Ernst Jünger, “Al Muro del Tempo”: la “rottura di livello” e l’accesso al “fondo originario”

In occasione dell’anniversario di nascita di Ernst Jünger (29 marzo 1895) ripubblichiamo questo nostro articolo incentrato sulla sua opera Al muro del tempo precedentemente pubblicato su Barbadillo, Eumeswil e Il Centro Tirreno, in questa sede lievemente rivisto e ampliato.

di Marco Maculotti

originariamente pubblicato su eumeswil.cc, barbadillo.it & Ilcentrotirreno.it
in data 21 novembre 2021
copertina: dipinto di J. Evola

Con questo contributo ci prefiggiamo di analizzare alcuni dei concetti più pregnanti dell’opera di Ernst Jünger An der Zeitmauer (“Al muro del tempo”), originariamente pubblicata nel 1959, forse il lavoro più criptico e contemporaneamente quello più profetico del pensatore tedesco. Già precedentemente abbiamo analizzato altre prospettive del testo in questione, da quella astrologica1 a quella metastorica2, fino a metterne in luce le profezie avanzate dall’Autore3, più di sessant’anni fa, sull’Era dei Titani in cui ci troviamo a vivere. In questa sede andremo ad analizzare invece alcune questioni più metafisiche, avvalendoci, come negli articoli già pubblicati, del confronto, laddove necessario e illuminante, con alcuni autori contemporanei dello stesso Jünger e sotto certi versi a lui accostabili — segnatamente Mircea Eliade, Julius Evola e René Guénon — e persino altri con cui il confronto risulta ancora più sorprendente, in virtù del diversissimo background culturale ed esistenziale. Inizieremo il nostro discorso dal concetto di “rottura di livello”, strettamente connesso a quello di “uscita dalla storia” cui abbiamo già accennato nei precedenti studî, per poi proseguire sviscerando due delle locuzioni più enigmatiche e al tempo stesso significative dell’opera jüngeriana, vale a dire quelle di “fondo originario” e di “spirito della terra”.


La “rottura di livello”

Parlando dell’esperienza di “uscita dal tempo astratto”, così Jünger [§185] descrive la “rottura di livello”, che sola permetterebbe all’uomo di accedere alla dimensione trascendente: «Nel momento in cui lo spirito riesce a compiere, liberandosi della sfera dei fenomeni, dei passi verso le altezze o le profondità, questo nostro mondo di forme si dissolve: la luce diventa troppo forte, esso deve indietreggiare. Tutto ciò che è personale equivale a separazione, a prestito. C’è una felicità più grande di quella implicita nella personalità, ed è l’abnegazione. Qui padre e madre sono un’unica cosa». Commentando alcuni passi di quest’opera jüngeriana, L. Caddeo scrisse4 queste osservazioni riguardo questo genere di esperienza, sottolineando come essa derivi immancabilmente dall’incontro con quello che egli definisce “fenomeno originario”:

Quando l’intelletto incontra il fenomeno originario non può che fermarsi. Il suo impulso alla conoscenza è appagato perché è rischiarato da ‘qualcosa’ di eterno che non può essere valutato concettualmente ma che, in un senso difficilmente afferrabile, è il trascendentale di ogni misura, la sua possibilità. L’apparentemente infinito pathos della conoscenza trova così soddisfacimento, il mondo faustiano giunge a compimento.

Tali concetti, tipici della visione mitopoietica di Jünger, riecheggiano le ‘ossessioni’ dello storico delle religioni romeno Mircea Eliade riguardo quella che egli denominava “uscita dalla storia” e il conseguente accesso alla dimensione atemporale (o preter-temporale)5, ma anche le elucubrazioni di altri studiosi del ‘secolo breve’, usualmente etichettati come “Tradizionalisti”, tra cui René Guénon e Julius Evola. Quest’ultimo, a partire dagli anni Trenta, insistette sulla necessità di una rivoluzione innanzitutto interna che potesse conferire all’individuo sperduto nei meandri della modernità i presupposti per la creazione di un nuovo livello di coscienza6 . Tale trascendimento della realtà fenomenica (il velo di Maya della tradizione indo-buddhista) per accedere a un livello altro e ontologicamente superiore consiste, per Evola, nel superamento del gurdjieffiano “livello ordinario di veglia”, per giungere infine ad una “rottura di livello” che permetta l’accesso alla dimensione trascendente. Si tratterebbe innanzitutto7 di «essere centrali o rendersi centrali a se stessi, constatare o scoprire la suprema identità con se stessi […] percepire in sé la dimensione della trascendenza e ancorarvisi, farne il cardine che resta immobile anche quando la porta sbatte» per giungere infine all’«attivazione cosciente in sé dell’altro principio e della sua forza in esperienze, peraltro, non soltanto subìte ma anche cercate».

Ciò equivarrebbe, in ultima analisi — come parafrasò Pio Filippani Ronconi8 analizzando l’opera evoliana — ad «attivare un tipo di libertà che già in potenza gli uomini posseggono» o — come affermò Nietzsche, citato da Evola — di «imprimere al divenire il carattere dell’essere». Ciò, commenta Evola9 , «in fondo, porta ad una apertura di là dell’immanenza unilateralmente concepita, porta alla sensazione che “tutte le cose hanno avuto battesimo nella fonte dell’eternità e al di là del bene e del male”». La dimensione trascendente — l’Altro Mondo — non è un’altra realtà, bensì «un’altra dimensione della realtà, quella dove il reale, senza essere negato, acquista un significato assoluto, nella nudità inconcepibile dell’essere puro»10.

In questi termini, Evola parla della necessaria “rottura di livello”, tema centrale nel suo Cavalcare la tigre, che bisogna ricercare a tutti i costi, soprattutto nei tempi più ‘oscuri’11: «Imboccata la via dell’affermazione assoluta e avendo fatto proprie tutte quelle forme di ‘ascesi’ e di attivazione di una superiore intensità di vita […] l’unica soluzione di salvezza è data da un cambiamento cosciente di polarità, dalla possibilità che, ad un dato punto, in date situazioni o vicende, per una specie di rottura ontologica di livello l’estrema intensità della vita si trasformi, quasi si capovolga, in una qualità diversa» — questa trasformazione potendosi esprimersi, secondo l’autore, come il passaggio da uno stato di coscienza dionisiaco ad uno apollineo. Tale “rottura di livello” talvolta può avere12 «il carattere di una violenza fatta a se stessi […] l’accertare se si sa rimanere in piedi anche nel vuoto, nel senza forma».

Mediante tale atteggiamento, che Evola denomina “anomia positiva”, si trasformerebbe così, secondo l’antico precetto tantrico e pitagorico, il veleno nel farmaco, ovverosia si capovolgerebbe una situazione potenzialmente negativa in una effettivamente positiva, o quantomeno neutra. «Se l’esperimento ha un esito positivo — prosegue13 —, cade l’ultimo limite; trascendenza e esistenza, libertà e necessità, possibilità e realtà si congiungono. Sono realizzate una centralità e una invulnerabilità assolute, senza restrizioni, in qualsiasi situazione».

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E. Jünger

Il “fondo originario” e lo “spirito della terra”

Riteniamo necessario, a questo punto, concentrarci sul concetto, fondamentale ne Al muro del tempo di Ernst Jünger, di “spirito della terra”. Jünger intesse il suo ‘arazzo dialettico’ con le seguenti parole:

Questa visione dello spirito della terra dobbiamo immaginarcela come una corrente animata che attraversa il mondo e lo pervade, senza esserne ancora separata. Anche oggi è forza inconscia, e nondimeno imprescindibile, in ogni diagnosi e previsione.

[§79]

L’autore sembra quindi utilizzare la locuzione di “spirito della terra” — e in altri passaggi della sua opera quella, strettamente connessa, di “fondo originario” — in modo estremamente simile al concetto orientale di Akasha14, una sorta di ‘etere’ o ‘quintessenza’ conosciuta dalla tradizione induista: sostanza eterna e invisibile che tutto pervade, essenza di tutte le creazioni del mondo empirico, nonché elemento-base del mondo astrale; da non confondersi però con l’elemento più spirituale e sopraelevato, cioè il Brahman che coincide con il Logos dei Greci. Somiglianze con l’Akasha si possono rilevare piuttosto con quella che questi ultimi denominavano Zoé (ζωή), il principio e l’essenza della vita che appartiene in comune, indistintamente, all’universalità di tutti gli esseri viventi, oppure con la concezione esoterica del culto del Grande Dio Pan15, inteso come potenza trascendente e vivificante di tutti i livelli del cosmo, dalle stelle alle pietre, passando per daimones, uomini, animali e piante — e al tempo stesso disgregante dei medesimi, per ricondurli nuovamente, una volta concluso il rispettivo ciclo terreno, alla “fonte originaria” da cui tutto nasce e a cui tutto ritorna.

Forse in maniera ancora più significativa, il concetto jüngeriano di “fondo originario” trova un altro corrispettivo nella concezione neoplatonica, poi ripresa dal filone ermetico rinascimentale e più recentemente da C.G. Jung e J. Hillman, di Anima Mundi: la vita non opererebbe assemblando singole parti fino ad arrivare agli organismi più evoluti, ma altresì partirebbe da un principio unitario e intelligente, dal quale prenderebbero forma le piante, gli animali, gli uomini e ogni altra realtà empiricamente esistente. E se questo principio unitario è il Logos, il ‘telaio’ su cui l’intelligenza divina prende forma e diventa esperibile è la sua parte per così dire ‘femminile’, la sostanza eterna che è substrato di ogni cosa esistente e che riceve e riflette la luce inesprimibile del primo. Così questa Anima Mundi, nel senso jüngeriano di “fondo originario”, è Abisso fecondo e Grembo atemporale di ogni Creazione e avvenimento esperienziale, necessario tramite e conditio sine qua non per giungere infine, anche solo per un fugace attimo, al realmente Trascendente.

A parere di Jünger, nell’epoca del nichilismo e della “morte di Dio” il suddetto accesso al “fondo originario” permetterebbe così all’individuo differenziato un incontro effettivo con il divino: l’autore parla di questa esperienza definendola «uscita dal tempo astratto» [§13] e quindi, potremmo parafrasare, entrata nel tempo sacro. È, al tempo stesso, la “discesa agli Inferi” delle mitologie pagane e la discesa di Cristo all’Inferno per riscattare le anime dei dannati, nonché il triplice viaggio ultraterreno della Divina Commedia, che sottolinea, se ce ne fosse bisogno, che per arrivare al Paradiso è d’obbligo prima attraversare l’Inferno e il Purgatorio16. È proprio negli Inferi intesi come “fondo originario” che si possono incontrare le “potenze magiche” [§117]: solo così si può arrivare a conoscere le potenze celesti, ma solo e unicamente affrontando in primo luogo quelle titanico-asuriche che Jünger denomina, per l’appunto, “potenze magiche” o “mitiche”.

In questo sta il grande rischio della descensus ad Infera, eppure qui sta pure la battaglia da vincere adesso, al muro del tempo. Discendere nel “fondo originario” e immergersi completamente nel dualismo uranico-tellurico preter-temporale: questo è l’unico modo per entrare nella nuova èra. Solo così l’individuo potrà fare nuovamente esperienza del Sacro e della Verità. Potrebbe sembrare un concetto troppo esoterico (nell’accezione dispregiativa del termine), eppure Jünger sostiene che la sua visione può non essere del tutto in contrasto con le conoscenze scientifiche della nostra epoca, sottolineando che

Dietro ogni teoria scientifica e, in particolare, materiale, si cela oggi la credenza che l’essere risieda nel fondo originario e non nello spirito, e che proprio da quel fondo si solleva la bacchetta magica.

[§118]
Dipinto di J. Evola

In quale rapporto si trova l’uomo con questo “fondo originario”? Si può supporre — afferma il filosofo mitteleuropeo [§118] — che «il fondo originario aspiri alla spiritualizzazione e che a tal fine si serva (fra l’altro) dell’uomo come mezzo. Si tratterebbe allora di una nuova fase della spiritualizzazione della terra, alla stregua di molte altre che già hanno avuto luogo, e il compito responsabile dell’uomo dovrebbe essere quello di mantenerla in movimento onde evitare che, come per magia, si cristallizzi». Oppure, in alternativa, si potrebbe ipotizzare che l’uomo, grazie ad una sempre più elevata consapevolezza, «penetrando strato dopo strato — il più superficiale dei quali viene chiamato storia — arrivi in certa misura ad attingere il fondo originario, spiritualizzando e rendendo attive parti di esso. Là dove avverrà il contatto vi saranno risposte straordinarie». Già qualche anno prima, nel Trattato del Ribelle, Jünger vaticinava17:

Soltanto in apparenza tutto ciò è disperso in tempi lontani e in luoghi remoti. In realtà ogni uomo lo alberga in sé, a ciascuno è trasmesso in forma cifrata per permettergli di comprendere se stesso nella sua forma più profonda, sovraindividuale.18 

Da quanto detto, a guardar bene, ci verrebbe da ipotizzare che, in ultima analisi, entrambe le ipotesi possano essere considerate valide, essendo due facce della stessa medaglia; in ciò riconoscendo nuovamente il rapporto di comunione e reciprocità, che già abbiamo rilevato, tra cosmo e uomo concezione, peraltro, molto comune nella Tradizione e tra i tradizionalisti del Novecento. Secondo Eliade proprio questo processo di “cosmizzazione” o di “solidarietà con il cosmo” è la conditio sine qua non per oltrepassare il dominio degli yuga ed evadere dal tempo astratto. Guénon, da parte sua, confermò che l’assioma della reciprocità tra uomo e cosmo è assodata in tutte le culture tradizionali, giungendo ad affermare19:

Il ritenere la storia dell’uomo come isolata in qualche modo da tutto il resto è un’idea esclusivamente moderna, in netta opposizione con l’insegnamento di tutte le tradizioni che, al contrario, sono unanimi nell’affermare l’esistenza di una correlazione necessaria e costante tra l’ordine cosmico e quello umano.

Ancora qualche parola sull’utilizzo della locuzione “spirito della terra” ne Al muro del tempo. Jünger [§67] si riferisce ad esso con il termine “magico”, precisando il riferimento a «una forza terrena non ulteriormente spiegabile, il cui pendant all’interno del mondo fisico è dato dall’elettricità». In questo senso, «lo spirito della terra diventa magico solo nel momento in cui ritorna», in cui «lo vediamo coagularsi, cristallizzarsi e indurirsi come nelle prime città, le città dell’era dell’argento». Sembra dunque che egli intenda, per “spirito della terra”, quell’energia trascendente che si può azionare, richiamandola in vita dal “fondo originario” per poi utilizzarla all’interno dello continuum spaziotemporale. In questo senso, lo spirito della terra può ritornare negli uomini e nelle istituzioni, e unicamente attenendosi ad esso «culti, opere d’arte, città possono assumere carattere magico» [§67]. Con queste premesse, il concetto jüngeriano di “spirito della terra” si rispecchia anche nell’aither dei presocratici (Empedocle), visto come una forza vivificante, un «qualcosa di continuo che muoveva dalla superficie della terra fino alle stelle e oltre»20, che si sposta come un pendolo oscillante tra le regioni supere e quelle infere portando i suoi doni a tutti i livelli del cosmo.

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Lo “spirito della terra”, dice Jünger, non è sacro, almeno per come siamo abituati a intendere tale termine nelle religioni monoteiste, ma è piuttosto simile a quanto gli antichi Romani denominavano Genius e i Greci Daimon21: «Non dimora entro spazi privilegiati e chiusi. Piuttosto è lecito immaginare che si condensi e palesi in determinati luoghi, o anche in certi uomini, così come l’energia elettrica può rendere luminose alcune parti di un materiale» [§67]. Tale definizione appare, oltretutto, facilmente accostabile a concezioni arcaiche che si ritrovano un po’ ovunque, dal prana degli induisti al mana dei polinesiani; dallo huaca degli andini all’orenda degli irochesi del Sub-Artico. Ma, soprattutto, è da sottolineare la corrispondenza quasi perfetta con il significato originario del concetto latino di numen, termine che inizialmente non prevedeva un riferimento a una divinità specifica, ma altresì designava una forza sovrannaturale diffusa negli elementi naturali e cosmici, resi sacri dalla potenza divina che mediante essi si manifestava, a tutti i livelli del Mundus. Sotto questa luce, lo spirito della terra si presenterebbe come potere trascendentale e primordiale, forza vitale e vivificante dotata di efficacia simbolica, archetipica, e, in ultima analisi, dunque, “sacra” nella sua accezione arcaica e tradizionalmente riconosciuta in tutto il mondo.

Non è passato inosservato come la locuzione “spirito della terra” sia stata utilizzata, circa trent’anni prima della pubblicazione di An der Zeitmauer, dal poeta spagnolo Federico Garcia Lorca22, in rapporto al Duende, ovvero l’equivalente del Genius latino e del Daimon ellenico: esso è, secondo lo scrittore, «lo spirito della terra […] potere misterioso che tutti sentono e nessun filosofo spiega». «In tutta l’Andalusia — prosegue — la gente parla costantemente del duende e lo scopre appena compare con istinto efficace». Il significato del termine non viene mai esplicitato dall’autore, sebbene sia risaputo che, nel dialetto andaluso, si attribuisca innanzitutto a questo sostantivo il significato di “folletto”, benché si possa tradurre anche come “broccato” o “stoffa pregiata”. Nella duplicità concettuale del termine, dunque, viene messa in risalto da una parte una dimensione per così dire di elevazione e di eccellenza rispetto alla norma, dall’altra una più oscura e panica, che nondimeno si pone alla stregua di elemento fondante e causale della prima, più luminosa: 

Tutto ciò che ha suoni neri ha duende […] Questi suoni neri sono il mistero, le radici che affondano nel limo che tutti noi conosciamo, che tutti ignoriamo, ma da dove proviene ciò che è sostanziale nell’arte.

Ad ogni modo, nell’ottica di García Lorca allo stesso modo che in quella di Jünger, la dicotomia concettuale si armonizza coerentemente fra i suoi due opposti: solo colui che ha dentro di sé il duende (nel senso panico del termine) può aspirare all’eccellenza, ad elevarsi sui suoi simili, ciò non dipendendo dalla sua individualità, ma piuttosto dall’aver risvegliato in sé una sorta di forza primordiale che, “possedendo” l’individuo, lo conduce oltre i limiti stabiliti per il resto del consorzio umano. Alcuni aforismi del poeta spagnolo sembrano quasi scritti dallo stesso Jünger, soprattutto quando vaticina: «il duende è un potere e non un agire, è un lottare e non un pensare», e «non è questione di facoltà, bensì di autentico stile vivo; ovvero di sangue; cioè, di antichissima cultura, di creazione in atto».

Dipinto di N. Roerich

Bibliografia:

— Helena Petrovna Blavatsky, La dottrina segreta [1888]

— Luca Caddeo, Stereoscopici avvicinamenti, tratto da Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Cagliari, (vol LXV), 2011

— Stefano Cascavilla, Il dio degli incroci. Nessun luogo è senza genio, Exòrma, Roma 2021

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— Julius Evola, Cavalcare la tigre, Mediterranee, Roma 2012 [1961]

— Id., introduzione a R. Guénon, La crisi del mondo moderno, [1937]

— Pio Filippani Ronconi, J. Evola un destino, in G. de Turris (a cura di), Testimonianze su Evola, Mediterranee, Roma 1985

— Federico Garcia Lorca, Gioco e teoria del duende, Adelphi, Milano 2007 [1933]

— René Guénon, Forme tradizionali e cicli cosmici, Mediterranee, Roma, 2012

— Ernst Jünger, Al muro del tempo, Adelphi, Milano 2012 [1959]

— Id., Trattato del Ribelle, Adelphi, Milano 1990 [1951]

— Peter Kingsley, Misteri e magia nella filosofia antica. Empedocle e la tradizione pitagorica, Il Saggiatore, Milano 2007 [1995]

— Marco Maculotti, “Al muro del tempo”: la questione della Storia e la crisi del mondo moderno, su «AxisMundi.blog», marzo 2020

— Id., “Al muro del tempo”: le profezie di Ernst Jünger sull’Era dei Titani, su «AxisMundi.blog», marzo 2020

— Id., Arthur Machen, profeta dell’Avvento del Grande Dio Pan, in Aa.Vv., Arthur Machen. L’apprendista stregone, Bietti, Milano 2021.

— Id., Il dio degli incroci: nessun posto è senza genio, su «AxisMundi.blog», luglio 2021

— Id., Il “revival” dell’Astrologia nel ‘900 secondo Eliade, Jünger e Santillana, su «AxisMundi.blog», dicembre 2018

— Id., Parallelismi fra gli inframondi danteschi e la tradizione indobuddhista e sciamanica dell’Asia, su “Arthos” n. 30/anno 2021 [di prossima pubblicazione]


Note:

[1] Cfr. M. Maculotti, Il “revival” dell’Astrologia nel ‘900 secondo Eliade, Jünger e Santillana, su «AxisMundi.blog», dicembre 2018.

[2] Cfr. M. Maculotti, “Al muro del tempo”: la questione della Storia e la crisi del mondo moderno, su «AxisMundi.blog», marzo 2020.

[3] Cfr. M. Maculotti, “Al muro del tempo”: le profezie di Ernst Jünger sull’Era dei Titani, su «AxisMundi.blog», marzo 2020.

[4] L. Caddeo, Stereoscopici avvicinamenti, tratto da Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Cagliari, (vol LXV), 2011 e consultabile online sul sito “Centro Studi la Runa” (marzo 2012).

[5] Per approfondimenti si rimanda al già citato articolo Al muro del tempo: la questione della Storia e la crisi del mondo moderno [vedi nota 2].

[6] Nell’introduzione alla prima edizione italiana (1937) de La crisi del mondo moderno di R. Guénon, Evola scrisse: «Di là da tutto ciò che è condizionato da tempo e spazio, che è soggetto a cambiamento, che è intriso di sensibilità e di particolarità ovvero legato alle categorie razionali, esiste un mondo superiore, non come una ipotesi o astrazione della mente umana, sibbene come la più reale delle realtà. L’uomo può ‘realizzarlo’, cioè averne una esperienza così diretta e certa, quanto quella mediatagli dai sensi fisici, quando riesca ad elevarsi ad uno stato, appunto, superrazionale, o, come dice sempre il Guénon, di ‘intellettualità pura’, cioè ad un uso trascendente dell’intelletto, discioltosi da ogni elemento propriamente umano, psicologistico, affettivo e così pure individualistico o confusamente ‘mistico’».

[7] J. Evola, Cavalcare la tigre, Mediterranee, Roma 2012, pp. 62-63.

[8] P. Filippani Ronconi, J. Evola un destino, in G. de Turris (a cura di), Testimonianze su Evola, Mediterranee, Roma 1985,p. 122.

[9] Evola, op. cit., p. 50.

[10] Ivi, p. 62. La concezione dell’Altro Mondo trova i suoi primordi conosciuti nel Fedone di Platone [109a-113c], il quale si riferisce ad essa come “vera terra”, affermando che il mondo in cui viviamo è solo una pallida riproduzione di un’altra terra di dimensioni cosmiche, più pura e più bella della nostra, in cui vanno a vivere le anime purificate dopo la morte. I pitagorici, dal canto loro, parlavano di un “altro mondo etereo, celeste o olimpico”, spesso indicato come invisibile, a sua volta abitato; tra questi, Filolao la denominò antichtōn (“antiterra” o “controterra”) — vale a dire: una terra opposta alla nostra [P. Kingsley, Misteri e magia nella filosofia antica. Empedocle e la tradizione pitagorica, Il Saggiatore, Milano 2007, pp.101-2]. Nel suo significato letterale, «il termine evoca anche l’immagine di una terra a rovescio, una specie di terra-ombra, una terra riflessa o guardata allo specchio che rappresenta l’Altro Mondo: il mondo dei morti» [Ivi, p.187]. Si tenga in mente questa dicotomia apparentemente paradossale dell’Altro Mondo, al tempo stesso “mondo etereo”, “celeste” e “olimpico” e “mondo dei morti”, quando più avanti si analizzerà la concezione jüngeriana di “fondo originario” come sede al tempo stesso delle potenze magico-uraniche che di quelle mitico-titaniche.

[11] Evola, op. cit., p. 58.

[12] Ivi, p. 67.

[13] Ibidem.

[14] Secondo Helena Petrovna Blavatsky, iniziatrice della corrente teosofica di fine Ottocento, l’Akasha, in virtù della sua capacità di contenere e collegare ogni evento del continuum spazio-temporale, rappresenterebbe una sorta di “biblioteca universale”, che riunirebbe potenzialmente tutte le conoscenze del mondo e della storia cosmica (le cosiddette “Cronache di Akasha”) [cfr. La dottrina segreta].

[15] Cfr. M. Maculotti, Arthur Machen, profeta dell’Avvento del Grande Dio Pan, in Aa.Vv., Arthur Machen. L’apprendista stregone, Bietti, Milano 2021.

[16] Cfr. M. Maculotti, Parallelismi fra gli inframondi danteschi e la tradizione indo-buddhista e sciamanica dell’Asia, su “Arthos” n. 30/anno 2021 [di prossima pubblicazione].

[17] E. Jünger, Trattato del Ribelle, §20; trad. Adelphi.

[18] Nello stesso paragrafo, viene inoltre detto: «Sempre e dovunque c’è la consapevolezza che il mutevole paesaggio nasconde i nuclei originari della forza e che sotto l’apparenza dell’effimero sgorgano le fonti dell’abbondanza, del potere cosmico. Questo sapere non rappresenta soltanto il fondamento simbolico-sacramentale delle Chiese, non soltanto si perpetua nelle dottrine esoteriche e nelle sètte, ma costituisce il nucleo dei sistemi filosofici che si propongono fondamentalmente, per quanto distanti possano essere i loro universi concettuali, di indagare il medesimo mistero».

[19] R. Guénon, Forme tradizionali e cicli cosmici, Mediterranee, Roma, 2012, p. 13.

[20] P. Kingsley, op. cit., p. 30.

[21] Cfr., a riguardo, S. Cascavilla, Il dio degli incroci. Nessun luogo è senza genio, Exòrma, Roma 2021, e l’omonimo articolo dello scrivente pubblicato su «AxisMundi.blog», luglio 2021.

[22] F. Garcia Lorca, Gioco e teoria del duende, Adelphi, Milano 2007.

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