manda due legati a Disibodenberg per ritirare una copia degli scritti di Ildegarda. Siamo nel 1148 e il pontefice sta presiedendo il sinodo di Trier quando gli viene consegnato la versione più recente, e ancora incompleta, dello Scivias. Eugenio legge l’opera di fronte all’intera assemblea, che nel complesso si pronuncia favorevolmente. Bernardo di Chiaravalle è tra i membri a favore. Ildegarda ha finalmente l’autorizzazione formale che le occorre per proseguire insieme a Volmar il suo lavoro di messa per iscritto delle visioni. 

L’intervento del papa al sinodo di Trier ratifica dunque l’autorità profetica di Ildegarda, che dovrebbe essere tutelata da eventuali contestazioni. La prassi, tuttavia, spesso e volentieri non si adegua alla teoria, soprattutto se in gioco ci sono forti interessi economici e politici. 

Così quando, non molto tempo dopo, avendo necessità di fare spazio a una comunità in costante crescita, Ildegarda riceve in visione l’ordine di fondare un nuovo convento sul colle di Ruperstberg – a circa una trentina di chilometri di distanza da Disibodenberg –, non solo non incontra il sostegno dei suoi confratelli, ma, addirittura una strenua opposizione. L’abate Kuno non può certo tollerare l’allontanamento della principale fonte di prestigio e ricchezza del monastero, tanto più adesso che la fama di santità di Ildegarda, «Sibilla del Reno», si è sparsa per tutta la regione, attirando un gran numero di pellegrini, carichi di offerte. Inoltre le giovani monache sottoposte alla sua autorità sono tutte di estrazione aristocratica e con le loro ricche doti hanno largamente contribuito al benessere di Disibodenberg. Ma Ildegarda non è disposta a cedere e cade in uno stato di terribile malattia, così potente da costringerla a letto paralizzata.

Kuno e gli altri confratelli, stupefatti dalla singolarità di tale fenomeno, devono arrendersi di fronte al fatto che si tratti di un ammonimento divino e sono costretti a far cessare ogni tipo di opposizione. Grazie alla loro resa, Ildegarda può rimettersi in forze, ma la strada che l’attende per portare a termine il compito che le è stato affidato è ancora lunga e tortuosa. Grazie all’intervento della potente marchesa Richardis von Stade, riesce a ottenere il permesso dell’arcivescovo di Mainz – sotto cui cade la giurisdizione ecclesiastica di Ruperstberg – a procedere con la fondazione. Quando, tuttavia, insieme alle sue venti monache si reca sul posto per cominciare a predisporre il futuro insediamento, deve scontrarsi con l’abbandono cui era andato incontro quel luogo. Le prospettive sono talmente desolanti che persino le sue consorelle cominciano a mormorare contro di lei, ma Ildegarda non si lascia abbattere e di lì a qualche tempo molte famiglie benestanti cominciano a elargire donazioni e a scegliere Ruberstberg come luogo di sepoltura per i loro cari defunti.

Finalmente, nel 1150, può avvenire l’insediamento vero e proprio. Ma la battaglia è appena agli inizi e l’indipendenza finanziaria e amministrativa del suo monastero ancora tutta da conquistare. Se Ildegarda può infatti contare sull’appoggio dell’arcivescovo di Mainz, Heinrich, e del suo successore Arnold, che, di comune accordo con gli abati, prima Kuno e poi, alla sua morte, Helengerus, decretano l’indipendenza della fondazione e dei suoi possedimenti da Disibodenberg, lo stesso non vale per la comunità d’origine, tanto che l’abbadessa si vede costretta a tornarvi per chiudere la faccenda una volta per tutte. La causa della tensione è in parte di natura economica e riguarda tutte quelle proprietà portate in dote dalle consorelle al momento del loro ingresso a Disibodenberg. Ildegarda dimostra comprensione e diplomazia: avrebbero potuto conservarle, unitamente all’assegnazione di una consistente somma di denaro, così da soffocare sul nascere qualsiasi genere di pretesa economica futura, a patto che venga assicurata l’assoluta separazione dei recenti possedimenti acquisiti da Ruperstberg. Vi è, tuttavia, un punto dell’accordo su cui Ildegarda non può transigere: la designazione di Volmar a guida spirituale della neonata fondazione. Trattandosi di uno dei confratelli più eruditi e capaci, la comunità si oppone, suscitando l’indignazione di Ildegarda che, forte della sua investitura profetica, lancia un pesantissimo strale su Disibodenberg, laddove i monaci non acconsentano alla partenza di Volmar [17]

Tuttavia se mai tentaste di strapparci via il pastore della medicina spirituale, allora vi dico che sareste simili ai figli Belial perché non osservate la giustizia di Dio; e per questo motivo la giustizia di Dio vi distruggerà. 

Un tale ammonimento non avrebbe potuto passare inascoltato, e i confratelli si vedono costretti a cedere. Dopo tanti ostacoli, Ildegarda può finalmente assistere al progressivo sbocciare della nuova comunità di monache benedettine da lei fondata. Circa una quindicina di anni dopo, nel 1165, grazie alla straordinaria fama, alle alte protezioni ottenute e all’appoggio dell’arcivescovo di Mainz, riuscirà anche ad aprire un convento a Eibingen, nei pressi di Rüdesheim, sulle rovine di una fondazione agostiniana distrutta dall’imperatore Federico Barbarossa, destinato all’accoglienza delle monache di estrazione sociale inferiore. Le due comunità sorelle, collocate sulle sponde opposte del fiume Nahe, si manterranno sempre in stretto rapporto. 


A una vittoria, tuttavia, non sempre ne segue un’altra. Ildegarda, al momento della sua professione solenne, ha rinunciato scientemente a ogni tipo di affezione terrena, lo ribadisce a più riprese sia nelle note autobiografiche che costellano i suoi scritti, che nei Carmina. Ma ci sono due persone nella sua vita da cui non potrebbe mai distaccarsi: Volmar – e si è vista qual è stata la sua reazione all’idea che non potesse trasferirsi a Ruperstberg – e Richardis von Stade, consorella e discepola che considera alla stregua di una figlia. Se il cognome suona familiare, è perché sua madre è la potente marchesa che con la sua influenza e il suo potere economico ha massicciamente contribuito a sostenere la nuova fondazione e che ora desidera per Richardis una posizione migliore. Non è passato neanche un anno dall’insediamento a Ruperstberg che Richardis decide di accettare la nomina ad abbadessa del monastero di Bassum

Ormai conosciamo sufficientemente Ildegarda per immaginare quale possa essere stata la sua reazione. Dallo sconvolgimento iniziale, passa rapidamente all’azione. Dapprima fa appello alla marchesa von Stade, ben consapevole che sia lei, mossa da logiche di ordine tutt’altro che spirituale, la mente all’origine di tali macchinazioni. Non essendo riuscita nell’intento di persuaderla, si rifiuta categoricamente di lasciar partire Richardis, al punto che deve intervenire l’arcivescovo di Meinz. Ildegarda, allora, in veste profetica, oppone all’autorità umana del suo superiore quella divina, e arriva ad accusare l’arcivescovo, neanche troppo velatamente, di essere un simoniaco; i suoi ordini, pertanto, sarebbero stati disattesi [18]

O pastori, lamentatevi e piangete in questo tempo, perché non sapete quello che fate quando disperdete i doveri costituiti in Dio nelle ricchezze, nel denaro e nell’insensatezza degli uomini corrotti, che non hanno timore di Dio. E perciò le vostre parole ingannevoli, minacciose e maledette non devono essere ascoltate. 

Per quanto vi siano sufficienti elementi per ritenere l’elezione irregolare, va anche detto che tutte le mire politiche della famiglia von Stade e il favore delle gerarchie ecclesiastiche non sarebbero bastati se Richardis avesse deciso di opporre un fermo rifiuto di fronte alle possibilità di carriera che le venivano prospettate, ma così non è stato. Quali siano state le motivazioni che l’abbiano spinta ad accettare la carica, se le dure condizioni del primo anno di vita a Ruperstberg, le pressioni della sua famiglia d’origine o l’ambizione personale, non lo sapremo mai con certezza. Ciò che sappiamo è che Ildegarda, nonostante lo sconcerto e il profondo dolore di madre tradita, continua a non darsi per vinta e dopo il trasferimento della ragazza scrive anche ad Hartwig, fratello di Richardis, che in quanto arcivescovo della diocesi di Bassum avrebbe avuto il potere di invalidare l’elezione, ma le sue accorate suppliche cadono nel vuoto. Non le rimane che il papa e Ildegarda, non volendo lasciare nulla di intentato, ci prova. La sua lettera è andata perduta, ma non la risposta di Eugenio, che evade salomonicamente la sua petizione: la faccenda, dichiara, è già stata delegata all’arcivescovo di Mainz – quello stesso Heinrich che Ildegarda aveva tacciato di simonia – , il quale avrebbe provveduto ad assicurarsi che la Regola fosse rigidamente osservata nel monastero di Bassum e che, in caso contrario, Richardis sarebbe stata rimandata a Ruperstberg senza indugio. Non resta altro da fare che rassegnarsi agli eventi. 

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Il medievista e interprete ildegardiano Peter Dronke annota come in talune occasioni sia possibile avvertire da parte di Ildegarda un certo abuso del suo ruolo profetico, che non sarebbe sfuggito nemmeno a papa Eugenio, il quale, nel corpo centrale della sopracitata lettera, la mette in guardia dal peccato di orgoglio e presunzione. Chiosa Dronke: «Non è mai men che certa di conoscere la volontà di Dio: fare la volontà di Dio e fare la propria volontà sono considerate cose identiche» [19]. Se, tuttavia, si presta fede alla testimonianza stessa di Ildegarda, secondo cui: «La mia anima tuttavia in nessun momento è priva di quella luce, chiamata ombra della luce vivente, che vedo come se vedessi attraverso una nube luminosa il firmamento senza stelle; e in questa stessa luce vedo le cose di cui spesso parlo e a chi mi interroga do risposte secondo lo splendore della luce vivente» [20], cade ogni accusa di megalomania nei suoi confronti. Al di là di ogni speculazione possibile sulle intenzioni, è evidente che quello nei confronti di Richardis è un attaccamento materno talmente forte, da spingerla a lottare con tutti gli strumenti che le sono disponibili per evitare che la sua adorata figlia spirituale cada in errore. E, tuttavia, come ogni madre, alla fine anche Ildegarda non può far altro che arrendersi all’inevitabile, ossia al fatto che Richardis debba libera di prendere le sue decisioni, anche se sbagliate. È con questa consapevolezza che la mistica, nel 1152, scrive all’abbadessa Richardis in cerca di riconciliazione [21]

Figlia, ascolta me, tua madre in spirito, che ti dico: Il mio dolore aumenta. Il dolore uccide la grande fiducia, il grande conforto che trovai in un essere umano […] Ora nuovamente dico: Ahimè, madre, ahimè, figlia! Perché mi hai abbandonata come un’orfana? Amavo la nobiltà del tuo comportamento, la tua saggezza e castità, la tua anima, tutta la tua vita, tanto che molti dicevano: che stai facendo? Ora, che tutti coloro che provano un dolore come il mio piangano con me, tutti coloro che mai, per l’amore di Dio, hanno provato in cuor loro e nell’anima un amore profondo per un essere umano come io per te, per una persona strappata loro in un attimo, come tu sei stata strappata a me. Ma possa precederti l’angelo di Dio, il figlio di Dio proteggerti, sua madre difenderti. Ricorda la tua povera madre Ildegarda, che non venga meno la tua felicità.

Richardis morirà il 29 ottobre del 1152, circa un anno dopo la sua partenza da Ruperstberg. È Hartwig a darne notizia a Ildegarda in una toccante lettera, dalla quale traspare, tra le righe, l’amara consapevolezza a posteriori dell’aver commesso un errore – un errore che Hartwig imputa a se stesso, prima ancora che alla sorella – nell’aver allontanato Richardis da Ruperstberg. In un tempo in cui ogni evento si fa segno, è facile immaginare che la prematura dipartita dell’abbadessa di Bassum non lasci indifferenti quanti si sono adoperati per contrastare i severi ammonimenti di Ildegarda. Stando alle parole di Hartwig, pare inoltre che Richardis si fosse pentita della sua decisione e che, se la morte non glielo avesse impedito, sarebbe tornata a Ruperstberg non appena le fosse stata concessa l’autorizzazione. L’arcivescovo di Brema conclude la sua lettera con un caldo ringraziamento, prova che egli abbia infine compreso che l’apparente ostinazione di Ildegarda, altro non fosse che la chiara dimostrazione di una dedizione totale nei confronti dell’amata figlia nello spirito. La risposta di Ildegarda ad Hartwig sancirà definitivamente la riconciliazione tra i due a proposito della travagliata vicenda. La morte di Richardis, d’altra parte, è letta alla luce della fede nella Provvidenza, che l’ha strappata alle grinfie del mondo, inimico amatori, per consegnarla alle braccia amorose di Cristo.


Negli anni successivi, grazie ai fitti scambi epistolari il lavoro di apostolato di Ildegarda comincia progressivamente a rivolgersi anche al mondo esterno al claustrum. Nei suoi interventi è evidente la costante preoccupazione nei confronti della politica imperiale e del potere secolare – si ricordi la crisi scismatica, avvenuta tra il 1159 e il 1177, che vede l’opposizione tra Pontefici e antipapi, eletti dall’imperatore –, ma soprattutto della Chiesa, percorsa da spinte diverse e tra loro contrastanti, come il pauperismo di certi movimenti spirituali, la diffusione di concezioni ereticali come quella catara, il profetismo e la formulazione di dottrine teocratiche. Tra i suoi corrispondenti più illustri, oltre a Bernardo di Chiaravalle, si annoverano quattro papi, i due imperatori Corrado III e Federico Barbarossa, Enrico II d’Inghilterra e anche Eleonora d’Aquitania. Ma la progressiva maturazione della figura pubblica e profetica di Ildegarda non si limita alla carta scritta. 

A partire dal 1158 – quando l’abbadessa ha già la veneranda età di sessant’anni – inizia a predicare in diverse aree della Germania. È incredibile se consideriamo che all’epoca non tutti i tragitti potevano essere percorsi per via fluviale, ma certi necessariamente via terra, e il raggio dei suoi spostamenti è piuttosto ampio: tra il 1158 e il 1161, si reca in varie comunità della regione lungo il Meno; una seconda campagna di predicazione si svolge nel 1160 tra la Renania e la Lotaringia; una terza nella regione del Reno tra il 1161 e il 1163 e infine una quarta in Svevia, tra il 1170 e il 1171. Si badi bene che Ildegarda rivolge sermoni non solo ai monaci nelle loro abbazie, ma anche ai vescovi e al clero nel corso dei loro sinodi e ai laici nelle città, laddove la predicazione pubblica, nella prassi ordinaria, è interdetta alle donne, in quanto prerogativa dei sacerdoti. L’eccezione, nel suo caso particolare, è resa possibile dall’avvenuta attestazione formale del suo dono profetico, che la pone in una posizione del tutto straordinaria rispetto alle disposizioni canoniche. I contatti con le comunità e, al loro interno, con le singole persone, sono poi spesso occasione di successivi scambi epistolari, grazie ai quali i legami istituiti hanno modo di consolidarsi. Ildegarda diviene così per molti un vero e proprio punto di riferimento: come profeta, come magistra e per lo scioglimento di controversie teologiche. Questo perché all’indubbia elezione divina s’aggiunge una profonda capacità di comprensione, maturata dall’esperienza di guida della sua comunità, che le consente di consigliare per il meglio quanti si rivolgano a lei per un aiuto o un indirizzamento spirituale. È molto nota anche per la sua profonda conoscenza delle erbe e dei rimedi tradizionali, richiestale, per altro, dal ruolo stesso di abbadessa: i monasteri benedettini infatti non si preoccupano solo della cura dei propri monaci, ma rispondono anche alle necessità mediche delle popolazioni circostanti. Ildegarda poi, alla conoscenza maturata sul campo, affianca un’attività di riflessione che per l’epoca possiamo dire “scientifica”. Il risultato è compendiato nel Liber subtilitatum diversarum naturarum creaturarum, un’enciclopedia medico-naturalistica che nella tradizione manoscritta viene distinta in due trattati a sé stanti: la Physica, che passa in rassegna analiticamente il mondo vegetale, animale e minerale, e il Causae et curae, in cui affronta argomenti di cosmologia e cosmografia per giungere alle cause di alcune malattie e per presentare le rispettive terapie. 

Capita spesso, dunque, che venga interpellata a proposito delle sue abilità di guaritrice (vetula). Uno dei casi che ha più segnato l’immaginario dei contemporanei, vista la ricorrente presenza nelle fonti, è quello di Sigewize, una giovane del basso Reno posseduta da un demone. Dopo sette anni di peregrinazioni questa donna giunge al monastero di Brauweiler, dove spera di essere liberata per intercessione di San Nicola. Tuttavia il demone che si è legato a lei, interrogato, dichiara che non se ne sarebbe andato a meno che ciò gli fosse stato imposto da una certa vetula del Reno, detta, in modo derisorio, Scrumpilgardis. Così, nel 1169, l’abate scrive a Ildegarda spiegandole la situazione e allegando la richiesta che fosse lei a praticare l’esorcismo. L’abbadessa renana ci racconta che in un primo momento è costretta a rifiutare a causa delle sue cattive condizioni di salute, ma che in seguito cambia idea e accetta di guarire la ragazza scrivendo per lei una complessa messa in scena che avrebbe avuto il potere di scacciare il demone. Le sue istruzioni vengono seguite fedelmente, ma gli effetti dell’esorcismo risultano solo temporanei e l’abate, a questo punto, intercede presso Ildegarda perché riceva personalmente Sigewize nel suo monastero. Benché l’abbadessa e le monache siano terrorizzate dalla prospettiva, accettano e dopo settimane di preghiere comuni e pratiche ascetiche condivise ottengono come risultato la graduale – e finalmente definitiva – convalescenza di Sigewize. 

In questi stessi anni, oltre a occuparsi dell’ordinaria amministrazione della sua fondazione, coltivare rapporti di ordine politico e spirituale col mondo esterno e intraprendere quei numerosi viaggi di predicazione cui si è avuto modo di fare cenno, Ildegarda intensifica anche la sua produzione scritta. Nell’arco di tempo che va dal 1151 al 1158 oltre al Liber subtilitatum compone lOrdo virtutum, la prima rappresentazione sacra del Medioevo, un “dramma musicale” in cui è messa in scena con figure allegoriche la vittoria dell’anima sul diavolo con l’aiuto delle virtù. Ma il corpus musicale di Ildegarda non si esaurisce qui e comprende anche settantasette canti, riuniti secondo l’indicazione dell’autrice nella Symphonia harmonie caelestium revelationum, dove l’essere umano, attraverso la sua anima, sperimenta in sé la sacra sinfonia delle creature e delle realtà rivelate. Sempre a questo periodo risale poi la Lingua ignota, una vera e propria lingua artificiale composta di 1013 parole, tracciate in un alfabeto inventato, riportato nel testo Littera ignota

Dal 1158 in avanti, le sue energie vengono invece dedicate al completamento della trilogia profetica, inaugurata quasi una ventina di anni prima dallo Scivias, con la stesura dei due testi fondamentali del Liber vitae meritorum e del Liber divinorum operum, culmine della sua produzione teologica, cheraccoglie in un disegno complesso, ma unitario, tutto il sapere e l’esperienza dell’abbadessa renana, che ha ormai maturato, col sopraggiungere dell’età avanzata, un estremo grado di consapevolezza profetica. Nel 1173, prima che l’operasia conclusa, viene a mancare Volmar, che ha fedelmente condiviso con lei l’onere della missione profetica per trentasette lunghi anni. Nonostante il dolore per una perdita incolmabile, Ildegarda deve terminare la sua ultima fatica e per farlo può contare sull’aiuto di Ludwig, abate di Sant’Eucario di Trier, e del nipote Wezelin, prevosto di Sant’Andrea a Colonia. In seguito da Disibodenberg inviano un monaco, Gottfried, che diviene il suo nuovo segretario. Questi, tra le altre cose, recupera il materiale biografico che era stato collezionato negli anni precedenti da Volmar, compresi alcuni passi dettati dall’abbadessa stessa, e redige un libellus, che coincide con i sette capitoli della prima parte della Vita Hildegardis. Gottfried, tuttavia, muore nel 1176, troppo presto per portare a termine il suo lavoro. Destinato a farsi erede di tale incarico, dopo la prematura scomparsa degli altri due successori designati, è un monaco dell’abbazia di Villers, Guibert di Gembloux, che tra il 1175 e il 1177 intreccia una stretta corrispondenza con Ildegarda che lo condurrà presto a Ruperstberg, dove diventerà il suo ultimo segretario e condividerà con lei quel poco tempo che le rimarrà da vivere. Qui nel corso degli anni raccoglierà e assembleerà quanto più materiale biografico possibile, con l’idea di portare a termine la redazione della Vita, proposito che non gli riuscirà mai di realizzare. A concludere l’opera sarà il già citato Theodoric, magister scholarum a Echternach, che s’incaricherà del lavoro su commissione degli abati Ludwig di Echternach e Gottfried di Sant’Eucario, amici di Ildegarda, pur non avendo mai conosciuto l’abbadessa renana di persona. 

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Nel 1178, l’ormai ottantenne Ildegarda, un anno prima di morire, deve fronteggiare un ultimo amarissimo scontro, che potrebbe determinare la tragica distruzione della sua comunità. L’abbadessa, si legge nella Vita [22], ha infatti acconsentito alla sepoltura in terra consacrata di un «un certo ricco filosofo» che da miscredente si era infine ricreduto ed era diventato uno dei più ferventi sostenitori della comunità benedettina retta da Ildegarda. Tuttavia i prelati di Mainz, non credendo alla sua conversione e sapendolo scomunicato, in nome del loro arcivescovo ingiungono a Ildegarda di disseppellire immediatamente il cadavere dell’uomo e di gettarlo in terra sconsacrata. In caso di rifiuto, la pena sarebbe la scomunica dell’intera comunità di monache, con il conseguente impedimento a partecipare all’Eucaristia e a cantare l’Ufficio divino. Ma Ildegarda con un atto che potremmo definire oggi di disobbedienza civile, decide di sfidare l’interdetto: con il suo baculus – il bastone emblema della sua autorità di abbadessa – traccia il segno della croce sulla tomba ed elimina ogni indizio che potrebbe portare alla sua identificazione, così da non poter essere profanata. 

Si avvertono, in questa vicenda, gli echi dello scontro tra Antigone e Creonte, tra la pietas e la legge. Ancora una volta, come già era avvenuto per la fondazione di Ruperstberg e la nomina di Richardis ad abbadessa di Bassum, Ildegarda non si mostra disposta a rispettare l’autorità umana, laddove sia in manifesto contrasto con la volontà di Dio e la propria coscienza. Allo stesso tempo, però, dando prova di umiltà e obbedienza, accetta di assumersi tutte le responsabilità che il suo atto di ribellione comporta e così, pur con sommo dolore, astiene sé stessa e le consorelle dal partecipare all’Eucaristia e dal cantare le lodi divine. 

In una visione, tuttavia, come lei stessa racconta, apprende che ciò non è bene per la sua comunità e che avrebbe dovuto fare appello all’autorità dei suoi superiori, i prelati di Mainz, affinché ritirassero il loro interdetto, in quanto ingiustificato. Da qui la tanto lunga, quanto intensa lettera a loro indirizzata, celebre per la particolare concezione filosofica e teologica della musica in essa esposta. Quella del canto, per Ildegarda, è un’arta sacra e potente, capace di ripristinare l’armonia originaria della patria celeste, perduta dopo la Caduta. Per questo motivo il diavolo l’ha in odio e cerca in tutti i modi di distruggere l’insegnamento e la bellezza delle lodi divine, talvolta agendo anche nel cuore della Chiesa. Ildegarda avverte pertanto i prelati, con tono forte e deciso e parole che lasciano poco spazio all’interpretazione, di prestare molta attenzione e cautela laddove si tratti di prendere decisioni che chiudano la bocca ai cori che cantano le lodi a Dio [23]:  

Per questo coloro che tengono le chiavi dei cieli [sacerdoti], facciano molta attenzione a non aprire ciò che deve rimanere chiuso e a chiudere ciò che deve rimanere aperto, poiché coloro che governano su queste cose saranno giudicati con durezza, qualora, come dice l’Apostolo, non lo facciano con sollecitudine. 

Il monito di Ildegarda è una lama che cade implacabile sul collo dei prelati dei Mainz. Questa lettera, unitamente all’intervento dell’arcivescovo di Colonia che ha raccolto le testimonianze di coloro che avevano assistito al pentimento dello scomunicato, valgono a far cadere l’interdetto.

Ildegarda morirà pochi mesi dopo, il 17 settembre 1179. Al crepuscolo di quella domenica sera, le consorelle testimoniano di assistere all’apparizione nel cielo di due arcobaleni luminosissimi, che si allargano fino a coprire tutta la terra, uno da nord a sud, l’altro da est a ovest. Dal punto più alto, dove i due archi si uniscono, erompe una luce chiara, da cui fa capolino una croce splendente, che pian piano si ingrandisce e viene circondata da innumerevoli cerchi di colori diversi, su cui risaltano tante piccole croci luminose, una per ogni circolo e tutte più piccole della prima. Spargendosi per tutto il firmamento, affluiscono in maggior numero verso Oriente e scendono verso terra, illuminando tutto il colle di Ruperstberg.


Note:

[1] Cfr. Theodoricus Epternacenses, Vita S. Hildegardis Virginis in M. Klaes (a cura di), Vita Sanctae Hildegardis, CCCM, 126, Brepols Publishers, Turnhout 1993, pp. 1-71. 

[2] Si tratta di una malattia che si manifesta con una fase di “aura” nella quale possono darsi anche allucinazioni visive e che secondo il neurologo Oliver Sacks può essere considerata insieme come una struttura le cui forme sono implicite nel repertorio del sistema nervoso, e una strategia che potrebbe essere utilizzata per qualsiasi scopo emotivo o, invero, biologico (cfr. O. Sacks, Le visioni di Hildegard in L’uomo che scambio sua moglie per un cappello, Adelphi, Milano 1986, pp. 222-226). 

[3] Si è ritenuto a lungo che l’oblazione di Ildegarda fosse coincisa con il suo ingresso al monastero di Disibodenberg. Questa tesi è stata tuttavia messa in discussione alla luce di una riesamina sistematica delle fonti biografiche. Si veda: A. Silvas, Jutta & Hildegard: The Biographical Sources, Brepols Publishers, Turnhout 1998.

[4] Cfr. Vita domnae Juttae inclusae, tr. ing. a cura di A. Silvas in A. Silvas, Jutta & Hildegard: The Biographical Sources, cit., pp. 65-88. Da qui in avanti Vita Juttae.

[5] Oltre agli intensi e prolungati digiuni, cui si aggiungeva l’astinenza permanente dalle carni, Jutta indossava giorno e notte il cilicio e alla sua morte si scoprì che portava anche una pesante catena di ferro che le aveva scavato tre solchi profondi nella carne. Tali pratiche Jutta le riservava a se stessa e non le estendeva alle sue allieve, cui si limitava a dare l’esempio. Cfr. Vita Juttae, IV-VI;VIII cit., pp. 70; 72-74; 80. 

[6] Quello che in origine era il reclusorio di Jutta, con la sua morte diviene ufficialmente una fondazione monastica femminile, che tuttavia continuava a dipendere tecnicamente dall’abate di Disibodenberg. Ildegarda quindi, dal punto di vista formale, negli anni di Disibodenberg non fu mai abbadessa in senso stretto, per quanto ne avesse a tutti gli effetti le prerogative. In molti documenti, il titolo che le viene attribuito è quello di magistra.

[7] Guibert di Gembloux, Guiberti Gemblacensis Epistolae, a cura di A. Derolez, CCCM, 66A, Brepols Publishers, Turnhout 1998-1989, vol. 2, ep. 38, p. 377. Traduzione mia.

[8] Quello dell’istruzione di Ildegarda è un problema storiografico che rimane ad oggi oggetto di viva discussione. Dalle fonti biografiche si sa infatti per certo che ricevette un’educazione rudimentale dalla sua magistra Jutta, che includeva l’apprendimento del latino e dei Salmi. Diversi interpreti, tuttavia, tra cui il Dronke, ritengono che la sua cultura e le sue competenze grammaticali, pur non formalmente acquisite a scuola, siano venute costantemente arricchendosi nel corso della vita, così come le sue fonti che includerebbero, oltre alle Scritture, anche i testi dei Padri della Chiesa e classici latini come il De natura deorum di Cicerone, la Pharsalia di Lucano, le Questiones Naturales di Cicerone e le Metamorfosi di Ovidio (cfr. P. Dronke, Problemata Hildegardiana, «Mitellateinisches Jahrbuch», 16, (1981), pp. 107-114). L’insistenza con cui Ildegarda si ostinerebbe a definirsi indocta sarebbe pertanto dovuta alla necessità di mantenere un profilo basso e umile, indispensabile per fugare ogni dubbio circa l’autenticità delle sue visioni. 

[9] Ildegarda di Bingen, Sanctae Hildegardis Scivias sive visionum ac revelationum libri tres, Praefatio in Patrologia Latina, vol. 197, coll. 1065-1082A. Da qui in avanti Scivias. Traduzione di M. Pereira in Ildegarda di Bingen. Maestra di sapienza nel suo tempo e oggi, Gabrielli Editori, Verona 2017, p 36.

[10] Ildegarda di Bingen, Hildegardis Bingensis Epistolarium, a cura di L. van Acker – M. Klaes, CCCM, 91-91B, Brepols Publishers, Turnhout 1999-2001, vol. 2, ep. 103r, p. 260; pp. 258-265. Da qui in avanti Epistolarium. Traduzione mia.

[11] Ibi, ep. 103r, p. 262. Traduzione mia.

[12] Ibi, p. 262. Traduzione mia. 

[13] Cfr. M. Pereira, Ildegarda di Bingen. Maestra di sapienza nel suo tempo e oggi, cit., pp. 62 ss. 

[14] Agostino, De moribus ecclesiae, cap. XXVII, col. 1132 in Patrologia Latina, vol. 32, coll. 1309-1378. Traduzione mia.

[15] Ildegarda di Bingen, Scivias, cit., III, 11, coll. 0714C-0714D. Traduzione mia.

[16] Ildegarda di Bingen, Epistolarium, cit., vol. 1, ep. 1r, p. 6 s. Traduzione mia.

[17] Ildegarda di Bingen, Sanctae Hildegardis Explanatio symboli Sancti Athanasii ad congregationem sororum suarum, coll. 1065C-1066B in Patrologia Latina, vol. 197, coll. 1065-1082A. Traduzione mia.

[18] Ildegarda di Bingen, Epistolarium, vol. 1, ep. 18r, p. 54. Traduzione mia. 

[19] P. Dronke, Donne e cultura nel Medioevo. Scrittrici medievali dal II al XIV secolo, a cura di P. Cesaretti, Il Saggiatore, Milano 1986, p. 208.

[20] Ildegarda di Bingen, Epistolarium, cit., vol. 2, ep. 103r, p. 262. 

[21] Ibidem. Traduzione di P. Dronke in Donne e cultura nel Medioevo. Scrittrici medievali dal II al XIV secolo, cit., p. 208 s. 

[22] Theodoric di Echternach, Vita Hildegardis, II, 12, cit., p. 37.  

[23] Cfr. Ibi, p. 65. 

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