J. Evola: «Dioniso e la Via della Mano Sinistra»

Evola considera il Dioniso di Nietzsche in relazione con la cosiddetta «Via della Mano Sinistra», percorso iniziatico che comporta «il coraggio di strappar via i veli e le maschere con cui Apollo nasconde la realtà originaria, di trascendere la forme per mettersi in contatto con l’elementarità di un mondo in cui bene e male, divino e umano, razionale e irrazionale, giusto e ingiusto non hanno più alcun senso».


di Julius Evola
tratto da Ricognizioni. Uomini e problemi, cap. XII, pp. 79 – 85,
Edizioni Mediterranee, Roma 1985

 

Quali sono tratteggiati nell’esposizione di una delle prime opere, assai suggestiva, di Federico Nietzsche  La nascita della Tragedia  i concetti di Dioniso e di Apollo hanno una scarsa corrispondenza col significato che queste entità ebbero nell’antichità, specie in una loro comprensione esoterica. Ciò nondimeno qui ci rifaremo proprio a quella loro assunzione nietzschiana come punto di partenza, al fine di definire degli orientamenti esistenziali fondamentali. Cominceremo col presentare un mito.

Immerso nella luminosità e nell’innocenza favolosa dell’Eden l’uomo era un beato e un immortale. In lui fioriva l’«Albero della Vita» e lui stesso era questa vita luminosa. Ma ora sorge una nuova, inaudita vocazione: la volontà di un dominio sulla vita, il superamento dell’essere, per il potere di essere e non essere, del Si e del No. A ciò si può riferire l’«Albero del Bene e del Male». In nome di esso l’uomo si stacca dall’Albero della Vita, il che comporta il crollo di tutto un mondo, nel lampeggiamento di un valore che dischiude il regno di colui che, secondo un detto ermetico, è superiore agli stessi dèi in quanto con la natura immortale, a cui questi sono astretti, ha nella sua potenza anche la natura mortale, epperò con l’infinito anche il finito, con l’affermazione anche la negazione (tale condizione fu contrassegnata dall’espressione di «Signore delle Due Nature»).

Ma a questo atto l’uomo non fu sufficiente; lo prese un terrore, da cui fu travolto e spezzato. Come lampada sotto uno splendore troppo intenso  è detto in un testo cabbalistico , come un circuito percosso da un potenziale troppo alto, le essenze si incrinarono. A ciò va rapportato il significato della «caduta» e della stessa «colpa». Allora, scatenate da questo terrore. le potenze spirituali che dovevano essere serve, immediatamente si precipitarono e ghiacciarono in forma di esistenze oggettive autonome, fatali. Sofferta, resa esterna e fuggente a se stessa, la potenza prese le specie di esistenza oggettiva autonoma, e la libertà  l’apice vertiginoso che avrebbe instaurata la gloria di un vivere superdivino  si fece la contingenza indomabile dei fenomeni fra i quali l’uomo vaga, trepida e misera ombra di sé stesso. Si può dire che questa fu la maledizione scagliata dal «Dio ucciso» contro colui che fu incapace di assumerne l’eredità.

Con Apollo, inteso sempre in termini nietzschiani, si sviluppa ciò che deriva da questo venir meno. Nella sua funzione elementare, deve essergli riferita la volontà che si scarica di sé stessa, che non vive più se stessa come volontà, sibbene come «occhio» e come «forma»  come visione, rappresentazione, conoscenza. È appunto l’artefice del mondo oggettivo, il fondamento trascendentale della «categoria dello spazio». Lo spazio, inteso come il modo dell’esser fuori, come ciò per cui le cose non sono più vissute in funzione di volontà bensì sotto le specie di immagini e di visività, è l’oggettivazione primordiale della paura, dell’incrinarsi e dello scaricarsi della volontà: trascendentalmente, la visione di una cosa è la paura e la sofferenza riguardanti quella cosa. E il «molteplice», l’indefinita divisibilità proprie alla forma spaziale ne riconfermano il significato, riflettendo appunto il venir meno della tensione, il disgregarsi dell’unità dell’atto assoluto [1].

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Ma come l’occhio non ha coscienza di sé, se non in funzione di ciò che esso vede, del pari l’essere, reso esteriore a sé stesso dalla funzione «apollinea» dello spazio, è essenzialmente dipendente, legato: è un essere che si appoggia, che trae da altro la propria consistenza. Questo bisogno di appoggio genera la «categoria del limite»: la tangibilità e solidità delle cose materiali ne sono l’incorporazione, quasi la sincope stessa della paura che arresta l’essere insufficiente sul limitare del mondo «dionisiaco». Perciò la si potrebbe chiamare il «fatto» di questa Paura, di cui lo spazio è l’atto. Come caso particolare del limite, si ha la legge. Mentre colui che è da sé stesso non ha paura dell’infinito, del caos, di ciò che i Greci chiamavano l’apeiron, perché anzi vi vede riflessa la propria natura più profonda di ente sostanziato di libertà, colui che trascendentalmente viene meno ha orrore per l’infinito, fugge da esso e cerca nella legge, nella costanza delle sequenze causali, nel prevedibile e nell’ordinato un surrogato di quella certezza e di quel possesso da cui è decaduto. La scienza positiva e ogni morale potrebbero, in un certo senso, rientrare in una non diversa direzione.

La terza creatura di «Apollo» è la finalità. Per un dio, il fine non può avere alcun senso, dato che egli fuori di sé non ha nulla  né un buono, né un vero, né un razionale, piacevole o giusto  da cui trarre norma ed essere mosso, ma buono, vero, razionale, piacevole e giusto si identificano con ciò che egli vuole, semplicemente in quanto lo vuole. In termini filosofici, si può dire che della sua affermazione, la «ragion sufficiente» è l’affermazione stessa.

Invece gli esseri esteriori a sé stessi per agire hanno bisogno di una correlazione, di un movente dell’azione o, per meglio dire, della parvenza, di un movente dell’azione. Infatti in casi decisivi, fuori da contesti banalmente empirici, l’uomo non vuole una cosa perché la trova, ad esempio, giusta o razionale, ma la trova giusta e razionale semplicemente perché la vuole (la stessa psicanalisi ha dato, a tale riguardo, alcuni contributi validi). Ma di scendere nelle profondità in cui il volere o l’impulso nudamente si afferma, egli ha paura. Ed ecco che la prudenza «apollinea» preserva dalla vertigine di qualcosa che possa accadere senza avere una causa e uno scopo, ossia unicamente per sé stessa, e secondo lo stesso movimento con cui liberò la volontà in una visività, fa ora apparire, attraverso le categorie della «causalità» e della cosiddetta «ragion sufficiente», le affermazioni profonde in funzione di scopi, di utilità pratiche, di motivi ideali e morali che le giustifichino, su cui si appoggino.

Così tutta la vita della gran massa degli uomini prende il senso di un fuggire dal centro, di una volontà di stordirsi e di ignorare il fuoco che arde in loro e che essi non sanno sopportare. Tagliati fuori dall’essere, essi parlano, si agitano, si cercano, si amano e si accoppiano in richiesta reciproca di conferma. Moltiplicano le illusioni e così erigono una grande piramide di idoli: è la costituzione della società, delle moralità, delle idealità, delle finalità metafisiche, del regno degli dèi o di una tranquillizzante provvidenza, per supplire all’inesistenza di una ragione centrale, di un significato fondamentale. Tutte «macchie luminose a soccorso dell’occhio offeso per aver fissato nell’orribile tenebra»  per usare le parole di Nietzsche.

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Ora l’altro  l’oggetto, la causa, la ragione, ecc.  non esistendo in sé, essendo soltanto una apparizione simbolica del deficiere della volontà a sé stessa, con l’atto in cui questa chiede ad altro la sua conferma, in realtà va solo a confermare la sua stessa deficienza [2]. Così l’uomo vaga, simile a colui che insegue la propria ombra, eternamente assetato e eternamente deluso, creando e divorando incessantemente forme che «sono e non sono» (Plotino). Così la «solidità» delle cose, il limite apollineo, è ambiguo; esso viene meno alla presa e rimette ricorrentemente ad un punto successivo la consistenza che esso sembrava garantire e con cui lusingava il desiderio e il bisogno. Donde, oltre quella dello spazio, la categoria del tempo, la legge di un divenire di forme che sorgono e si dissolvono  indefinitamente , perché per un solo istante di arresto, per un solo istante in cui non agisse, non parlasse, non desiderasse, l’uomo sentirebbe crollare tutto. Così la sua sicurezza fra le cose, le forme e gli idoli è spettrale quanto quella di un sonnambulo che va sull’orlo di un abisso [3].

Tuttavia questo mondo può non essere l’ultima istanza. Non avendo infatti radice in altro, essendone soltanto l’Io il responsabile e tenendone egli entro di sé le cause, egli ha in via di principio la possibilità di operarne la risoluzione. Così è attestata una tradizione riguardante la grande Opera, la creazione di un «secondo Albero di Vita». Questa è l’espressione usata da Cesare della Riviera, nel suo libro Il mondo magico degli Heroi (2a ed. Milano, 1605), dove tale compito è associato alla «magia» e in genere alla tradizione ermetica e magica. Ma in questo contesto è interessante considerare ciò che è proprio alla cosiddetta «Via della Mano Sinistra». Essa comporta il coraggio di strappar via i veli e le maschere con cui «Apollo» nasconde la realtà originaria, di trascendere la forme per mettersi in contatto con l’elementarità di un mondo in cui bene e male, divino e umano, razionale e irrazionale, giusto e ingiusto non hanno più alcun senso.

Nel contempo, essa comporta il saper portare all’apice tutto ciò da cui il terrore originario è esasperato e che il nostro essere naturalistico e istintivo non vuole; saper rompere il limite e scavare sempre più profondamente, alimentando la sensazione di un abisso vertiginoso, e consistere, mantenersi nel trapasso, da cui altri sarebbero spezzati. Da qui la possibilità di stabilire una connessione anche col dionisismo storico, a tale riguardo entrando in questione non quello «mistico» e «orfico», bensì quello tracio, che ebbe alcuni aspetti selvaggi, orgiastici e distruttivi. E se Dioniso si rivela nei momenti di crisi e di crollo della legge, anche la «colpa» può rientrare in questo campo esistenziale; in essa il velo apollineo si squarcia e, messo di faccia alla forza primordiale, l’uomo giuoca la partita della sua perdizione o del suo farsi superiore a vita e a morte. È interessante che il termine tedesco per delitto comprenda il significato di uno spezzare (ver-brechen).

Un atto lo si può continuare a chiamare colpevole in quanto è un atto di cui si ha paura, che non ci si sente di poter assumere assolutamente, per cui si viene meno ad esso, che incoscientemente giudichiamo essere qualcosa di troppo forte per noi. Ma una colpa attiva, positiva. ha qualcosa di trascendente. Novalis ebbe a scrivere: Quando l’uomo volle divenire Dio, egli peccò, quasi che questa ne fosse la condizione. Nei misteri mithriaci la capacità di uccidere o di assistere impassibili ad una uccisione (anche se simulata) costituiva una prova iniziatica. Allo stesso contesto potrebbero essere riportati certi aspetti dei riti sacrificali, quando la vittima veniva identificata con la stessa divinità, eppure il sacrificatore doveva abbatterla affinché, superiore alla maledizione e alla catastrofe, in lui  ma anche nella comunità che in lui magicamente convergeva  si liberasse e passasse l’assoluto: la trascendenza nella tragicità del sacrificio e della colpa.

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Ma l’atto può anche portarsi su sé stessi, in alcune varietà della «morte iniziatica». Far violenza alla vita in sé, nell’evocazione di qualcosa di elementare. Così la via che in alcune forme dello yoga tantrico si apre a «kundalini» viene chiamata quella in cui «divampa il fuoco della morte». L’atto tragico del sacrificatore qui si interiorizza e diviene la pratica con la quale la stessa vita organica nella sua radice viene privata d’ogni appoggio, viene sospesa e trascinata di là da sé lungo la «Via Regia» della cosiddetta sushumnâ, «divoratrice del tempo».

È noto che storicamente il dionisismo ha potuto associarsi a forme di scatenamento frenetico, distruttivo e orgiastico, come nel tipo classico della baccante e del baccante (Dioniso = Bacco), della menade e del coribante. Ma qui è difficile separare ciò che può rifarsi alle esperienze dianzi accennate, da fenomeni di possessione, di invasamento, specie quando non si tratta di forme istituzionalizzate e legantesi ad una tradizione. Comunque è sempre da ricordare che qui ci si trova sulla linea della «Via della Mano Sinistra», la quale costeggia gli abissi, e andar sulla quale, è detto in alcuni testi, rassomiglia all’andare su di un fil di spada. Il presupposto, sia nel campo della visione (aprovvidenziale) della vita, sia di questi comportamenti è la conoscenza del mistero della trasformazione del veleno in farmaco, la quale costituisce la forma più alta dell’alchimia.

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Note:

[1] In questo contesto si potrebbe ricordare la teoria di Henri Bergson, il quale spiega lo spazio appunto come «il disfarsi di un gesto», con un processo inverso a quello onde molteplici elementi in uno slancio sono raccolti e fusi insieme e in una semplicità qualitativa.

[2] A ciò si potrebbe associare il senso più profondo della dottrina patristica, secondo la quale il corpo, il veicolo materiale, sarebbe stato creato al momento della «caduta» onde impedire l’ulteriore precipitare delle anime (cfr. per es. ORIGENE, De princip., I, 7, 5). Apollo è un tale dio prudente. Inoltre si pensi ad una paralisi dovuta ad uno spavento: è come un ritrarsi, un gettarsi indietro dell’Io, per via del quale ciò che era dominato e compreso organicamente come un corpo vivo e pulsante si fa cosa inerte, rigida, estranea. Il mondo oggettivo è il nostro «grande corpo» paralizzato  congelato o fissato dalla condizione del limite, attraverso la paura.

[3] Cfr. C. MICHELSTAEDTER, La persuasione e la retorica, parte II e passim.