Zalmoxis, Apollo Soranus & le Mannerbünde

In occasione della pubblicazione del primo paperback per le neonate Axis Mundi Edizioni, pubblichiamo in anteprima un estratto del primo capitolo de L’Angelo dell’Abisso. Apollo, Avalon, il Mito Polare e l’Apocalisse dedicato allo sciamanesimo geto-tracio (nella figura mitica del semidio Zalmoxis) e ai suoi rapporti con le pratiche sacre degli iatromanti apollinei.

di Marco Maculotti

Estratto dal cap. I §8 de l’angelo dell’abisso.
apollo, avalon, il mito polare e l’apocalisse,
axis mundi edizioni 2022

Esperto di morte apparente era infatti anche un personaggio semi-mitico che viene talvolta ricordato nell’alveo degli iatromanti pur non essendo greco: trattasi di Zalmoxis [1], definito da Mircea Eliade «un daimon o un theos che ‘rivela’ una dottrina escatologica e ‘fonda’ un culto iniziatico da cui dipende lo stato ontologico dell’esistenza ultraterrena» [2]. Venerato dai Geti, tribù semi-nomade della Tracia il cui territorio faceva da ponte tra l’ecumene ellenico e le steppe eurasiatiche, alcuni autori greci lo consideravano un discepolo o addirittura uno schiavo di Pitagora, narrando che questi lo avrebbe iniziato alle «scienze dei cieli» a Samo. Va da sé che leggende di questo genere sono il risultato di processi tardo-antichi di evemerizzazione e banalizzazione di processi storici e metastorici assai più complessi; nondimeno, per chi sappia leggere “tra le righe”, esse sono in grado di fornire più di un’informazione implicita, ad esempio, in questo specifico caso, una connessione tangibile per il tramite della Scuola Pitagorica con l’alveo sacrale apollineo. Le confraternite estatiche dacio-gete, d’altronde, sono state sovente paragonate a quelle iatromantiche e orfiche, nonché a quelle druidiche [3].

Di Zalmoxis, i Geti tramandano che trasmise ai suoi discepoli la dottrina dell’immortalità dell’anima, insegnando loro che dopo la morte sarebbero passati in un luogo dove avrebbero goduto di tutte le benedizioni immaginabili per l’eternità. Poi si ritirò in una cava naturale (andreon) sulla montagna sacra di Kogainon [4] nei monti Bucegi in Dacia (nell’odierna Romania) e discese nel mondo sotterraneo, dove restò per tre anni (alcuni racconti vogliono che durante questo periodo sia stato nell’Ade) [5]. I suoi fedeli — a cui egli appariva in visione sotto forma di «anima disincarnata» — piansero la sua prematura dipartita, ma al quarto anno egli ritornò in superficie, confermando così il suo insegnamento [6]. Quindi sparì nuovamente per comparire qua e là di tanto in tanto, presso le sue genti: e non con il corpo fisico che aveva in vita, ma sotto forma di daimon («spirito immortale»). Come commenta Eliade,

« la ‘scomparsa’ (occultazione) e la ‘ricomparsa’ (epifania) di un essere divino o semi-divino (re messianico, profeta, mago, legislatore) costituisce parte di uno scenario mitico-rituale assai diffuso nel mondo mediterraneo e asiatico. »

[7]
La caverna di Zalmoxis [via RomaniaJournal]

Erodoto riferisce le dottrine religiose dei Geti: essi credevano nell’immortalità dell’anima e, una volta iniziati ai Misteri correlati, reputavano la morte semplicemente un viaggio per ricongiungersi al loro dio Zalmoxis nella dimensione altra che egli per primo aveva scoperto (similmente allo Yama/Yima indo-iranico, che è al tempo stesso l’«Uomo Primordiale» e il Giudice dei Morti). Ellenico parla inoltre di due tribù tracie confinanti con i Geti, segnatamente i Terizi e i Crobizi, che pure credevano di raggiungere, dopo la dipartita fisica, il semidio Zalmoxis; tuttavia, a parere di questi ultimi, «la permanenza presso il dio non era definitiva e si consolavano pensando che i morti sarebbero tornati» [8]

La tradizione armena conosce una caverna dove si diceva che Meher (cioè Mihr/Mithra) si appartasse per uscirne soltanto una volta all’anno [9]; tema iranico che si ripercuote anche sulle leggende cristiane della Natività nella grotta di Betlemme. Sull’etimologia del nome Zalmoxis, che i manoscritti greci riportano anche in forme alternative come Salmoxis, Zamolxis, Samolxis, gli antichi hanno avanzato diverse teorie. Quella preponderante accosta il suo nome a quello di divinità telluriche come Zemelo e Žemelė, frigia la prima baltica la seconda, nonché con il dio lituano Zjameluks. Se questa etimologia fosse corretta, sarebbe innegabile anche la correlazione con Semele, madre del Dioniso trace (ricordiamo che i Geti erano Traci). Tutti questi termini derivano dalla radice indoeuropea *G’HEMEL («terra, suolo, appartenente alla terra»), che ci riporta all’àmbito simbolico ctonio-tellurico: e infatti a quanto pare Zalmoxis era anche chiamato Gebelezis [10].

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Per quanto riguarda il suo nome più noto, comuque, sembra che la questione non cambi: essendo xais un termine scito per indicare «signore, re, capo», possiamo tradurre Zalmoxis come «Signore della Terra» o «Re del Suolo» [11] (o probabilmente, meglio, del sottosuolo, inteso nel senso esoterico di dimensione sotto o piuttosto dietro quella ordinaria). Geticus propose la traduzione di «Re del Mondo» [12], citando Guénon e Ossendowski, e Porfirio registrò anche l’esistenza di un termine tracio, zalmon, che avrebbe il significato di «nascosto»: se fondata, farebbe di Zalmoxis il «dio nascosto», o il «dio occulto». Da ciò, alcuni vedrebbero in Zalmoxis anche il «Signore dei Morti», ma a parere di altri, tra cui il celebre ricercatore di storia tracia I.I. Russu, «il valore semantico del tema zamol – è “la terra”, “il potere della terra” e Zalmoxis non può significare altro che il “dio della terra”, personificazione di ogni forma di vita e del grembo materno in cui ritornano tutti gli uomini» [13]. Nondimeno, resta da sottolineare l’utilizzo del termine «nascosto» nella tradizione ungherese con riferimento allo stato degli sciamani durante la trance catalettica [14].

Tuttavia Diogene Laerzio testimoniò che in tracio Zalmosside significa «pelle d’orso», il che effettivamente potrebbe aver senso se letto in un’ottica iniziatica di männerbünde [15] del tipo dei Luperci romani o dei Berserkir e degli Ulfhedhinn — ovvero rispettivamente «coloro che hanno la pelle d’orso» e «coloro che hanno la pelle di lupo» [16] — e al tempo stesso in connessione con l’incubatio praticata dagli iatromanti apollinei, oltre che da Zalmoxis.

Questa connessione non è da sottovalutare se confrontata con le pratiche rituali dello “sciamanesimo apollineo”, in quanto si suppone che l’istituzione dei Luperci e la celebrazione dei Lupercali [17] fossero originariamente competenza dei sacerdoti di Sur/Soranus, detto l’«Apollo Nero»«dio-lupo» pre-romano, italico ed etrusco, che trova nell’Apollo Lyceus dei Licî [18] una perfetta corrispondenza), venerato con riti ancestrali sulla vetta del monte Soratte. I suoi sacerdoti divennero famosi nell’antica Roma con il nome di Hirpi Sorani («Lupi di Soranus»; dalla lingua osca-sannita-sabina hirpus = «lupo»), tra le altre cose perché la ritualistica ad essi riferita era profondamente imbevuta da suggestioni sciamaniche: nel corso delle cerimonie, essi camminavano sui carboni ardenti, tenendo in mano le interiora delle capre sacrificate. Secondo un’antica tradizione, «un oracolo consigliò ai loro antenati di condurre una vita dedita a rapine e razzie per sfuggire a una pestilenza» e di compiere un sacrificio annuale in onore di Apollo presso il Monte Soratte [19]. Con questa premessa, forse, si può azzardare l’ipotesi che Zalmoxis non fosse tanto una divinità, quanto piuttosto una funzione sacrale, fondata appunto sull’esperienza iniziatica dell’incubatio e del letargo visionario, all’interno dell’alveo cultuale e rituale apollineo.

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I riti misterici correlati allo spirito di uno iatromante di nome Anfiarao, che si diceva essere stato “risucchiato” dalla terra a Tebe e reso immortale in guisa di daimon sotterraneo [20] — che, a pensarci bene, è praticamente la stessa identica storia che viene raccontata su Zalmoxis [21] — ci possono dare motivo del perché potremmo propendere per l’interpretazione di Diogene Laerzio. Nell’ipogeo in cui Anfiarao fungeva da oracolo, infatti, l’incubatio avveniva all’interno di pelli di ariete appena scuoiato, pratica iniziatica che si ritrova anche in diversi centri oracoli della Puglia nonché, in età arcaica, nella ritualistica dell’India vedica. La pelle degli animali sacrificati conosceva un ampio utilizzo in questi centri sapienzali, dalla previsione del futuro alla magia meteorologica ai riti purificatorî; pratiche simili sono ancora oggi in vigore nelle steppe mongolo-siberiane e caucasiche.

Questa tradizione è riportata anche con riguardo all’eroe Podalirio, che si diceva essere figlio di Asclepio, e dunque apollineo. Anch’egli era diventato, dopo la morte fisica, un daimon sotterraneo, e i pellegrini che giungevano sulla sua tomba «sacrificavano un montone e dopo averlo scuoiato si avvolgevano nella sua pelle coricandosi a dormire proprio sul sepolcro», in quanto, per prendere in prestito le parole di Licofrone, «a tutti quelli che si addormenteranno sulla sua tomba in pelli di montone egli rivelerà in sogno oracoli veritieri e […] sarà invocato come guaritore di malattie» [22].

In più, tornando a Zalmoxis e all’ipotesi di Diogene, si deve aggiungere che l’orso è l’animale sciamanico per antonomasia in Asia come in America (dove ricopre il ruolo di Antenato mitico e di Iniziatore [23]) ed è sempre presente simbolicamente nei rituali di incubatio di questo genere, in quanto il neofita o l’adepto, emulando il letargo del plantigrado, riuscirebbe simpaticamente (vale a dire, con l’utilizzo della cd. «magia simpatica») a mettersi nei suoi panni. Tali pratiche sono state vive a lungo non solo in Siberia e in Eurasia, ma anche nell’Europa occidentale, soprattutto sui Pirenei — dove l’Orso è ancora oggi il personaggio centrale della celebrazione del Carnevale, nei panni del «capro espiatorio» da sacrificare per «cacciare l’inverno» — e nelle Isole Britanniche. Philippe Walter (autore di un pregevole studio sul mito del re Artù che ci verrà utile più avanti in questo nostro studio [24]) pone il dio-sciamano dei Geti in relazione con l’Artù bretone, basandosi anch’egli sul profilo etimologico e arrivando alle stesse conclusioni suggerite dal Laerzio:

« Questo nome derivato dal trace zalmos, “pelliccia, pelle”, ricorda il carattere ursino dell’essere divino avvolto alla nascita in una pelle d’orso [25]. […] Non solo Zalmoxis esalta l’esistenza di un Oltretomba in cui vivere in compagnia dei suoi fedeli, ma il suo destino “postumo” ha moltissimi punti in comune con quello di Artù, che parte provvisoriamente per Avalon, per poi tornare a regnare sui suoi. »

[26]

Note:

[1] Cfr. Mircea Eliade, Da Zalmoxis a Gengis Khan, Astrolabio-Ubaldini, Roma 1975, cap. II, “Zalmoxis”, pp. 26-71.

[2] Id., ivi, p. 33.

[3] Id., ivi, p. 61.

[4] Id., ivi, p. 56.

[5]  Id., ivi, pp. 34-35. Anche i Narti e gli Osseti, discendenti dagli Sciti, hanno tradizioni simili. Essi ritengono che post-mortem l’anima «giung[a] a un crocicchio di tre strade: le due laterali conducono l’una al cielo, l’altra all’inferno; si deve preferire quella di mezzo: il morto che la imbocca giunge al luogo dove, fra i Narti assisi, troneggia Barastyr, re dei Morti». Troviamo qui un tema importante ai fini della nostra ricerca: tradizionalmente si ritiene che l’anima dopo il decesso debba imboccare una via a discapito delle altre e che solo chi conosce la via giusta può arrivare nell’aldilà del dio. Questo è un punto di primaria importanza. La conoscenza delle vie celesti, sovente rappresentate sotto forma di fiumi (si pensi ad es. ai quattro fiumi inferi della mitologia greca, o agli altrettanti che sorgono dalla vetta del monte Meru nella cosmologia vedica) è indispensabile per arrivare al cospetto del dio, in uno stato post-mortem preferenziale rispetto alla massa indifferenziata di non-iniziati. Kowalewski fa derivare la figura del sovrano dei morti Barastyr dal mazdeismo, mettendolo in relazione con lo Yima indo-iranico. Tuttavia Dumézil, che lo cita, è dell’opinione che Barastyr sia un dio specificamente osseto, derivante, ad ogni modo, da una mitologia comune alla quale appartiene anche l’aldilà dell’India vedica che, a parere dell’autore, è più vicino alla descrizione dell’Oltretomba osseto [George Dumézil, Storie degli Sciti, Rizzoli, Milano 1980, p. 254].

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[6] Eliade, Zalmoxis, cit., p. 26.

[7] Id., ivi, p. 31.

[8] Id., ivi, p. 34.

[9] Id., ivi, p. 32.

[10] Id., ivi, p. 26.

[11] Id., ivi, p. 46.

[12] Geticus [alias Vasile Lovinescu], La Dacia iperborea, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1984, op. cit., p. 42.

[13] Eliade, Zalmoxis, cit., p. 47.

[14] Anikó Steiner, Sciamanesimo e folclore, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1980, pp. 34-36.

[15] Id., ivi, cap. I, “I daci e i lupi”, pp. 10-25.

[16] Cfr. Marco Maculotti, Metamorfosi e battaglie rituali nel mito e nel folklore delle popolazioni eurasiatiche, su «AxisMundi.blog», 18 maggio 2016.

[17] Per due brevi ma acuti commenti sulla confraternita prisca dei Luperci e i riti da compiuti in occasione dei Lupercali, cfr. George Dumézil, La religione romana antica, Rizzoli, Milano 1977; & Renato Del Ponte, Dei e miti italici. Archetipi e forme della sacralità romano-italica, Arya – Compagnia della Tradizione, Genova 2020, pp. 129-135.

[18] Cfr. infra, cap. II §6.

[19] Christian Sighinolfi, I guerrieri-lupo nell’Europa arcaica. Aspetti della funzione guerriera e metamorfosi rituali presso gli indoeuropei, il Cerchio, Rimini 2011, pp. 91-92.

[20] Cfr. infra, §13.

[21] È interessante a riguardo il passo di Mneso di Patara, discepolo di Eratostene, secondo cui «i Geti veneravano Cronos e lo denominavano Zalmoxis», che Eliade considera da connettere al culto di Saturno come «sovrano delle Isole Felici dove soggiornano le anime dei giusti» [Eliade, Zalmoxis, cit., p. 34]; a riguardo, cfr. infra, soprattutto capp. III §8 IV §1, 3.

[22] Mariateresa Fumagalli Beoni Brocchieri Giulio Guidorizzi, Corpi gloriosi. Eroi greci e santi cristiani, Laterza, Bari 2012, p. 62.

[23] Cfr. Antonio Bonifacio, I popoli dell’Orsa Maggiore: Lungo la via degli orsi e degli sciamani. Lo sciamano, l’orso e il cacciatore celeste, Simmetria Edizioni, Roma 2021. 

[24] Cfr. infra, cap. IV §§5 sgg.

[25] L’orso è inoltre legato anche alla regalità, oltre che alle pratiche sciamaniche: Artù dell’orso è infatti “doppio” antropomorfo, e al tempo stesso l’orso è suo “doppio” zoomorfo. Non è un caso se nell’antica Irlanda celtica la parola art stava indifferentemente per «Orso» e per «Re»; sicuramente il ciclo arturiano, storicamente nato in Bretagna (ovvero in un’altra terra gaelica) ha riutilizzato motivi mitici assai più arcaici sotto una veste nuova, adatta al periodo medievale e “cavalleresco”.

[26] Philippe Walter, Artù. L’orso e il re, Arkeios, Roma 2005, p. 86.

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