Compiere l’Opera: una peregrinazione nella Cappella Sansevero, a Napoli

Visitare il tempio concepito dal principe Raimondo di Sangro significa prendere parte a una grande storia collettiva, diramata tra meraviglie artistiche e simboli iniziatici. Seppur da spettatori, è un’esperienza che andrebbe fatta almeno due volte nella vita.

di Lorenzo Pennacchi

Igne Natura Renovabitur Integra.

Napoli è la città degli opposti per antonomasia. Basta trascorrervi poche ore per intuire come sacro e profano, ricchezza e povertà, gloria e decadenza si contamino inevitabilmente. Il centro storico di Napoli è un groviglio di cultura popolare inimitabile, estremamente esteso, ordinatamente strutturato attraverso l’impianto urbanistico originale, definito da cardini e decumani. Tra cantanti improvvisati sui balconi, motorini normalizzati tra i pedoni, panni stesi in strada e palati costantemente alimentati, ricercare l’armonia potrebbe sembrare un paradosso. Eppure, ci sono luoghi in cui il tempo sembra essersi fermato e dove trovare risposte anche per il nostro declinante mondo. Uno di questi è sicuramente la Cappella Sansevero

Vista panoramica della Cappella.

Situata accanto al palazzo dei principi di Sansevero, una famiglia nobiliare di origine pugliese, la Cappella ha misteriose origini alla fine del Cinquecento, fungendo per il secolo successivo da mausoleo familiare, già abbellito da significative statue in marmo. Ma è solo nel Settecento che si afferma in tutta la sua maestosità, grazie alla progettualità e agli investimenti del principe Raimondo di Sangro. Conosciuto come Il Principe, è stato mecenate, massone, anatomista, esoterista, personalità eccentrica esposta a scandali (più o meno leggendari) e per questo non gradita ai suoi contemporanei. Figura di spicco della nascente massoneria napoletana, di cui ha ricoperto la carica di gran maestro per poco più di un anno (1750-’51), prima di essere intimato da papa Benedetto XIV a ritornare sui propri passi, la sua vita è stata rivolta verso la conoscenza eterna, incastonando la gloria del suo casato nel marmo al riparo da facili condanne.

Non a caso, per abbellire la Cappella, si è servito di alcuni dei più grandi artisti del suo tempo, a cui ha fornito indicazioni precise e che ha minuziosamente seguito durante il loro lavoro. Quest’attenzione, nonché amore profondo, per l’operato è dovuto al fatto che quello dei Sansevero non è un fatiscente mausoleo commemorativo, ma un tempio iniziatico strutturato secondo principi esoterici e codici massonici, meticolosamente curato nei dettagli e inossidabile al passare delle stagioni, seppur velato ai più. Di fatto, la Cappella andrebbe visitata almeno due volte nella vita: una per ammirarla restando senza fiato, l’altra per ricominciare a respirare e provare a capirla realmente. Il percorso iniziatico è oscuro, al di là dell’occhio retinico e della percezione spirituale comune, come sottolinea Martin Rua nella prefazione al suo Rituale di pietra

Un monumento come il tempio dei di Sangro non può e non deve essere visitato soltanto come una qualunque splendida cappella gentilizia barocca o rococò. L’intento del suo più famoso restyler – Raimondo Maria, VII Principe di Sansevero – era anche quello di comunicare un messaggio che andasse oltre l’immediata ed edificante simbologia cristiana, pure presente. Il Sansevero aveva in mente quel bagaglio di conoscenze a lui così caro e per il quale si era guadagnato il soprannome di Principe Riavulo, il Principe Diavolo. Conoscenze che spaziavano dall’alchimia all’ermetismo, dall’anatomia al simbolismo massonico. 

[1]

L’agile guida di Rua si propone, da massone a massone, di comprendere l’operato del Maestro, attraverso il ricorso a numerosi contributi, tra cui l’imponente Cappella filosofica del principe di Sansevero di Sigfrido E. F. Höbel e gli appunti inediti dell’esoterista napoletano Mario Buonoconto, resi disponibili dalla sua consorte e adepta Maria Grazia Ritrovato. Dopo una breve puntuale contestualizzazione, l’autore inscena un racconto in forma dialogata tra un maestro massone e un dotto apprendista alla scoperta dei misteri sepolti di Sansevero. Il dialogo permette al lettore di tornare con la mente nel luogo che ha visitato fisicamente in precedenza, con una coscienza rinnovata, ma comunque mai del tutto acquisita: il rito prevede necessariamente la partecipazione, qui ci si limita alla speculazione, bisogna tenerlo presente.

LEGGI ANCHE  Intorno alla spazialità sacra

Una speculazione inattuale tra le numerosissime opere marmoree abbagliate dal Paradiso dei Sangro, l’affresco che orna il soffitto realizzato da Francesco Maria Russo nel 1749 e incredibilmente, vista la sua brillantezza, non più ritoccato. A grandi linee le sculture possono essere suddivise in due grandi gruppi che si intervallano lungo il percorso: le dieci statue delle virtù e gli altrettanti monumenti celebrativi, nonché poche altre che non rientrano in queste categorie, ma non per questo meno importanti. Rifacendoci al testo di Rua, oltre alle finalità teleologiche e teologiche del complesso, la prima fondamentale indicazione fornita dal gran maestro è di carattere spaziale

Il punto in cui ci troviamo, l’ingresso principale, è l’Occidente; a destra c’è il Sud – che noi definiamo Colonna del Sud – a sinistra il Nord, ovvero Colonna del Nord, e di fronte vi è l’Oriente […] Non puoi andare in giro per l’Officina liberamente, ma devi sempre mantenere un andamento composto e regolare, quasi marziale, e partendo da Occidente deve passare per il Nord, quindi per l’Oriente e tornare a Ovest attraversando il Sud. Questa è la marcia del Massone attraverso il Tempio. 

[2]

Di questa profonda marcia non possiamo che ripercorrerne alcune significative tappe, privilegiando la comprensione della totalità rispetto alle singole parti. 

Monumento a Cecco de’ Sangro, Francesco Celebrano, 1766.

Al di sopra dell’ingresso della Cappella si trova il monumento in onore di Cecco di Sangro, realizzato da Francesco Celebrano nel 1766, che funge da guardiano del tempio e fonde in sé due tipi di significati. Il primo di carattere storico, data l’impresa compiuta agli ordini di Filippo II da parte dell’antenato del principe, rimasto nascosto per due giorni dentro una bara per poi uscirvi e conquistare la rocca di Amiens. Il secondo di carattere iniziatico: «Dunque non sbaglio se affermo che codesta scultura mi ricorda la seconda parte dell’opera al suo termine: il re che esce dal suo sepolcro. La prima parte della trasformazione, la Nigredo, è terminata e appare lo Zolfo o Oro filosofico» [3].

LEGGI ANCHE  Di Solstizi e Apocalissi: di Saturno e dell'Età dell'Oro

Lo spirito guerriero è alimentato dall’aquila sovrastante, mentre i due ippogrifi assicurano cura e protezione. In misura simile il rapporto tra significato essoterico ed esoterico si presenta nelle altre opere, iniziando dal Decoro, la prima delle statue dedicate alle virtù sul lato Nord, realizzata dal maestro Antonio Corradini. Sic floret decoro decus, recita la scritta sulla colonna: la bellezza che risplende attraverso il decoro e proietta la sua luce sulla Liberalità di Francesco Queirolo, la prima delle due sorveglianti del tempio, quella della colonna settentrionale, Boaz, simbolo di forza e determinazione. L’analisi dell’apprendista permette di comprendere il significato iniziatico dei principali elementi scultorei: 

A una prima analisi, la dama con la cornucopia rappresenta la stessa alchimia che mostra il compasso, simbolo della misura aurea e l’oro, simbolo dell’Opera raggiunta: la Grande Opera. L’aquila e la Cornucopia, che sono ai lati, sottolineano la sublimazione del concetto di ricchezza in ricchezza spirituale. […] Dalla cornucopia – colma di nessun frutto ma solo di metalli, che ci ricorda che di questi ultimi stiamo parlando – fuoriesce il latte che serve nell’Abluzione degli alchimisti e durante la quale la Materia viene sbiancata, mentre la cura con cui l’Alchimista deve operare ‘secondo peso e misura’ è evidenziata dalla presenza del compasso e delle monete che vediamo nella mano destra della nostra statua.

[4]
Liberalità, Francesco Queirolo, 1753-54.

Percorrendo tutto il versante Nord alla fine ci si trova in prossimità di uno dei tre capolavori generalmente riconosciuti della Cappella. La Pudicizia, realizzata dal Corradini nell’anno della sua morte (1752), è dedicata alla madre del principe riavulo, Cecilia Gaetani dell’Aquila d’Aragona, morta prematuramente nel 1710. In questa misteriosa composizione si fondono miti e tradizioni, dal culto della dea velata Iside all’episodio evangelico del Noli me tangere, in cui Cristo appare alla Maddalena in veste di giardiniere. Del resto sul velo sono sovrapposti numerosi fiori, volti a evidenziare il processo di disvelamento progressivo dell’Opera. Un percorso che trova nel Cristo velato di Giuseppe Sammartino il punto nodale. Originariamente commissionato al Corradini (deceduto dopo averne realizzato i bozzetti) e concepito per essere posto nella cripta sotterranea, il capolavoro per eccellenza è collocato al centro del tempio.

Il Cristo velato, oltre a lasciare senza fiato per la sua bellezza eterna scolpita in un solo grande blocco di marmo, colpisce per l’audacia con la quale è stato realizzato dal giovane artista napoletano, libero da teorizzazioni accademiche e prigioni ideologiche. Quasi paradossalmente il corpo ricoperto dal delicato sudario esprime vitalità, con le vene pulsanti poste in risalto per suggerire che proprio quello possa essere il momento della Resurrezione. Una celebrazione della vita oltre la morte, sostenuta dagli altri strumenti posti ai piedi del Signore, ermeticamente evidenziati da Höbel: 

La Tenaglia, estraendo i Chiodi […] permette infatti il distacco del Corpo dalla Croce elementare, estraendone la parte più pura, che può essere variamente indicata come Quintessenza, Colore Bianco, Candore o Conoscenza. Il terzo chiodo, posto sotto la Corona di Spine, si riferisce all’ultima Purificazione della Materia, sottoposta al Fuoco di Ruota nella fase della Cottura. La Corona di Spine, per finire, ripropone, con il triplice cerchio di rami, il simbolo delle tre purificazioni.  

[5]

Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum è la celebre iscrizione posta sulla Croce, che nel simbolismo alchemico muta in Igne Natura Renovabitur Integra. E se col fuoco la natura si rinnoverà completamente, la Resurrezione, in chiave iniziatica, non può che coincidere con il compimento dell’Opera

LEGGI ANCHE  Da Ganesha a Dioniso: lo smembramento e la (re)integrazione
Cristo velato, Giuseppe Sanmartino, 1753.

Dopo aver ammirato l’altare maggiore, con la Deposizione del Celebrano, si potrebbe ripercorrere il lato sud in maniera speculare al nord. Dinnanzi alla Pudicizia si trova il Disinganno del Queirolo dedicato ad Antonio di Sangro, il padre dissoluto del Principe, l’ultimo degli immortali capolavori della Cappella. La figura è avvolta da una prodigiosa rete di marmo, simbolo del peccato, di un valore tecnico così elevato da spaventare qualsiasi artista successivo alla sua emulazione. Un inno al vuoto che apre la strada verso un’altra statua del Queirolo, posta di fronte alla Liberalità, ovvero Educazione, la sorvegliante della colonna meridionale, Jakin, pilastro di bellezza immortale.

In conclusione, al di là dei significati particolari (la maggior parte dei quali tralasciata in questo contributo) e delle dottrine iniziatiche, vogliamo evidenziare la capacità di progettualità, visione e veggenza del tempio da parte di Raimondo. Un genio artistico-curatoriale da applicare ancora oggi a tutti i campi della cultura, al fine di dare vita a spazi viventi animati dalla meraviglia che, secondo Aristotele, è il primo momento del vero filosofare. Una cultura capace di affrontare attivamente le sfide del proprio tempo, lontana dalle logiche di consumo, sostenitrice di una ricerca virtuosa volta alla crescita personale e comunitaria. Dei percorsi che rigettino l’ideale di ignoranza come tratto distintivo della contemporaneità e restituiscano alla storia un ricordo eterno, come quello che i visitatori di tutto il mondo hanno modo di rivivere nella Cappella Sansevero.    


NOTE:

[1] M. Rua, Il rituale di pietra. Simboli e segreti della Cappella Sansevero, Alos edizioni, Napoli 2016, p. 7. 

[2] Ivi, pp. 39, 44. 

[3] Ivi, p. 41. 

[4] Ivi, pp. 46, 48. 

[5] S. Höbel, Cappella filosofica del principe di Sansevero, in Rua, p. 83. 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *