I Si-Te-Cah, antichi giganti del Nevada, e il mistero dei “Mounds”

Dalle antiche leggende delle tradizioni native alle spedizioni archeologiche di Thomas Jefferson fino alla misteriosa questione del presunto ‘cover up’ da parte dello Smithsonians Institute  


di GianMario Mollar
articolo originariamente pubblicato su FarWest.it.


Dimenticate, solo per un attimo, le teorie evoluzioniste che avete studiato sui banchi di scuola e ricominciamo da capo. C’erano una volta… i giganti. Una leggenda Paiute narra la storia dei Si-Te-Cah, un’antica stirpe di giganti cannibali dai capelli rossi che seminava il terrore in quello che oggi viene chiamato Nevada. Il nome significa letteralmente «mangiatori di giunchi», e si riferisce alla loro abilità nell’intrecciare le fibre di questa pianta acquatica per costruire zattere, utilizzate per guerreggiare con i loro nemici Paiute. I giganti, infatti, erano in costante conflitto con le tribù native che, dopo lunghi conflitti, si coalizzarono per sterminarli. Gli ultimi superstiti riuscirono a trincerarsi nella caverna di Lovelock, nel Nevada, ma gli indiani accumularono degli sterpi davanti all’apertura e li incendiarono. Quelli che non morirono asfissiati dal fumo, vennero uccisi con una pioggia di frecce e così si estinsero questi antichi e misteriosi abitanti del suolo americano.

Sarah Winnemucca (1844-1891), scrittrice nativa e figlia di un capo tribù, nel suo libro Life among the Paiutes: their wrongs and claims [1], avvalora questa leggenda, sebbene non faccia apertamente riferimento alla statura di questi antichi avversari del suo popolo.  La sua testimonianza parla di una «piccola tribù di barbari» che si cibava di carne umana:

« Dopo che il mio popolo li ebbe sterminati tutti, le tribù intorno a noi ci chiamarono Say-do-carah, che significa ‘conquistatore’, ma anche ‘nemico’. La mia gente racconta che la tribù che abbiamo sterminato aveva i capelli rossicci. Io possiedo un po’ di quei capelli, un cimelio che è stato tramandato di padre in figlio. Ho un vestito che è stato nella nostra famiglia per un gran numero di anni, tessuto con quei capelli rossi. Ho intenzione di indossarlo in una delle mie prossime conferenze. Viene considerato un vestito per il lutto, e nessuno ha un tale vestito oltre alla mia famiglia. »

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Fotografia d’epoca di una delle due spedizioni a Lovelock Cave.
Le spedizioni a Lovelock Cave

Molti anni dopo, nel 1911, due minatori, James Hart e David Pugh, si mettono a scavare nell’area. Non sono «cacciatori di ossa», come venivano definiti al tempo gli archeologi, ma ben più prosaici scavatori di guano della Hawaiian Fertilizer Company di San Francisco. Gli escrementi di pipistrello, infatti, sono da sempre utilizzati come fertilizzante e all’epoca venivano anche impiegati per produrre polvere da sparo ed esplosivi, a causa dell’alta concentrazione di nitrati. Lavorando di pala e piccone, i due si imbattono in alcuni reperti preistorici, che segnalano al professor Alfred Kroeber, fondatore del Dipartimento di Antropologia dell’Università della California. Questo ritrovamento fortuito dà origine alla prima spedizione archeologica a Lovelock, nel 1912, e a una successiva nel 1924.

Gli scavi sono coordinati da L. L. Loud e si dimostrano incredibilmente fruttuosi, in quanto ben diecimila reperti vengono riportati alla luce: ceste, vasi, strumenti, armi, ossa, esche per anatre – di fattura veramente ammirevole, tra le più antiche conosciute al mondo e con ancora delle penne attaccate – e circa sessanta mummie. Le datazioni al radiocarbonio ci parlano di una civiltà antica quasi 5.000 anni: la caverna era piuttosto frequentata nel 2.850 a.C., un po’ meno attorno al 1.000 a.C., fino al 440 a.C., quando un collasso ostruì l’accesso a gran parte della caverna. Da quel momento in poi, i pipistrelli diventarono gli unici abitatori della caverna, seppellendo i manufatti e le ossa degli antichi abitanti sotto uno strato di escrementi dallo spessore variabile di uno o due metri. Due dei corpi ritrovati sono davvero strani: hanno i capelli rossicci e sono più alti della media. C’è una mummia femminile che è alta quasi due metri, mentre quella maschile supera i due metri e quaranta!

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Articolo d’epoca del New York Times riguardante il ritrovamento di uno scheletro gigante a Maple Creek.

Ma non è tutto, perché la caverna di Lovelock riserva altre sorprese: un sandalo lungo 38 cm – una taglia 54! –, l’impronta di una mano, grande quasi il doppio di una mano “normale” e alcune ossa umane, fratturate in modo da facilitare la suzione del midollo. Insomma: l’antica leggenda dei giganti cannibali sembra riprendere vita e bussare alle porte della storia. E i ritrovamenti di Lovelock stanno a dimostrarlo… almeno in teoria.

I reperti menzionati sono visibili presso vari musei, le esche per anatre allo Smithsonian di Washington D.C., le ceste e le ossa al Nevada State Museum e molti manufatti nel piccolo museo storia naturale di Winnemucca, in Nevada. Delle spoglie dei giganti, invece, non rimane traccia. Secondo alcuni, sono state danneggiate e perse nel corso degli scavi, che non avevano l’accuratezza e il rigore dei giorni nostri: si dice, addirittura, che uno degli esemplari più belli sia stato messo a bollire e distrutto da una loggia massonica locale, che intendeva servirsi dello scheletro per non meglio precisati fini iniziatici.

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Secondo altri, invece, tali resti non sono mai esistiti. Fra questi, l’antropologa Adrienne Meyer, che sostiene che quella dei giganti sia una bufala inventata allo scopo di attirare turisti in Nevada, e che gli scheletri ritrovati fossero tutti di taglia normale [2]. La Meyer spiega anche il colore fulvo dei capelli delle mummie: dopo centinaia d’anni di sepoltura in un suolo con particolari condizioni climatiche e chimiche, il pigmento presente nei capelli può ossidarsi e assumere una colorazione bruno rossiccia, fatto che si può riscontrare in molte mummie di tutto il mondo e anche su alcuni antichi scalpi. È quindi probabile che i capelli rossi a cui si fa riferimento fossero in origine di colore corvino, come quelli di tutti i Nativi Americani.

Non da ultimo, va rilevato che, malgrado siano state molte le persone e le università coinvolte negli scavi nel corso degli anni, in nessun rapporto scientifico viene fatto il benché minimo riferimento ai giganti, sebbene si tratti di una notizia dalla portata assolutamente rivoluzionaria. C’è chi afferma, e lo vedremo tra poco, che si tratti di una deliberata strategia per occultare le prove.

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Rappresentazione di uno Stone Coat secondo il folklore irochese.
Giganti non solo in Nevada

E tuttavia il mito dei Si-Te-Cah non è l’unico a parlarci di antichi abitanti del continente americano dalle proporzioni gigantesche: anche gli Irochesi, situati molto più a nord-est, raccontano di Stone Coat, «Pelliccia di Pietra», un mitologico gigante (o, in altre versioni, una stirpe di giganti) di pietra alto il doppio degli umani, con il corpo ricoperto da scaglie dure come roccia, che respingono le normali frecce.

Associati all’inverno e al ghiaccio, questi giganti cacciano e mangiano gli esseri umani. Secondo alcune leggende, gli Stonecoats erano un tempo umani, che vennero trasformati da una maledizione in giganti cannibali a causa della loro malvagità, un po’ come accade nel mito del Windigo della tribù Chippewa [3]. In altri racconti, invece, gli Stonecoats erano un tribù di mostri primordiali.

Spostandoci più a sud, nelle Grandi Pianure, il Capo Comanche Ray Vibrante raccontava, nel 1857, di un’antica razza di giganti bianchi

« […] alta tre metri che, molte lune fa, fu più potente e fiorente di qualsiasi viso pallido ora vivente, che abitava su gran parte della nazione, estendendosi da dove il sole sorge a dove tramonta. »

Dilatando l’ambito della ricerca, si può riscontrare che l’archetipo del gigante è presente in moltissime culture e si estende ben oltre il Nord America: si pensi, ad esempio, ai Titani e ai Ciclopi di classica memoria, ai Nephilim delle narrazioni bibliche, agli Ogre delle mitologie nordiche e ai giganti del folklore andino [4]. L’antropologo italiano Mario Polia, nell’analizzare il ricorrere di tratti comuni in varie culture, identifica

« […] una tradizione comune persistente attraverso i secoli, i cui elementi fondamentali sono la mancanza di leggi morali — i giganti erano avidi, cannibali e incestuosi —, la loro capacità divinatoria — erano veggenti, conoscevano i pensieri di Dio e ne prevenivano i castighi —, l’abilità nel lavorare la pietra, nelle opere di ingegneria idraulica e nell’arte della tessitura e il loro potere magico negativo: erano stregoni. »

La stampa e Abraham Lincoln

Abbandonando la mitologia e tornando ai ritrovamenti “insoliti” negli Stati Uniti, va detto che Lovelock Cave non costituisce un unicum. Nel corso del XIX secolo, e anche nei primi anni del ‘900, furono molti i ritrovamenti di ossa «di enormi proporzioni» che salirono agli onori della cronaca, venendo talvolta citati anche da fonti autorevoli come il New York Times. Dall’Ohio al Wisconsin, dal Nevada al New Mexico, dalla Pennsylvania allo Stato di Washington, esistono decine e decine di articoli giornalistici dai titoli roboanti quali: «Giganti stupefacenti», «Scoperti teschi giganteschi», «grotta nascosta rivela una scoperta sorprendente». Si tratta, in genere, di articoli sensazionalistici, che non hanno alcun seguito, e, in alcuni casi, di vere e proprie bufale montate ad arte con rudimentali fotomontaggi.

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Kentucky Mound.

Tuttavia, una simile ridondanza dà da pensare. Tra i sostenitori dell’esistenza dei giganti, c’è almeno un testimonial d’eccezione: Abraham Lincoln (1809-1865). Nel 1848 ad Albany, il futuro Presidente degli Stati Uniti d’America, fortemente commosso da uno spettacolo naturale straordinario, pronuncia un discorso nel quale afferma:

« Le cascate del Niagara! Qual è la forza misteriosa che attira milioni e milioni di persone da tutto il mondo per ammirare le cascate del Niagara? […] Quando Colombo scoprì per primo questo continente – quando Cristo soffrì sulla croce – quando Mosè condusse Israele attraverso il Mar Rosso – no, anche quando Adamo per primo uscì dalla mano del suo Creatore – allora come adesso, il Niagara era qui a ruggire. Gli occhi di quella razza estinta di giganti, le cui ossa riempiono i tumuli dell’America, hanno contemplato il Niagara, proprio come i nostri in questo momento. Contemporaneo all’intera razza degli uomini, e più antico del primo uomo, il Niagara è forte, e fresco oggi come lo era diecimila anni fa. Il Mammut e il Mastodonte – ora estinti da così lungo tempo che restano solo frammenti delle loro ossa mostruose a testimoniare che un giorno vissero, hanno contemplato il Niagara […]. »

È vero, Abraham Lincoln non è passato alla storia per il suo contributo all’archeologia o all’antropologia, ma le sue parole testimoniano, quanto meno, una convinzione radicata nel pensare del tempo. Non solo, dal discorso emerge anche una connessione tra i giganti e gli antichi tumuli che costellano il territorio Americano. Il riferimento è ai Mounds, costruzioni precolombiane che risalgono fino al 3500 a. C. e sono soprattutto presenti nella valle del Mississippi. Si tratta di terrapieni, probabilmente con fini sepolcrali e cerimoniali, che potevano avere svariate forme: piramidi tronche, piattaforme, coni tronchi o arrotondati o, come nel caso del famoso Serpent Mound in Ohio, forme complesse e zoomorfe. All’interno di questi tumuli di terra, si trovano in genere ossa umane e suppellettili, quali armi o gioielli, che indicano la loro funzione funeraria e, presumibilmente, cultuale.

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Thomas Jefferson e l’enigma dei Mounds

Il dibattito su queste misteriose e monumentali strutture è antico. Uno dei primi ad avere un approccio scientifico nello studio dei Mounds fu un altro Presidente degli Stati Uniti, Thomas Jefferson (1743-1826), che, attorno al 1770, effettuò degli scavi in un tumulo conico situato nei pressi della sua residenza di Monticello, in Virginia, conosciuto con il nome di Indian Grave, al fine di indagare il modo in cui i defunti venivano sepolti. Nel corso degli scavi, giunse ad appurare che il mound, o barrow, come veniva allora chiamato, consisteva di una serie di fosse comuni sovrapposte le une alle altre fino a formare un cumulo, e riscontrò delle analogie con i costumi funerari degli indiani Monacan. Jefferson trovò un gran numero di «teschi, mandibole, denti, ossa delle braccia, femori, mani e piedi», che descrive con la precisione e il distacco tipiche dello scienziato, ma non parla assolutamente di giganti.

Gli studi più recenti vanno nella direzione tracciata da Jefferson, ovvero vedono nei Mounds l’espressione di una civiltà precolombiana autoctona, ma non sono mancate ipotesi ben più fantasiose, la cui gamma spazia dalle popolazioni atlantidee alle dieci tribù perdute di Israele, dai Vichinghi agli antichi Egizi. In questa selva di interpretazioni improbabili, si distinguono quelle di William Pidgeon (1800-1880), che, sulla base di analisi piuttosto improvvisate e non sempre aderenti alla realtà, giunse ad ipotizzare che i tumuli fossero il prodotto dei Dee-Coh-Dah, una civiltà più antica e ostile ai Nativi Americani.

Lo stesso Pidgeon, in un libro che conobbe una discreta fortuna, prima di venire sbaragliato dalle più fondate analisi dell’archeologo Theodore H. Lewis, affermava di essere riuscito a intervistare uno degli ultimi discendenti di questa stirpe leggendaria. All’interno dei Mounds, le ossa dei giganti occuperebbero, in genere, una posizione privilegiata rispetto alle spoglie “normali”, ad attestare una forma di rispetto e preminenza: i giganti sarebbero stati, quindi, re e dominatori dei costruttori di queste antichissime tombe.

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Vari articoli di giornali d’epoca riportanti la notizia del ritrovamento di presunti scheletri giganti nei misteriosi tumuli.
Conclusione

Insomma, da un lato abbiamo decine di articoli che raccontano di resti umani di proporzioni gigantesche, dall’altro abbiamo la comunità scientifica che resta inspiegabilmente indifferente a rivelazioni che, potenzialmente, potrebbero rivoluzionare il nostro modo di guardare alla storia del Continente Americano. C’è chi afferma, come Richard Dewhurst, che non si tratti di un semplice caso e che ci sia un vero e proprio disegno dietro alla scomparsa degli scheletri giganti, un insabbiamento programmatico ordito dalla Smithsonian Institution, il noto istituto di ricerca e istruzione amministrato e finanziato dal governo degli Stati Uniti, e, in particolare, dall’esploratore John Wesley Powell, che lo gestì dal 1879 al 1902.

Secondo Dewhurst, le ragioni per una simile operazione di copertura, all’epoca, sarebbero state molteplici [5]:

« […] dopo la Guerra Civile, lo Smithsonian cominciò ad adottare la politica di escludere qualsiasi influenza straniera precedente a Colombo nelle Americhe. Alcuni hanno pensato che fosse un tentativo da parte del frantumato governo dopo la Guerra Civile per minimizzare qualsiasi conflitto regionale ed etnico nell’ancora fragile ricostruzione nazionale in seguito alla guerra. Altri hanno indicato le politiche espansionistiche incorporate nella dottrina del Manifest Destiny e il desiderio di oscurare le origini delle tribù deportate e annientate dall’espansione a Ovest. Altri ancora hanno affermato che si trattava di una politica volta a contrastare il crescente problema religioso dei Mormoni, e la loro affermazione che le tribù perdute di Israele fossero da ricercarsi in America. »

A queste, andrebbe anche aggiunta la volontà di difendere la teoria evoluzionistica, recentemente affermatasi, da elementi incongruenti che avrebbero potuto metterla in crisi.

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Tuttavia, per quanto la teoria di Dewhurst possa essere ben documentata e non priva di fascino, occorre ammettere che la scienza “ufficiale” ha degli altri assi nella manica per escludere l’esistenza di esseri umani giganti. Tra questi, vi è la legge del cubo quadrato, un principio matematico enunciato da Galileo Galilei nel lontano 1638, che afferma che «all’aumentare delle dimensioni di una forma, il suo volume cresce maggiormente rispetto alla superficie». Questo principio, applicato alla biologia, implica che, aumentando le dimensioni del corpo umano, il peso e il volume corporeo crescerebbero in proporzione esponenziale, causando, ad esempio, il collasso delle ossa delle ginocchia e del bacino, oppure rendendo impossibile un corretto funzionamento della pompa cardiaca e dei muscoli dell’intero corpo. Se i giganti esistessero, dovrebbero avere una conformazione fisica diversa dalla nostra per poter sorreggere un peso ben maggiore.

L’esistenza degli antichi dominatori dell’America, quindi, viene messa fortemente in dubbio da due elementi: da un lato, al di là dei racconti giornalistici ai quali abbiamo fatto riferimento, c’è l’impossibilità di reperire prove documentali attendibili, dall’altro dobbiamo constatare l’impossibilità biologica e strutturale, a priori, dell’esistenza di esseri umani con proporzioni gigantesche [6].

Bisogna ammettere, tuttavia, che in questa cavalcata tra leggende indiane, antiche rovine e scheletri misteriosi, sono emersi aspetti stimolanti non solo per la fantasia, ma anche per l’approfondimento delle civiltà antiche del Nord America. Il fascino di questi argomenti non sfuggì all’antropologo e attivista nativo Vine Deloria Jr. (1933-2005), autore del celebre saggio Custer died for your sins: an Indian Manifesto, il quale afferma che le antiche rovine e le connessioni con lo Smithsonian [7]:

« […] ci danno una buona ragione per credere nel finale del film di Indiana Jones – un grande deposito nel quale sono sepolti i veri segreti della storia della terra […] L’archeologia e l’antropologia dei giorni nostri hanno quasi sigillato la porta sulle nostre immaginazioni, interpretando genericamente il passato nord-americano come privo di qualsiasi elemento inusuale […]. Il grande intruso degli antichi luoghi di sepoltura, la Smithsonian Institution del diciannovesimo secolo, ha creato un portale unidirezionale, attraverso il quale innumerevoli ossa si sono volatilizzate. Questa porta e il contenuto della sua camera blindata sono praticamente inaccessibili per chiunque non sia un funzionario del governo. Tra queste ossa potrebbero giacere risposte inerenti al passato profondo, che non vengono neanche prese in considerazione da questi funzionari. »

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Serpent Mound.

Note:

[1] Sarah Winnemucca Hopkins, Life among the Piutes: their wrongs and claims. Si tratta, fra l’altro, del primo testo autobiografico ed etno-antropologico redatto da una donna nativa.

[2] Tutt’al più, sostiene la Meyer, potrebbe trattarsi di una confusione con dei resti fossili di mammut o di orsi delle caverne, presenti nella regione, le cui ossa del bacino potrebbero ricordare quelle umane a un osservatore poco allenato. Se l’ipotesi pare assurda, basti pensare alla leggenda dei Ciclopi, originatasi, probabilmente, da un’errata interpretazione di scheletri di elefante, il cui foro della proboscide venne anticamente scambiato per la sede di un unico, gigantesco occhio.

[3] Sul Wendigo, cfr. Maculotti, La psicosi nella visione sciamanica degli Algonchini: Il Windigo e Mollar, Jack Fiddler, l’ultimo cacciatore di Wendigo.

[4] Sui giganti nel mito e nel folklore andino, cfr. Maculotti, Umanità antidiluviane, giganti, “gentili”.

[5] Richard Dewhurst, The Ancient Giants Who Ruled America: The Missing Skeletons and the Great Smithsonian Cover-Up.

[6] A meno che, beninteso, non si prendano per vere teorie poco ortodosse e scarsamente considerate dall’ambiente accademico dell’ultimo secolo, come quella di Hans Hörbiger; cfr. Pawuels e Bergier, Hans Hörbiger: la teoria del Ghiaccio Cosmico.

[7] Deloria Jr., Vine, Red Earth, White Lies: Native Americans and the Myth of Scientific Fact.


Bibliografia:

  • Richard Dewhurst, The Ancient Giants Who Ruled America: The Missing Skeletons and the Great Smithsonian Cover-Up. Bear & Company, 2013.
  • Marco Maculotti, Umanità antidiluviane, giganti, “gentili”
  • Sarah Winnemucca Hopkins, Life among the Piutes: their wrongs and claims. Enhanced Media Publishing, 2017.
  • Deloria Jr., Vine, Red Earth, White Lies: Native Americans and the Myth of Scientific Fact. Fulcrum Publications, 1997.

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